Sul lavoro. Il lavoro è un ricatto. Il ricatto è violenza.

Continua così da secoli e si è sempre chiamata per quella che è: “guerra di classe”. La fanno i padroni, chi detiene il capitale e stabilisce le regole del ricatto: hai fame? vuoi un reddito? Lavora per me, ti pago una miseria, ti rubo due terzi del tuo tempo di vita, io accumulo ricchezze e tu sopravvivi.
 Poi dopo vari spargimenti di sangue più o meno mondiali, più o meno convenienti per capitalisti e loro scagnozzi ai governi, è arrivata l’era della redistribuzione delle briciole non senza, per ottenerla, sollevazioni popolari per costringere la classe padronale e diminuire le ore di sfruttamento (da 12 a 8) e aumentare i soldi in busta paga. A quale prezzo? Scioperi, repressione, feriti, morti.
 Un periodo che è durato circa 30 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, poi, negli anni del “riflusso”, ha portato buona parte della classe sfruttata, in occidente, a considerare la “concertazione” come un’arma utile per continuare a strappare un po’ di benessere a chi ne detiene il 90%.

Sembrava andasse bene. 
È andata male. 
La concertazione ha di fatto consegnato nelle mani di un manipolo di burocrati e ceto sindacale qualsiasi possibilità di conflitto e cioè di “paura” con cui costringere chi ci fa guerra da sempre a concederci ancora un po’ di quella ricchezza che produciamo ogni giorno. 
Da 30 anni a questa parte abbiamo perso molte delle conquiste precedenti e precarizzato una fetta consistente di posti di lavoro.
 Un mondo improntato al consumismo e all’atomizzazione sociale, società costituite da masse di individui, desolidarizzati e incapaci di scorgere alcun futuro nelle proprie mani si sono consegnate ai fantomatici giochi dei fattucchieri liberisti e le loro classi politiche reazionarie o, all’occorrenza, progressiste quanto basta per imbonire lavoratori e lavoratrici a godersi le rate dell’auto, dei mutui e dei telefonini.
 In tutto questo tempo una fetta enorme, la gran parte, della popolazione mondiale, ha subito guerre e devastazioni attraverso la colonizzazione, l’occupazione e lo sfruttamento delle proprie terre, le rapine delle materie prime.

L’80% di queste risorse risiedono infatti fuori dall’occidente.
 La conseguenza è sotto gli occhi di tutti: un mondo depredato, escluso, rancoroso e disperato. A milioni si spostano laddove la ricchezza si concentra, a milioni sopravvivono in condizioni subumane, a milioni reclamano una vita dignitosa, almeno quanto quella di noi privilegiati, democratizzati e liberalizzati. 
Il capolavoro delle “nostre” classi dominanti è stato quello di prestare i loro occhi alle classi sfruttate così che guardassero con la stessa sicumera quanto avveniva: enormi masse di “barbari” vogliono conquistarci, depredarci, toglierci il benessere, le “nostre” tradizioni e la “nostra” cultura. 
Peccato che siano i loro interessi e profitti in gioco, non i nostri.

Le politiche razziste, nazionaliste e predatorie che passano sotto il nome di “missioni di pace”, “esportazione di democrazia”, chiusura dei confini, dei porti e pogrom verso i poveri di ogni risma, vecchi e nuovi, stanziali e migranti, disegnano una guerra a bassa intensità. 
I mass media utilizzano le stesse lenti dei padroni e così fanno passare le ingiustizie e le diseguaglianze come fatti di cronaca nera: i tentativi di chiedere diritti e reddito o non vengono mostrati o mostrati solo come questioni di ordine pubblico. 
La violenza quotidiana subita dalle fasce dei senza potere e degli esclusi, dei proletari e dei migranti non ammette alcuna possibile e legittima rivendicazione, non c’è posto per lotte, conflitti e azioni se non mediate da sindacati complici in primis della miseria attuale.

La violenza subita è “naturale”, al massimo val bene un servizio caritatevole in seconda serata o un passaggio dell’omelia del papa progressista.
 Se qualcuno prova ad alzare la testa e tentare di riprendersi un po’ di dignità e maltolto diventa violento, estremista e anacronistico.
 La violenza verso il basso è sempre legittima, quella verso l’alto diventa sempre criminale e terrorista.
 Oppure è tollerata se è violenza verso altri che stanno più in basso (rom, sinti e minoranze etniche), verso migranti, profughi e rifugiati. 
La destra fa proseliti soffiando sul fuoco della comunità escludente che gli è storicamente proprio.
 La sinistra ormai ridotta a sottopancia della borghesia nazionale usa la retorica della pace sociale come panacea.

Ci viene in aiuto, per inquadrare bene la situazione, un fatto da poco avvenuto a Pordenone, dove possiamo nuovamente verificare questa narrazione tossica in cui dei “cattivi” sono stati subito individuati, arrestati e prontamente sacrificati col ricatto degli unici esili diritti a cui possono aspirare: un permesso di soggiorno, un codice fiscale, un attestato di domicilio. Lavoratori sottopagati, mal pagati e spesso non pagati dopo decine di ore al giorno al soldo di caporali (spesso migranti come loro), a loro volta al servizio di imprenditori agricoli locali, provano a sopravvivere in una delle tante province anestetizzate e omertose, nella speranza gli venga riconosciuta la domanda di rifugiato.
 Ore nei campi, spesso senza pranzo e senza mezzi di trasporto, si affidano al buon cuore di qualche kapò per panini al sacco e passaggi in auto.

Dopo settimane di questa vita questi cinque rifugiati hanno deciso che almeno quei quattro soldi pattuiti dovevano averli: all’ennesimo diniego decidono di passare alla vie di fatto accerchiando, minacciando e menando chi gli aveva garantito quel misero reddito.
 Succede in centro città.
 Succede sotto gli occhi di alcuni passanti e dei commercianti (spesso migranti anch’essi) di P.zza Risorgimento, la piazza multietnica.
 Arriva la polizia e l’arresto immediato. Paginone sui giornali e solita manfrina: violenza inaudita, linciaggio, stranieri, paura.
 Nessuno si chiede come sia possibile nel 2021 arrivare a dover minacciare per avere i soldi che si sono guadagnati sgobbando a livello semi schiavistico.
 Nessuno si è chiesto se quelle condizioni di lavoro siano violenza.
 Nessuno ha chiesto l’arresto per chi li sfruttava e non li pagava.


Incredibilmente, l’unica violenza emersa è quella di chi nella disperazione di una condizione precaria assoluta tenta di avere ciò che gli spetta. 
Noi allora rispondiamo che se la violenza non è mai un bene, quella di chi si ribella a soprusi e sfruttamento è comunque l’unica accettabile.
 Noi sosteniamo che di fronte al deserto organizzativo e solidale di una comunità indifferente alla rassegnazione con il suo portato di annichilimento, abbrutimento e degrado ogni atto di rivolta è comunque più giusto.
 In questa ennesima schifosa caccia alle streghe noi decidiamo di spegnere i roghi, liberare i capri espiatori e far cambiare di campo la paura e, per uscire da questo folle suicidio collettivo, ci battiamo per organizzarsi, coordinarsi e lottare per sovvertire lo stato di cose presenti.
 L’unica società che desideriamo e per la quale siamo disposti a rischiare i nostri fragili diritti rimasti, visti da chi ne è escluso come privilegi, è quella fatta da libere ed uguali. Tutto per tutt*, niente per noi.

An Arres

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