C’è un’opinione dominante nella odierna filosofia della scienza, ovvero l’idea di poter ricondurre tutto, compresi la mente e il comportamento umano, alle medesime leggi universali e coerenti, che sono poi quelle causali tipiche della fisica.
Questa mentalità, che il filosofo della biologia John Duprè (1) chiama “imperialismo scientifico”, viene definita riduzionistica o meccanicistica.
Una delle teorie che maggiormente hanno contribuito allo sviluppo di questo atteggiamento è stata la sociobiologia, fondata da Edward O. Wilson (2) a metà degli anni ’70 del secolo scorso (che oggi è stata soppiantata dalla più moderna, ma non molto diversa nella sostanza, psicologia evoluzionistica). Essa si basa sul tentativo di utilizzare la teoria evoluzionistica di Darwin per spiegare la natura umana: le argomentazioni ruotano attorno all’ipotesi che esistano determinati comportamenti e processi psicologici geneticamente selezionati che avrebbero avuto un valore adattativo per l’uomo nella sua storia evolutiva aumentandone la possibilità riproduttiva.
In questo senso, per il modello sociobiologico, che lo stesso Wilson definiva determinismo genico, tutti i comportamenti umani si potrebbero spiegare assumendo che la nostra mente sia costituita da tanti moduli, ciascuno dei quali regola una determinata azione per cui esisterebbe, se volessimo per esempio limitarci al campo dei comportamenti riproduttivi, un modulo per il corteggiamento, uno per il sesso, uno addirittura per lo stupro, e così via, tutti evolutisi in seguito a selezione genica di adattamenti vantaggiosi.
Ora, anche ammettendo l’esistenza di tali moduli, questa teoria non fa i conti con due peculiarità umane di non poco conto ovvero la volontà e il libero arbitrio: essa infatti non spiega in che modo la persona scelga di utilizzare un modulo invece di un altro visto e considerato che, in situazioni simili, ognuno di noi può comportarsi in modo assolutamente diverso. In altre parole, come buona parte della scienza oggi, essa non considera gli aspetti contestuali nei quali può verificarsi o dai quali può dipendere un comportamento umano, ma si limita a valutarne esclusivamente o prevalentemente gli aspetti intrinseci.
Il rischio evidente di un approccio di questo tipo è quello di cadere in una serie di banalità e di stereotipi sociali come, per esempio, rimanendo nell’ambito della sessualità e della riproduzione, che l’uomo e la donna sarebbero geneticamente predisposti a fare determinate scelte in riferimento al partner, l’uomo avendo preferenze innate per donne giovani quindi più predisposte alla riproduzione e alle cura parentali dei figli, mentre le donne privilegerebbero la sicurezza di uomini forti ed economicamente stabili. Il fatto che questo possa spesso accadere nella realtà non significa però che sia dovuto a cause genetiche selezionate per la fitness di individui di centomila anni fa e che gli accadimenti seguano una legge deterministica che porta per forza di cose a questi risultati. Possono esistere tantissime altre cause, di natura sociale, ambientale, culturale che fanno sì che le scelte legate al sesso (o a qualsiasi altro comportamento umano) non siano dovute al successo riproduttivo di variazioni adattative giunte a noi dal Paleolitico.
Il riduzionismo continua ad avere un influsso profondo nella scienza ed è indiscutibile che le spiegazioni di tipo meccanicistico abbiano dimostrato di essere meravigliosamente in grado di spiegare come funziona la maggior parte dei fenomeni naturali ed abbiano avuto un ruolo fondamentale in molte delle più grandi scoperte scientifiche, Ma quando si cerca di utilizzarle per stabilire una visione metafisica universale del mondo, allora possono iniziare i problemi.
Punti di vista epistemologici errati possono infatti avere anche conseguenze pratiche preoccupanti per i tipi di progetti scientifici che vanno presi in considerazione. Uno dei casi esemplari, di pertinenza medica, riguarda la cosiddetta sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) che negli Stati Uniti riguarderebbe milioni di bambini (il 3-5% dei bambini in età scolare).
Quali opzioni ci sono per risolvere, di volta in volta, i conflitti che i bambini più recalcitranti alla coercizione scolastica, e quindi più incapaci di mantenere la concentrazione, possono innescare con l’insegnante, con gli altri alunni o nel rapporto tra scuola e famiglia? La risposta prevalente negli Stati Uniti (e ultimamente purtroppo anche in Europa) si chiama Ritalin, nome commerciale per indicare il metilfenidato (MPH), un farmaco psicotropo ad azione stimolante.
Duprè osserva (3) : “Non trovo affatto sorprendente che così tanti bambini oggi, e in passato, abbiano avuto difficoltà a concentrarsi a scuola. Ciò che mi preoccupa è che si sia giunti alla conclusione che ci sia qualcosa che non va nella testa di questi bambini, qualcosa da curare con farmaci psicotropi che producono assuefazione”.
Il punto è questo: un’epistemologia per la quale tutto ciò che pertiene alla mente è immediatamente e deterministicamente influenzabile agendo sul corpo avvallerà sempre l’opzione Ritalin. Non occorre porsi altre domande, poiché si assume che mente e corpo siano equivalenti e che, dunque, intervenire su un livello sia come intervenire sull’altro. Con la differenza che intervenire sul corpo, cioè sul cervello, è il modo più veloce e sicuro per risolvere il problema (è anche il modo per incrementare il PIL, tra le altre cose). Un’epistemologia differente, in grado di focalizzare la natura contestuale e culturale del comportamento umano, costringe invece a interrogarsi sulle relazioni (di insegnamento, familiari, sociali) nella quali il bambino vive, come sistema mente-corpo complesso. In una prospettiva relazionale, una situazione di conflitto nella scuola può diventare un’opportunità per prendere le distanze dallo statu quo che determina la crisi e per ripensare l’esistente (dalla relazione di insegnamento a quella tra compagni di classe e così via).
In sintesi, l’opzione farmacologica guarda all’intrinseco, non al contestuale: riscontrata una situazione di conflitto si individua il soggetto (bambino) che la provoca; si assume che il problema sia “intrinseco” alla sua mente (e al suo corpo) e si interviene agendo sul livelli dell’interazione più meccanicamente accessibile (sostanza psicotropa attiva sul bambino come corpo malato). L’opzione aperta di un’epistemologia più complessa, invece, riscontrata una situazione di conflitto, si interroga sui contesti e sulle relazioni.
Concludendo, se si guarda alla storia dell’umanità, ci si accorge facilmente che il comportamento e la mentalità umana hanno subìto dei grandissimi cambiamenti che non permettono di ricondurre la natura umana a una struttura unitaria. Questo’apparente conflitto tra storia e scienza è però facilmente risolvibile se si ammette la disunità della scienza, ovvero che esista una pluralità metafisica per la quale non si può spiegare la natura umana nello stesso modo in cui si spiegano i fatti delle scienze esatte.
Senza dubbio molte parti di noi si comportano esattamente come una macchina e le loro azioni possono essere spiegate in modo meccanicistico e deterministico, e i nostri movimenti sono spiegabili con leggi scientifiche riconducibili alla fisica e alla chimica, ma questa scienze non potranno mai spiegarci perché abbiamo scelto di fare proprio quel movimento. La teoria basata sulla convinzione che lo sviluppo di un organismo non sarebbe altro che la realizzazione di un piano o l’esecuzione di un programma in qualche modo già scritto nel DNA è un paradigma che la psicologia evoluzionistica ha esteso al cervello e ai comportamenti umani, trascurando (o sminuendo) il fatto che gli esseri umani sono costituiti anche dal contesto sociale in cui vivono: è proprio dal rapporto tra l’individuo e la società che possiamo trovare la base di quella che merita veramente di essere chiamata autonomia individuale umana (4).
Daniele Leoni
John Dupré, Human Nature and the limits of Science, 2001, Oxford University Press, (trad. it. Natura umana. Perchè la scienza non basta, Laterza, 2007)
Edward O. Wilson, Sociobiology: The New Synthesis, 1975, Harvard University Press
Ibid.
Ibid.