L’emendamento che avrebbe dovuto prevedere l’obbligo per i lavoratori del trasporto pubblico di comunicare con una settimana di preavviso, in forma scritta e senza possibilità di revoca, la propria adesione agli scioperi, emendamento abortito prima ancora di venire alla luce, ha suscitato una molteplicità scomposta di reazioni, dibattiti e polemiche. Scambi spesso più funzionali all’ormai consolidato e stucchevole gioco delle parti piuttosto che ad un’analisi obiettiva della proposta e delle conseguenze dell’ennesimo attacco alla libertà di rivendicazione e dissenso che si sta cercando sempre più di comprimere e addomesticare. Il controllo di tutte le forme di opposizione reale e contestazione effettiva è sempre stato tra gli obiettivi di ogni autorità. L’autorità infatti teme la piazza e la partecipazione popolare, perché la volontà di cessare di essere semplici follower o ultras può portare individui e gruppi a diventare protagonisti delle vicende pubbliche, facendo sentire la propria voce e la propria contrarietà nei confronti di chi detiene il potere considerandolo propria esclusiva prerogativa. I mezzi adottati per mantenere l’ordine costituito e lo status quo funzionali alla conservazione del dominio sono storicamente sempre gli stessi: repressione legislativa, fisica e ideologica, e irreggimentazione delle forme di protesta considerate lecite, che vengono codificate e consentite solo nei modi e nei tempi stabiliti dall’autorità. Ulteriori elementi della strategia di depotenziamento della carica destabilizzatrice del dissenso sono il tentativo di frammentazione del fronte della protesta, ottenuto creando contrasti pretestuosi al suo interno. L’autorità si erge quale unico difensore dell’interesse popolare, individuando nemici interni ed esterni come vera causa del decadimento delle condizioni di vita delle masse: un mix di populismo, paternalismo e propaganda che molto spesso induce gli stessi sfruttati a immolarsi come primi e più solerti sostenitori di coloro che possono mantenere i propri privilegi e la propria condizione di superiorità proprio grazie all’oppressione perpetrata su di essi.
La vicenda in questione rappresenta l’ennesimo attacco di questo governo nei confronti del diritto di sciopero, più volte palesato avvalendosi dei cavilli di una legislazione già limitante in materia e ricorrendo a precettazioni indiscriminate e immotivate. Ciò costituisce, più in generale, un ulteriore tentativo di ridurre e sopprimere ogni forma non gradita di manifestazione di pubblico dissenso, come dimostra chiaramente l’entrata in vigore dell’ormai famigerato decreto sicurezza. Sorvoliamo pure su quelle che sono da considerare esternazioni da cabaret sugli scioperi indetti di venerdì e lunedì per allungare i fine settimana, battute che hanno comunque una certa presa sul pubblico e contribuiscono a screditare e nascondere i motivi reali delle manifestazioni, oltre a non considerare il sacrificio economico rilevante che ogni astensione dal lavoro comporta per gli scioperanti – esternazioni tra parentesi fatte da persone che sicuramente hanno orari e stipendi nemmeno lontanamente paragonabili a quelli della stragrande maggioranza dei lavoratori. La motivazione principale addotta per sostenere l’inopportunità degli scioperi in generale, e nei settori di pubblica utilità in particolare, è quella del danno arrecato ai cittadini che sono impossibilitati ad avvalersi dei servizi che dovrebbero essere sempre garantiti in una società civile, con particolare riferimento a trasporti, sanità e scuola. Curiosamente sono proprio questi i settori massicciamente penalizzati e massacrati da politiche governative che oltre a togliere ad essi risorse economiche per dirottarle in ambiti che poco o niente hanno a che fare con l’interesse generale, come ad esempio spese militari e riarmo, sono costantemente e scientificamente trascurati e resi sempre meno efficienti per dare spazio a incessanti privatizzazioni. Disservizi nei trasporti pubblici, specie per i pendolari, liste di attesa interminabili nella sanità, pubblica istruzione al collasso, appalti e subappalti incontrollati, scuole e università private parificate e sanità integrativa sono aspetti indissolubilmente legati tra loro, due facce della stessa medaglia coniata per rendere la nostra società sempre più stratificata e discriminante in base alla classe di appartenenza e alle possibilità economiche di ognuno.
L’apparente opposizione istituzionale, sia essa politica o sindacale, partecipa pienamente a queste dinamiche, assumendo toni di volta in volta più polemici o più concilianti a seconda delle opportunità, dimostrando così tutta la strumentalità della propria posizione che si riduce spesso, al netto di inefficaci eccezioni individuali, o ad una richiesta di maggiore partecipazione nella spartizione del bottino o al sostegno di gruppi di potere e lobby diversi da quelli dell’avversario di turno, senza mai mettere in discussione i presupposti del modello predominante, ma accontentandosi di suggerire piccole e marginali modifiche funzionali al proprio interesse. Questo atteggiamento di simulata opposizione al sistema e di sostanziale complicità con esso si manifesta, aldilà delle parole d’ordine e degli slogan gridati al vento per imbonire il pubblico e ottenere un facile consenso, nelle scelte che di volta in volta vengono assunte, come la condivisione della politica bellicista e di sfruttamento neocoloniale in ambito internazionale e la rinuncia a rivendicazioni basilari come l’adeguamento economico effettivo e la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario nei rinnovi contrattuali. Il ricorso a manifestazioni di piazza è promosso e tollerato solo se le stesse avvengono sotto la direzione e per gli scopi auspicati dagli “oppositori istituzionali”, che si precipitano però ad allinearsi con coloro che vengono contestati ogni qual volta le rivendicazioni travalicano i rigidi confini delineati o assumono forme non codificate che vengono istantaneamente bollate come illegali e violente e dalle quali ci si affretta a prendere immediatamente le distanze. Ancora una volta appare tutta l’ipocrisia di un atteggiamento che condanna con l’ormai abusata formula del “senza se e senza ma” ogni presunta azione illecita di chi manifesta, senza curarsi minimamente della violenza brutale di un sistema che “legalmente” costringe a morire sul lavoro in nome del profitto, a scegliere tra occupazione, salute o tutela ambientale, ad accettare salari inadeguati con la minaccia di nessun salario e in generale a subire una condizione di sfruttamento economico, sociale, umano e considerarlo del tutto normale, senza alternative possibili, immutabile e non contestabile. Si bolla come atto terroristico, criminale e intollerabile la rottura di una vetrina o l’incendio di un cassonetto, mentre contemporaneamente e senza nessun imbarazzo si accetta con serenità e condiscendenza la massiccia esportazione di armi e il loro utilizzo contro civili inermi. La coerenza di questi tempi è evidentemente un lusso inaccettabile, così come diventa per molti inattuabile il proposito auspicato dal Saltatempo di Benni: “Bisogna assomigliare alle parole che si dicono, magari non parola per parola, ma insomma ci siamo capiti”.
La gran parte del confuso dibattito e dell’apparente polemica sulla proposta di emendamento in oggetto ha riguardato il concetto di violazione di un diritto, in particolare di un diritto acquisito. Da una parte questo viene considerato una sorta di privilegio, concesso e sempre revocabile o modificabile a piacimento, dall’altra un fatto assodato, inoppugnabile, inalterabile ed eterno; entrambe le posizioni condividono una concezione antistorica e antipolitica del diritto, della sua genesi e del suo valore. Chi detiene il potere non concede mai un diritto, che di fatto ne limita le prerogative, spontaneamente o per bontà d’animo. Un diritto è sempre il frutto della lotta tra due schieramenti contrapposti, uno che vuole mantenere un privilegio e l’altro che vuole strappare condizioni più favorevoli, scaturisce cioè dai rapporti di forza tra gruppi che si battono per scopi differenti e opposti.
Quando un diritto viene “concesso” formalmente è perché di fatto, sostanzialmente, è già diventato tale, il suo passaggio da stato “de facto” a norma legale è il riconoscimento dell’esito di uno scontro che ha avuto un vincitore che ha costretto il controparte ad accettare come lecito ciò che prima non era considerato tale. Il diritto così conquistato rimarrà “immutabile” solo nella misura in cui il rapporto di forza che l’ha generato si conserverà e non permetterà la sua revoca. È abbastanza evidente che in questa prospettiva il diritto non è importante in quanto tale, ma come prodotto di una lotta, spesso cruenta e sanguinosa, e di rapporti di forza che ne hanno decretato il valore, lotta e rapporti di forza che vanno continuamente ribaditi se non si vuole perdere ciò che è stato ottenuto. Ogni attacco a un diritto “acquisito” è un tentativo della classe dominante di rialzare la testa e provare a riappropriarsi di spazi che gli sono stati sottratti dalla volontà, dall’intransigenza, dalla determinazione e dalle ragioni degli oppositori. È altrettanto evidente come solo una lotta quotidiana che non si culli sugli allori del già fatto, ma che ribadisca in ogni occasione la forza e la giustizia delle istanze di emancipazione e di libertà, possa essere un antidoto efficace contro le prevaricazioni del potere. Ogni singolo diritto va conquistato, ribadito ed esercitato con determinazione e senza timore, per fare in modo che non venga considerato una concessione prima, un privilegio poi e infine negato, perché, è bene ricordarlo, ognuno ha il potere che gli altri gli lasciano prendere.
Alessandro Fini