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Scienza ed Anarchia – 3 Quando Giocano con le Nostre Vite

Scienza ed Anarchia – 3  Quando Giocano con le Nostre Vite

L’idea della differenza/separazione tra le “due culture” – quella umanistica e quella scientifica – che agivano su terreni diversi ed inconciliabili, creando due mondi intellettuali differenti ed incapaci di comprendersi, è nata nel 1959, quando Charles Percy Snow poneva la questione di come recuperare quella scissione.[1] Questa rubrica intende affrontare la questione dal punto di vista, per così dire, “militante”: poiché i “saperi” politici che un militante sviluppa sono in gran parte ascrivibili alla cultura umanistica ed alle cosiddette “scienze sociali”, quanto si perde nel non saper maneggiare un minimo determinate conoscenze provenienti dalla cultura scientifica in senso stretto che possono servire, invece, a comprendere lo stato attuale delle cose, sostanziarne la critica ed individuare le strade per il suo superamento?

Teoria dei Giochi – 3 (fine)

Negli articoli precedenti abbiamo mostrato come la Teoria dei Giochi, nonostante sia correntemente utilizzata per analizzare e dirigere al meglio i “giochi” economici del capitalismo, sia anche utile a comprendere e criticare lo stato attuale delle cose ed individuare le strade per il suo superamento: abbiamo prima mostrato come essa sia utile in generale per comprendere il senso positivo del comunismo anarchico; poi, analizzando il “Teorema della Rovina del Giocatore” abbiamo mostrato come essa porti, da un lato, ad annullare ogni pretesa “progressiva” del capitalismo, dall’altro, a mostrare come sia le strade socialdemocratiche sia quelle “rivoluzionarie” basate sull’idea di una “fase di transizione” non possano che portare a ricostituire il capitalismo liberista. Terminiamo ora con il “Dilemma del Giocatore” che, vedremo, permette di capire come difendersi efficacemente contro le strategie repressive del potere.

Il “Dilemma del Prigioniero” è forse l’aspetto più famoso della Teoria dei Giochi: un gioco non cooperativo, a somma variabile (che cioè varia in seguito a diverse strategie potenzialmente messe in atto dai contendenti) e rappresentabile in forma normale (cioè può essere rappresentato in forma estensiva, in altri termini l’intera strategia può essere raffigurata tramite un completo ed articolato “albero delle decisioni”).[2]. Le condizioni del gioco sono queste: abbiamo due prigionieri – A e B – accusati di un delitto ed ognuno dei due può fare solo due scelte – Confessare (C) o Non Confessare (NC) il crimine di cui li si accusa, indipendentemente dalla propria od altrui colpevolezza effettiva e in una situazione giuridica di pieno arbitrio sui criteri decisionali.

 

 

Prigioniero B
Prigioniero A C NC
C 5 ; 5 0 ; 10
NC 10 ; 0 1 ; 1

Le cifre (0, 1, 5, 10) indicano gli anni di carcere che otterranno in relazione alla alternativa scelta. Ciascuno dei prigionieri è all’oscuro della scelta che ha fatto o farà l’altro ma conosce il risultato cui la sua scelta porterà in relazione alla scelta dell’altro. Tra i due non c’è alcuna forma di comunicazione. La scelta razionale di A risulta essere la confessione, quale che sia stata o sarà la decisione di B. Infatti, se il prigioniero B confessa, confessando anche lui avrebbe 5 anni di carcere ma se, invece, non confessasse sconterebbe 10 anni; se invece il prigioniero B non confessa, confessando il prigioniero A otterrebbe la libertà, non confessando otterrebbe un solo anno di carcere. In maniera simile, basandosi cioè sulla stessa tavola, qualunque sia stata o sarà la scelta di A anche a B conviene confessare. Infatti, se il prigioniero A confessa, confessando anche lui avrebbe 5 anni, non confessando addirittura sarebbe libero. Se invece il prigioniero A non confessa, se il prigioniero B confessasse sarebbe libero anche in questo caso, mentre non confessando entrambi prenderebbero 10 anni. Nonostante ad entrambi converrebbe la non confessione del delitto e prendersi solo un anno a testa, agendo come puri agenti razionali entrambi confesseranno e si beccheranno 5 anni a testa.

Anche qui si possono fare due considerazioni finali. La prima è che in questo caso non c’è bisogno alcuno di mostrare come il Dilemma del Prigioniero possa essere utilizzato come strumento di critica allo stato presente delle cose, in quanto è stato continuamente applicato a situazioni come la corsa agli armamenti o similari, evidenziando come la gerarchia umana e le conseguenti lotte di potere portino a scelte che, se dal punto di vista della astratta razionalità individuale possono apparire quelle dotate di maggiore logicità interna, di fatto conducono ad uno scadimento non solo dell’utilità generale ma anche di quella del singolo individuo. L’altra è evidenziata alla fine della discussione che del Dilemma del Prigioniero è fatta alla fine della Pragmatica della Comunicazione Umana:[3] la decisione migliore che si può prendere in casi come questi avviene effettivamente solo nei casi in cui tra gli agenti in gioco esiste un particolare elemento in comune, che potremmo chiamare “visione del mondo”.

In altri termini, entrambi i prigionieri sanno quale, all’interno della loro specifica e comune visione del mondo, sarà il comportamento dell’altro. Le ideologie individualistiche ed atomizzanti porteranno i prigionieri ad agire in maniera tale da condurre al risultato desiderato dal potere giudicante; le ideologie comunitarie se non comunistiche tenderanno invece – se non sono Meccanismi Ideologici di Dominio – ad ottenere il risultato migliore per gli individui e le collettività.

In che consiste poi un Meccanismo Ideologico di Dominio? Innanzitutto va specificato che si tratta di un meccanismo che, da un lato, prescinde nei suoi effetti, dall’intenzionalità o meno con cui viene messo in atto e che, dall’altro, necessita di un qualche controllo dei processi di comunicazione sociale e politica. In generale, un Meccanismo Ideologico di Dominio ha la seguente forma:

La comunicazione parte da un obiettivo politico, sociale, culturale, morale, ecc. oggettivamente desiderabile, perlomeno dalla grande maggioranza delle persone, che viene sbandierato ai quattro venti in quanto tale, insieme all’idea della necessità del suo raggiungimento.

Intorno a quest’obiettivo si costruisce un complessivo sistema di idee dove, però, ad un certo punto, si inserisce una Fallacia Logica – la cosiddetta Conclusione non Pertinente: si indicano come mezzi per raggiungere l’obiettivo in questione strumenti non solo del tutto incongrui ma che, se attuati, allontanano dal raggiungimento di questo interesse generale e, invece, servono degli interessi particolari – solitamente quelli delle classi dominanti.

Questo genere di visione falsata del mondo porta, dunque, ai comportamenti autolesionistici della maggioranza degli esseri umani che ben conosciamo. Un esempio classico di Meccanismo Ideologico di Dominio può ben essere l’Ideologia del Libero Mercato: questa afferma che occorre abbassare il costo delle merci (l’obiettivo ampiamente desiderabile), dopodiché propone per raggiungere lo scopo l’abbattimento del costo del lavoro. Alla fine le merci costano (forse) meno rispetto a prima, di sicuro la maggioranza di noi, con un salario impoverito, ne può acquistare meno di prima quando apparentemente costavano di più – il tutto a vantaggio solo delle classi superiori della società.

Individui e popolazioni che vengono soggiogate da uno di questi meccanismi, in effetti, sono vittime di una variante del “Dilemma del Prigioniero”: se non possiedono una forte e diffusa ideologia solidaristica, libertaria e comunistica non vedono spesso altra soluzione ai loro problemi che prescinda da una visione del mondo individualistica ed atomizzante. Non è pertanto un caso se il potere politico, sociale, economico e culturale veicoli nelle popolazioni soggette, oltre ai Meccanismi Ideologici di Dominio, ideologie individualistiche e superoministiche spacciate, magari, per “rivoluzionarie”. Anche così si raggiunge lo scopo delle classi dominanti: tenere “prigioniere” le classi dominate.

Lo spazio di un articolo su Umanità Nova cartaceo, purtroppo, non ci permette di analizzare come la Teoria dei Giochi permetta di sviluppare efficaci strumenti di difesa contro un dispositivo classico del potere: la cosiddetta “provocazione” poliziesca. Troverete però quest’analisi – “La Provocazione. Cos’è. Come la si Riconosce. Come ci si Difende. Un Approccio dal Punto di Vista della Teoria dei Giochi e della Comunicazione” – in appendice a quest’articolo su umanitanova.org dove si analizzerà anche un altro classico scenario della Teoria: il “Compito in Classe del Tutto Imprevisto ed Imprevedibile”.

Enrico Voccia

NOTE

  1. Vedi la traduzione italiana SNOW, Charles Percy, Le due Culture, Venezia, Marsilio, 2005.
  2. Quella normale è la rappresentazione più semplice e facilmente costruibile quando gli agenti in gioco sono solo due, ognuno dei quali può prendere una sola decisione tra quelle possibili alla volta ed il numero di possibili strategie è ridotto. In altri casi la rappresentazione in forma normale può essere difficile se non impossibile.
  3. Traduzione italiana WATZLAWICK, Paul, BEAVIN, Janet Helmick e JACKSON, Don D., Pragmatica della Comunicazione Umana. Studio dei Modelli Interattivi, delle Patologie e dei Paradossi, Roma, Astrolabio, 1971.

APPENDICE

La Provocazione

Cos’è. Come la si Riconosce. Come ci si Difende.

Un Approccio dal Punto di Vista della Teoria dei Giochi e della Comunicazione

Premessa

Gli stati, i loro apparati di polizia — legali o “illegali”, palesi o segreti — usano da sempre l’arma della cosiddetta provocazione contro i movimenti d’opposizione. Si tratta di uno strumento di lotta politica molto efficace, la cui grossolanità è solo apparente: il fatto di aver vissuto sulla propria pelle decine d’episodi provocatori, non rende quasi mai i militanti di queste strutture capaci di approntare una prassi difensiva di reale efficacia. Nonostante tutte le attenzioni che questi ultimi possono porre (nel cercare di rendere difficili le infiltrazioni, nel dotarsi di buoni strumenti di controinformazione, ecc.) è raro che le operazioni provocatorie – se condotte con un minimo di criterio “professionale” – non raggiungano almeno parzialmente gli obiettivi previsti. Può essere perciò di qualche utilità tentare un’analisi il più possibile in termini oggettivi ed operativi di questa classica strategia di potere dello Stato, per tentare di metterne in luce le – purtroppo – indubbie potenzialità ma, al contempo, cercare di evidenziarne determinati limiti.

Cos’è una Provocazione

Cosa sia un’azione provocatoria è relativamente facile a dirsi. Solitamente nel bel mezzo della crescita di un movimento di opposizione, lo Stato effettua – o fa effettuare da quello che nel gergo dei servizi segreti è definito l’“utile idiota” di turno – un’azione “terroristica” più o meno efferata, le cui caratteristiche sono pressappoco le seguenti:

1. L’azione in questione è rivolta o contro una parte della società “neutra” rispetto allo scontro in atto (sulla cui presa di posizione si svolge una battaglia politica tra l’apparato di potere e gli oppositori) o – in apparenza – contro lo Stato stesso. Un esempio paradigmatico della prima possibilità può essere proprio la “Strage di Stato” del 12 dicembre 1969 contro la Banca Nazionale dell’Agricoltura: in tale occasione fu simbolicamente attaccata la provincia agricola italiana, in un periodo di scontro sociale tra lo Stato e movimenti operai e studenteschi a base prevalentemente metropolitana, che però si stavano estendendo a macchia d’olio anche nelle province. Esempio concreto della seconda possibilità può essere invece l’assassinio di Calabresi, compiuto molto probabilmente dai servizi segreti italiani per eliminare un testimone scomodo della Strage di Stato e ancora oggi veicolato dai mass-media e dalla magistratura come un attacco “sovversivo” alle istituzioni.

2. L’azione è rivendicata – esplicitamente e/o implicitamente – a nome di qualche componente del movimento di opposizione (per giustificare la repressione complessiva di quest’ultimo e/o innescare processi di desolidarizzazione al suo interno — vedi sempre la Strage di Stato) oppure a nome di un nemico paraistituzionale di questi (per compattare il movimento antigovernativo intorno alla struttura statale contro il nemico comune – vedi l’attribuzione a destra delle varie stragi nella “strategia del terrore” ed i conseguenti appelli alla “difesa della democrazia”).

3. Per definizione poi – pena cioè il suo immediato riconoscimento come tale ed il conseguente fallimento – l’azione provocatoria deve essere la piú possibile ambigua. L’ambiguità di cui parliamo consiste nel fatto che tale azione deve ingenerare, non solo tra la “gente comune” ma persino tra i militanti del movimento d’opposizione, l’irrisolvibile dubbio che essa possa essere stata effettivamente compiuta da qualche propria “scheggia impazzita” o dal nemico politico paraistituzionale. Il dubbio ingenera automaticamente nel movimento un’enorme difficoltà a reagire in modo opportuno. In un caso, per paura di criminalizzare ulteriormente dei “compagni che sbagliano” ma che, in ogni modo, non sono “soggettivamente” dei provocatori, o, al contrario, per la fregola irrazionale (scusa non richiesta, accusa manifesta) di dissociarsi al più presto possibile dai presunti provocatori, “soggettivi” od “oggettivi” che siano; nell’altro caso per la automatica reazione di sdegno contro il nemico politico e/o per scaricare immediatamente su di lui possibili responsabilità. Tutte queste reazioni sono esattamente quelle volute dall’azione provocatoria. Esse conducono, le prime due, ad una sorta d’autorivendicazione dell’atto provocatorio; l’ultima, ad un’alleanza di fatto con lo Stato; in tutti i casi ad una paralisi, per lo meno momentanea, del movimento nei confronti dei suoi obiettivi di lotta iniziali.

4. Il dubbio e la confusione aumentano poi in maniera esponenziale se lo Stato, invece di compiere in prima persona l’azione incolpandone poi altri, riesce a farla compiere direttamente all’utile idiota di turno. Lo Stato dell’arte in questo genere di cose si raggiunge quando i corpi dello Stato riescono a far effettuare da infiltrati su cui non gravano sospetti – o addirittura da cretini in buona fede – un’azione in sé per lo meno “giustificabile” agli occhi del movimento antigovernativo, ma che per motivi “accidentali”, per “errore”, ecc., si trasforma in un’azione esecrabile. Interpretato in quest’ottica, ci sembra che l’attentato al Teatro Diana nel 1920 possa essere considerato un notevole esempio di capolavoro della provocazione poliziesca e/o statale.

5. Immediatamente dopo l’azione provocatoria parte una massiccia campagna di disinformazione da parte dei mass-media di regime e s’intralciano e criminalizzano le strutture di controinformazione dei movimenti di opposizione. Lo scopo è di impedire il più possibile la comunicazione corretta sull’accaduto, costringendo lo stesso movimento antigovernativo a parametrare, almeno in un momento iniziale, le proprie opinioni sulle informazioni fornite ad arte dallo Stato.

Il “Dilemma” dei Prigionieri

Questa breve esposizione delle caratteristiche di un’azione provocatoria ben condotta dovrebbe averci fatto comprendere perché i movimenti d’opposizione vadano solitamente in tilt di fronte ad essa. Dal punto di vista della Teoria della Comunicazione potremmo dire che essa struttura un contesto di totale indecidibilità, da parte dei movimenti d’opposizione, sulla condotta da tenere e determina, solitamente, paralisi o condotte del tutto irrazionali rispetto allo scopo. I movimenti d’opposizione vengono, in altri termini, a trovarsi in una situazione simile al “Dilemma dei Prigionieri” studiato dalla Teoria dei Giochi.

Un giudice istruttore sta trattenendo due uomini sospetti di rapina a mano armata. Le prove sono insufficienti (…) [dice allora loro] che per farli condannare ha bisogno di una confessione. Non nasconde che se nessuno dei due confessa, può accusarli soltanto del possesso illegale di armi da fuoco, un’imputazione che comporta sei mesi di reclusione. Se entrambi confessano riceveranno la condanna minima prevista per la rapina a mano armata, cioè due anni. Tuttavia, se a confessare è soltanto uno dei due, questi sarà considerato testimone di Stato e verrà liberato, mentre l’altro riceverà vent’anni, la sentenza massima prevista dalla legge. Senza dare ai due uomini l’opportunità di giungere ad una decisione unanime, il procuratore li fa rinchiudere subito in due celle separate in modo che non possano comunicare. (…)

[Ai prigionieri], dal momento che sei mesi di prigione sono senz’altro il male minore in paragone ai due anni, per non parlare dei venti, la logica detta loro di non confessare. Ma giunti a questa conclusione, nella solitudine delle loro celle separate, sorge nella loro mente un dubbio: “E se il mio compagno (…) approfitta della situazione e confessa? In tal caso lui viene liberato, ed è questa la cosa più importante per lui, e io non ricevo più sei mesi, bensì vent’anni. Pertanto (…) sarò più al sicuro confessando, poiché se lui non confessa, sarò io a essere liberato. Ma (…) se faccio questo, non solo tradisco la fiducia del mio compagno (…) [ma] se lui è sleale quanto me (…) confesseremo tutti e due e saremo condannati a due anni, un esito peggiore dei sei mesi che potremmo ricevere se negassimo entrambi il crimine”. (…)

Le situazioni umane tipiche del dilemma dei prigionieri insorgono ogni qual volta due o più persone vengono a trovarsi in uno stato di disinformazione conseguente alla necessità di prendere una decisione in comune, e per una ragione o per l’altra non possono comunicare e accordarsi sul corso d’azione migliore. Nel caso dell’originale dilemma dei prigionieri abbiamo visto che esistevano due ragioni per questa incapacità di giungere ad una decisione definitiva: la mancanza dì fiducia e l’impossibilità di comunicare. Nelle situazioni di vita reale uno solo di questi fattori è già sufficiente per creare un punto morto. (…)

Ma si deve decidere, e quindi cosa si può fare? La risposta non è semplice e, come accade spesso con problemi difficili, la domanda più semplice è: cosa non si deve fare?

È evidente che la decisione non va presa sulla base del pro­prio giudizio meditato (che è l’unico criterio importante in una decisione non interdipendente). Piuttosto la mia decisione deve basarsi sulla mia meditata supposizione riguardo a quale l’altra persona riterrà essere la soluzione migliore e, esattamente come nel caso dei due prigionieri, la decisione dell’altra persona sarà a sua volta determinata da quel che lui pensa che io pensi sia la decisione migliore. Troviamo pertanto che tutte le decisioni interdipendenti, nell’assenza di comunicazione aperta e libera, si basano su questo regresso teoricamente infinito di quel che penso che lui pensa che io penso che…

Una decisione interdipendente, per riuscire (nell’assenza di comunicazione diretta), deve basarsi su qualche “visione del mondo” comune a entrambe le parti, su qualche assunto tacitamente condiviso, o su qualche elemento che, per la sua evidenza, la sua eminenza fisica o metaforica o qualche altra sua qualità unica, si distingua particolarmente dalle altre numerose possibilità egualmente presenti nella maggior parte delle situazioni. (WATZLAWICK, Paul, La Realtà della Realtà. Comunicazione — Disinformazione — Confusione, Roma, Astrolabio, 1976, pp. 93/98).

È da notare che i prigionieri potrebbero essere anche entrambi completamente innocenti, che le pistole in loro possesso potrebbe avergliele infilate la polizia in casa (dunque l’azione del giudice potrebbe inserirsi in un’azione provocatoria strictu sensu) e, ciononostante, potrebbero trovarsi a decidere di confessare entrambi un delitto non commesso. L’azione provocatoria tende a creare esattamente contesti di tal genere, in cui svanisca il senso stesso del termine “evidenza” ed il movimento d’opposizione si trovi letteralmente avviluppato dall’ambiguità radicale della provocatorietà dell’azione statale.

Il “Dilemma dei Movimenti”

Cerchiamo adesso di utilizzare il modello del “dilemma dei prigionieri” per comprendere più da vicino il “dilemma dei movimenti politici antigovernativi” sottoposti ad una provocazione da parte dello Stato. Innanzi tutto, tali movimenti sono compositi ed eterogenei; tale condizione crea di solito forti battaglie politiche tra le varie componenti per la supremazia e, di conseguenza, una scarsa fiducia reciproca di partenza. Tale sfiducia di base ovviamente cresce poi in maniera esponenziale se (come di consueto) si tratta di componenti antigovernative, ma non tutte antistatali, in altre parole anarchiche: qui il problema non è solo quale linea politica far prevalere nel movimento, ma, in caso di vittoria, quali componenti di questo e in che misura debbano partecipare al governo “rivoluzionario” e quali venire represse…

È soprattutto su questa sfiducia di base che gioca lo Stato nel portare avanti la propria azione provocatoria: fidando in pratica nel fatto che le gelosie reciproche rendono difficili le decisioni corrette. Ad ogni buon conto, lo Stato solitamente provvede anche a rendere difficile la comunicazione isolando i prigionieri eventualmente accusati dell’atto, impostando campagne di stampa depistanti, facendo perquisizioni a tappeto per concentrare l’attenzione delle singole componenti del movimento d’opposizione sulla propria salvaguardia e non sul tentativo di comunicazione reciproca, ecc.

L’ambiguità dell’azione provocatoria compiuta o fatta compiere dallo Stato mette quindi il movimento antigovernativo in una situazione di stallo. Questo non ha sufficienti informazioni e/o fiducia sul fatto di essere “del tutto innocente” per poter agire in modo efficace. Se questo punta tutte le sue carte sulla sua “innocenza”, v’è il rischio di risultare “colpevoli” agli occhi delle masse per via dell’incriminazione senza scampo di qualche propria “scheggia impazzita”; se accentra invece la propria strategia di difesa sulla provocatorietà soggettiva della sua pretesa “scheggia impazzita”, ma senza potere oggettivamente dimostrare tale premessa, corre il rischio di creare spaccature al proprio interno. Il risultato di solito sono reazioni del tutto disordinate ed inefficaci.

Le Autoprovocazioni dei Movimenti

Al movimento viene insomma a mancare un elemento unitario di decisione in tali frangenti, una “visione del mondo comune” sul da farsi. La questione non è certamente facile a risolversi, almeno dal punto di vista pratico, poiché una “visione del mondo” tesa ad annullare gli effetti dell’azione provocatoria si scontra con due enormi condizionamenti mentali che, solitamente, sono presenti in modo forte nella mentalità dei militanti dei movimenti antigovernativi: innanzi tutto il sentimento del branco e, in secondo luogo, un malinteso sentimento di solidarietà.

Abbiamo detto che all’interno dei movimenti d’opposizione antigovernativi si svolgono lotte feroci per il predominio politico. V’è, però, almeno una fase in cui tutte le tendenze non anarchiche svolgono una strategia comune: quella di trasformare l’abitudine dei militanti allo scontro contro il nemico comune in una sorta di sentimento di “appartenenza al branco”. Tale strategia si concreta nella demonizzazione di fatto del dissenso, nell’invocazione dell’“unità del movimento” a tutti i costi in nome della “necessità superiore” della lotta contro tale nemico comune, alle accuse di “esser fuori dal movimento” rivolte contro chiunque non vuol rinunciare alla propria opinione e conseguente prassi politica. Ma non è questo che qui ci interessa sottolineare; è piuttosto il senso di responsabilità collettiva che invade completamente un movimento d’opposizione invischiatosi in tali tentativi di unitarietà politica a tutti i costi.

Tale sentimento irrazionale porta istintivamente i militanti di movimenti d’opposizione – che contano magari milioni di aderenti e decine di componenti interne! – a sentirsi irrazionalmente responsabili della condotta politica di tutti gli altri militanti. Un tale sentimento del branco è quindi tra le cose che invischiano i movimenti antigovernativi in occasione di una provocazione statale. Si tratta di un sentimento del tutto inutile operativamente – essendo impossibile un tale paranoico controllo – ma che crea, in occasione della provocazione statale e del conseguente dubbio sulle possibili responsabilità di “schegge impazzite” del movimento, nella mente dei militanti di questo un’ineliminabile senso di corresponsabilità per l’(eventuale) altrui idiozia. Si pensi a quanti ex sessantottini più o meno pentiti sono, in qualche modo, convinti di avere le loro parti di responsabilità nell’uccisione di Aldo Moro perché, all’epoca, avevano protestato a scuola per i banchi rotti o, in fabbrica, chiesto un salario un po’ più decente… Accade così che il senso di responsabilità collettiva porti il movimento a comportarsi come l’innocente che, di fronte alla polizia, pensa di poter essere in qualche modo ritenuto corresponsabile di un delitto perché conosceva in qualche modo l’assassino: tali suoi comportamenti “nervosi”, verbali e non/verbali, verranno in modo implicito o anche esplicito veicolati dai mass-media alle masse come segni di “colpevolezza collettiva”, rendendo difficile la credibilità della strategia di controinformazione contro la provocazione.

Altro elemento di difficoltà in merito è, come dicevamo, un malinteso senso di solidarietà. è tradizionale nei movimenti, di fronte agli autori di un’azione aventi tutte le caratteristiche della provocatorietà, operare la classica distinzione tra il provocatore “soggettivo” (l’infiltrato vero e proprio) e quello solamente “oggettivo” (il “compagno che sbaglia” in buona fede). Tale distinzione è reale: il problema è che il solo tentare di porla aumenta a dismisura l’ambiguità dell’azione provocatoria, rafforzandola enormemente.

Cercando di operare tale distinzione si entra difatti in un terreno a dir poco minato, dal momento che, a meno di possedere il dono della telepatia, è assolutamente impossibile distinguere tali elementi in modo oggettivo. Il fatto che determinate persone, dopo aver compiuto una o più azioni provocatorie, siano perseguitate dallo Stato, non significa assolutamente niente ai fini di tale distinzione. Solitamente, infatti, chi compie un’azione provocatoria è legato ai servizi segreti e, in questo mondo, la regola di base è: se commetti un errore qualsiasi e finisci nell’orbita degli (altri) organi repressivi dello Stato, nessuno ti conosce e tanto meno ti aiuta più, se tale aiuto comporta anche minime difficoltà per l’organizzazione nel suo complesso. Ciò comporta che il tentativo di discernere nei casi dubbi il provocatore “soggettivo” da quello solamente “oggettivo” per comportarsi conseguentemente a tale distinzione, ha il solo effetto di creare spaccature e lacerazioni ulteriori nel movimento tra chi rivendica al movimento – di là dall’oggettivo errore compiuto – l’autore dell’atto provocatorio e chi nutre forti dubbi in proposito. In questo senso, gli effetti negativi di un’azione provocatoria, compiuta in buona fede o meno nei confronti di un movimento, possono durare decenni. Questo è un altro motivo che, in condizioni normali, rende materialmente impossibile la distinzione tra un provocatore “soggettivo” ed uno “oggettivo”: quanto più infuriano le polemiche nel movimento, tanto più lo Stato ha interesse a reprimere la sua pedina per mantenerle in piedi…

Il “Compito in Classe del Tutto Imprevisto ed Imprevedibile”

Tiriamo ora le fila del nostro discorso. Come possono i movimenti antigovernativi difendersi in maniera seria dalle provocazioni degli organi dello Stato? Almeno in teoria, la faccenda non è impossibile da affrontare, giacché il carattere di strutturale ambiguità dell’azione provocatoria, come abbiamo visto all’inizio di questo discorso, la rende facilmente riconoscibile. In realtà, è solo il tentativo di volerla analizzare troppo in profondità – in particolare l’impossibile tentativo di cercare di capire se si tratti di una provocazione statale diretta o dell’azione di “utili idioti”, “schegge impazzite”, ecc. che avviluppa il movimento in una spirale di contraddizioni.

Ancora una volta la Teoria dei Giochi può offrirci uno spunto interessante per comprendere la situazione. La situazione analizzata è quella di una classe che ha completa fiducia nel fatto che un determinato professore mantiene sempre le sue promesse. Un sabato questi si presenta in aula ed annuncia alla classe: “La prossima settimana vi sarà un compito in classe, in un giorno per voi del tutto imprevisto ed imprevedibile”.

La classe, ovviamente, comincia a porsi il problema di questo stranamente preannunciato giorno in cui dovrà svolgere tale compito. è ovvio che l’intenzione del docente è di esaminarli in un giorno in cui essi non si siano specificamente preparati ad affrontare un compito scritto. Alcuni studenti tra i più “intelligenti” cercano di affrontare il problema in modo logico. Cominciano con l’escludere il sabato seguente come possibile giorno del compito in base al seguente ragionamento: “Se saremo arrivati fino a venerdì senza che ci sia stato il preannunziato compito imprevisto, non potrà certamente esserci il sabato, perché altrimenti il compito non sarebbe più per definizione imprevisto”. Non appena essi hanno escluso il sabato come possibile giorno per il compito imprevisto, essi si rendono conto che un tale ragionamento è perfettamente ripetibile anche per il venerdì, anzi per tutti gli altri giorni della settimana prossima: “Se giovedì non ci sarà compito, dal momento che abbiamo già escluso il sabato, allora il compito imprevisto non potrà esserci nemmeno venerdì; ma allora neanche giovedì, mercoledì e martedì, poiché lo stesso trascorrere dei giorni ci offrirebbe di volta in volta informazioni sul giorno del compito, rendendo tali giorni prevedibili e, quindi, inadatti allo svolgimento di un compito imprevisto. Resterebbe solo il primo giorno della settimana, il lunedì, ma proprio per ciò esso è il più prevedibile di tutti ed è quindi anch’esso da scartare.”

Questi studenti comunicano alla classe intera il loro ragionamento, acquistando vari consensi sul fatto che il professore non può assegnare alcun compito in un giorno del tutto imprevisto ed imprevedibile – quindi non ne assegnerà nessuno. Ma il professore faceva affidamento proprio su tale loro ragionamento per rendere del tutto imprevisto ed imprevedibile l’assegnazione di un compito durante la settimana seguente, che così potrà arrivare in un qualsiasi giorno – magari proprio il lunedì, il giorno più prevedibile di tutti – e ciononostante essere davvero del tutto imprevisto ed imprevedibile, cogliendo così alla sprovvista la maggior parte della classe.

Alcuni studenti, insomma, si sono fregati con le loro mani proprio tramite il tentativo di capire “razionalmente” il giorno in cui poteva arrivare un compito “del tutto imprevisto e imprevedibile”. Si sono salvati, nella classe, preparandosi al compito: gli studenti troppo “stupidi” per seguire i compagni intelligenti nei loro ragionamenti intorno alla prevedibilità o meno dei giorni e che hanno colto, nel discorso del professore, solo l’informazione essenziale – che in un giorno della settimana seguente si sarebbe svolto un compito – e gli studenti veramente intelligenti, che hanno compreso che il tentativo stesso di cercare di comprendere la data del compito era ciò che lo rendeva “del tutto imprevisto ed imprevedibile”, adeguandosi perciò all’opinione ed alla prassi degli studenti “stupidi” (ma fino a che punto, vista la magra figura dei loro compagni “intelligenti”?)

Le “Regole d’Oro” Contro le Azioni Provocatorie

I movimenti antigovernativi devono perciò rifiutare le false alterna­tive – “soggettivitá” od “oggettività”, “colpevolezza” od “innocenza” – innescate dall’azione provocatoria dello Stato. Devono, invece, accentrare la loro attenzione esclusivamente sul fatto che un’azione provocatoria è stata compiuta, e che occorre assolutamente mettere fuori gioco la sua potenza devastante ‑ ossia toglierne di mezzo l’ambiguità. A tal fine proponiamo una serie di “regole d’oro” che ogni militante di un movimento antigovernativo dovrebbe conosce­re, far conoscere e rispettare alla lettera – un po’ come le istruzioni di comportamento di fronte alla repressione poliziesca “legale” con­tenuti nei “manuali del militante” degli anni settanta:

1. Ognuno è responsabile solo delle proprie azioni e di quelle che esplicitamente condivide. Di fronte ad un’azione provocatoria esplicitare fermamente quest’assunto di base senza timore alcuno di “desolidarizzare”. Si è solidali solo con le cose che si condivide; un’azione provocatoria, a causa della sua ambiguità, non è mai per definizione condivisibile, indipendentemente da chi potrebbe averla commessa.

2. Ricordare a se stessi e agli altri che, nella stragrande maggioranza dei casi, il mandante di un’azione provocatoria è il potere.

3. Evitare le complicazioni intellettuali inutili. Di fronte ad un’azione provocatoria non ci si deve porre con lo stato d’animo di chi vuole organizzarci sopra un convegno di studi, altrimenti ci si trova di fronte ad un “compito in classe del tutto imprevisto e imprevedibile”. I movimenti d’opposizione sono da sempre impelagati nel cercare disperatamente di capire le azioni provocatorie, invece di reagire opportunamente ad esse. Il tentativo intellettualistico di comprendere un’azione provocatoria – per definizione incomprensibile, come abbiamo visto – sfocia inevitabilmente nella resa all’emotività irrazionale come unico criterio di scelta nella direzione delle proprie azioni. Per cui a) Ricordare a sé stessi ed agli altri che interrogarsi sugli irrisolvibili dilemmi colpevolezza/innocenza, soggettività/oggettività e simili rafforza l’azione provocatoria, invece di aiutare a scioglierla; b) Tenersi fermi nella sua tautologia al seguente assioma: chi commette un’azione provocatoria è un provocatore, e provocatore è chi commette un’azione provocatoria – punto e basta; c) In ogni caso, un provocatore “oggettivo” è peggio, non meglio, di un provocatore “soggettivo”. Poiché i risultati concreti delle loro azioni sono identici, almeno il “soggettivo” ha fatto spendere soldi al potere, mentre il “compagno in buonafede” ha lavorato gratis.

4. Tutti coloro che hanno scelto di compiere un’azione provocatoria – indipendentemente dai motivi e/o dalla loro soggettività – hanno contestualmente scelto di rompere ogni rapporto di solidarietà con chicchessia; non gli si deve dunque assolutamente nulla.

5. Impegnarsi nella difesa solo e soltanto di chi si professa esplicitamente e con forza estraneo alla provocazione attribuitagli dallo Stato – come nell’esemplare caso di Valpreda – ricordando però che un’azione provocatoria può essere proprio quella di far impegnare il movimento nella difesa di un personaggio che poi si confessa colpevole e/o viene inchiodato alle sue responsabilità legali. In tal caso considerare quest’ultimo come un provocatore a tutti gli effetti, e denunciare la sua precedente dichiarazione di estraneità come la vera e propria provocazione. Meglio passare per ingenui che avallare un senso di “responsabilità collettiva” del movimento.

6. Interpretare alla lettera le regole in questione. La provocazione ha lo scopo di creare un clima di “emergenza”, di “eccezionalità”: combatterla significa quindi innanzitutto negare, sempre e comunque, le eccezioni. Non seguire queste regole di comportamento in una situazione storicamente data è proprio il risultato di anni e anni di provocazioni portate a buon termine, che hanno creato nel movimento l’incapacità stessa di seguire il sano buon senso. Credendosi intelligenti, i compagni si fanno giocare dal potere come gli ultimi dei cretini, e talvolta, se ne vantano pure…

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