“Il metodo anarchico” di Davide Turcato (Odradek), dedicato al ritorno di Errico Malatesta in Europa alla fine degli anni ‘80 dell’Ottocento, è una lettura sicuramente interessante per chiunque voglia approfondire la conoscenza dell’ideale anarchico e in particolare del pensiero malatestiano.
Il periodo è particolarmente significativo perché negli ultimi dieci anni del secolo il suo pensiero e la sua azione subiscono un’evoluzione da cui poi non si discosterà sostanzialmente fino alla sua morte. I primi segni di questa evoluzione si manifestano già nel primo periodico a cui Malatesta dà vita una volta tornato dall’America del Sud, “L’Associazione”, di cui escono sette numeri, i primi tre a Nizza, gli altri quattro a Londra. Turcato sottolinea l’importanza de “L’Associazione” perché è sulle sue pagine che Malatesta torna a scrivere, dopo quattro anni in cui aveva pubblicato ben poco. “L’Associazione”, sostiene Turcato, rappresenta il momento in cui Malatesta introduce, a volte in modo poco appariscente, i capisaldi teorici di tutta l’evoluzione successiva.
Uno dei temi che Malatesta affronta in questo suo ripensamento è quello del rapporto fra minoranze coscienti e masse, e dei rapporti fra le rispettive organizzazioni.
A questo proposito è importante segnalare che “L’Associazione” fin dal primo numero espone il programma di un’organizzazione anarchica, caratterizzandosi quindi per la volontà rivolgersi ad una minoranza cosciente ben precisa e rompendo con la tradizione internazionalista di aspirare alla rappresentanza di tutti i lavoratori.
Un’importante esperienza nell’evoluzione del pensiero di Malatesta fu il grande sciopero dei portuali inglesi e il successivo sciopero dei portuali di Rotterdam. Malatesta partecipò al movimento di supporto alla lotta dei portuali e intessé rapporti personali con numerosi protagonisti di quelle lotte, fra cui Tom Mann, autorevole esponente del sindacato dei portuali. In quella occasione Malatesta si rese conto di come il comportamento delle masse si modificasse sotto la spinta delle lotte che portavano avanti, nonostante la distanza che le separava dalle minoranze coscienti.
La sua riflessione quindi si sviluppa attorno a due temi fondamentali: la necessità per le minoranze coscienti, in particolare il movimento anarchico, di “andare verso il popolo”, l’impossibilità di definire l’esito di una lotta a partire dal livello di coscienza iniziale delle masse.
Questo porta Malatesta a ripensare l’esperienza all’interno dell’Internazionale. Essa era stata un’organizzazione che riuniva sia minoranze coscienti che lavoratori spinti solo dalla necessità di resistere all’arroganza dei padroni. In questo contesto le minoranze coscienti avevano di fronte due strade: o adeguarsi al livello di coscienza delle masse o imporre obiettivi sempre più avanzati illudendosi che le masse le seguissero.
Nell’articolo “Un altro sciopero”, pubblicato su “L’Associazione” del 16 ottobre 1889, Malatesta sviluppa la parola d’ordine dell’“andata nel popolo”. Questo termine fu reso popolare dai giovani rivoluzionari russi che, come ricorda Pietro Kropotkin nelle “Memorie di un rivoluzionario”, “si preoccupavano solo di insegnare alla massa dei contadini a leggere e di istruirla su vari aspetti, fornire assistenza medica e aiuto con tutti i mezzi possibili per farla uscire dall’oscurità e dalla miseria, insegnando ciò che erano gli ideali popolari per una vita sociale migliore”.
In questo articolo Malatesta sostiene che le minoranze coscienti devono vivere in mezzo alle masse, per esercitare un’influenza tra di loro: Turcato riporta un significativo passo dell’articolo: «bisogna mettersi dal punto di vista della massa, scendere al suo punto di partenza, e di là sospingerla innanzi».
Più oltre Malatesta risponde alla domanda sul tipo di propaganda e di agitazione da sviluppare fra le masse. La risposta non può non tener conto di due aspetti della riflessione malatestiana: una visione realistica del livello di coscienza delle classi sfruttate e l’impossibilità di definire a priori i possibili sviluppi dell’azione collettiva. Turcato riporta un altro passo di Malatesta: «La storia ci insegna che le rivoluzioni incominciano quasi sempre con domande moderate, piuttosto come proteste contro l’abuso anziché come rivolte contro l’essenza delle istituzioni, e spesso con dimostrazioni di rispetto e devozione verso le autorità […] ogni sciopero può finire, se ha modo di durare e di allargarsi, in attentato franco e aperto contro il principio del patronato, come può finire in aperta insurrezione contro la monarchia, ogni attacco contro un municipio o una stazione dei carabinieri, anche se fatto al grido di viva il re e viva la regina»-
Nel prosieguo dell’articolo Malatesta distingue tra la propaganda che il movimento anarchico deve svolgere come partito e l’agitazione fra le masse. Nel primo caso sostiene che rivolgendosi al pubblico in generale il movimento anarchico ha l’obbligo di esporre il proprio ideale e difendere il proprio programma apertamente; in tali occasioni non si può tener conto delle contingenze. In mezzo ai moti popolari, al contrario, il movimento anarchico deve sapersi adattare alle condizioni delle masse e tener conto anche dei loro pregiudizi. Sarà compito delle minoranze coscienti far crescere, assieme all’agitazione immediata, anche la convinzione e l’azione socialista.
“Si temono i nomi, ebbene tacciamo i nomi, quando è utile per fare le cose. Che importa se il popolo gridi viva il re, se si rivolta contro le forze del re? Che importa se non vuol sentir parlare di socialismo, se dà addosso ai padroni e toglie loro la roba?
Gli applausi al re con cui il popolo di Parigi, con incosciente ironia, salutava ogni vittoria contro la regalità, impedirono forse che Luigi Capeto avesse tronca la testa?
Pigliamo il popolo com’è ed andiamo avanti con lui, abbandonarlo perché non intende in astratto le nostre formule ed i nostri ragionamenti sarebbe stoltezza e tradimento insieme”
Nella riflessione di Malatesta si delinea un duplice ruolo per il movimento anarchico. Da una parte esso si distingueva dagli altri raggruppamenti politici del movimento operaio e in quanto tale doveva esporre e propagare il proprio ideale; dall’altra, come componente del movimento di massa, doveva indirizzarlo in una direzione emancipatrice attraverso l’autorganizzazione e l’azione diretta degli interessati, rendendosi quanto più flessibile possibile per il raggiungimento dello scopo.
Quanto questa differenziazione fosse cruciale è testimoniato dal fatto che Malatesta ritornò ripetutamente sul tema negli anni successivi, affinando ulteriormente la distinzione tra organizzazione come anarchici e agitazione tra le masse.
Nell’articolo Questions de Tactique, pubblicato su “Le Revolté” nell’ottobre 1892, Malatesta affronta il ruolo dell’organizzazione, sia del movimento anarchico che del movimento di massa. Ritorna sullo stesso tema due anni dopo, in un testo pubblicato su “L’Art.248” dal titolo Andiamo fra il popolo, in cui Malatesta sottolinea l’importanza del dualismo organizzativo di fronte a cui si trova il movimento anarchico: da una parte le componenti omogenee, in particolare quella socialista-anarchica, avevano il compito di organizzarsi tra di loro, tra gente convinta e concorde; dall’altra le classi sfruttate dovevano organizzarsi in associazioni larghe e aperte accettando gli aderenti quali essi erano e facendoli progredire il più possibile nella lotta per gli obiettivi immediati. Alla base di questa doppia scelta organizzativa c’era la consapevolezza che l’ordinamento della società basato sulla proprietà privata e sul dominio politico costringeva l’immensa maggioranza delle classi sfruttate alla miseria economica e morale, rendendola capace solo di scoppi di rabbia momentanei. Pensare che il movimento operaio potesse maturare una coscienza rivoluzionaria o addirittura anarchica era fuori dalla realtà. Il movimento anarchico doveva rompere questo isolamento delle classi sfruttate, puntando a fare la rivoluzione come era possibile, contando sulle forze che si sviluppavano nella società reale. In questo senso, possiamo ritrovare nella concezione di Errico Malatesta il concetto di organizzazione politica dell’anarchismo come minoranza agente all’interno dell’organizzazione di massa.
Il rapporto strategico fra organizzazione specifica, cioè l’organizzazione di quella parte del movimento anarchico che si riconosce appunto nell’organizzazione ed intende partecipare alle lotte del movimento operaio in una prospettiva emancipatrice, e organizzazione di massa, cioè l’organizzazione delle classi sfruttate per obiettivi immediati, viene progressivamente approfondita dalla riflessione di Malatesta. Questa distinzione non era solo inevitabile a causa delle condizioni di arretratezza delle masse, era anche auspicabile, persino laddove la distanza tra minoranza cosciente e massa sfruttata fosse meno ampia.
Nell’articolo del 1897 L’anarchismo nel movimento operaio. pubblicato su “L’Agitazione” Malatesta coglie l’occasione del congresso sindacale tenutosi nel settembre 1897 a Tolosa in cui le posizioni degli anarchici erano state accolte con favore, per osservare: “Certamente il Congresso di Tolosa non è stato un Congresso anarchico – ed è bene che non lo sia stato. I congressi anarchici debbono farli gli anarchici, non già gli operai in generale… salvo che questi non sieno già divenuti anarchici, nel qual caso l’anarchia avrebbe trionfato”. E più sotto, superando quello spirito autoritario che attribuiva sia ai marxisti che agli anarchici nella vecchia Internazionale ribadiva:
“Noi non intendiamo imporre il nostro programma alle masse non ancora convinte, e ancor meno vogliamo darci una apparenza di forza facendo votare dagli operai, per mezzo di sorprese e di manovre più o meno abili, delle dichiarazioni di principi che gli operai non accettano ancora. Noi non vogliamo che il nostro partito si sostituisca alla vita popolare; ma lavoriamo perché questa vita sia ampia, cosciente, fervida, e perché il partito nostro possa esercitare in mezzo ad essa quel tanto di influenza che gli viene naturalmente dall’attività e dall’intelligenza che sa mettere nella sua propaganda ed in tutta la sua azione di partito.”
Davide Turcato così conclude questa sua ricostruzione dell’evoluzione di Errico Malatesta negli ultimi anni dell’Ottocento: “Nella riconsiderazione malatestiana di tutta la questione del rapporto fra minoranze coscienti e masse, basata sulla sua critica all’esperienza dell’Internazionale, vediamo di nuovo all’opera realismo e pragmatismo, in contrasto col luogo comune di un anarchismo impossibilista e indifferente alla realtà empirica. L’aspetto più evidente è lo sguardo disincantato sul popolo e il monito contro esagerate aspettative circa gli istinti rivoluzionari del popolo. Le masse, tuttavia, erano solo una delle parti in causa. L’altra erano le minoranze coscienti. L’interazione tra masse e minoranze coscienti prefigurata da Malatesta era un esempio di una dinamica più generale fra il possibile e il desiderabile, nessuno dei quali poteva derivare dall’altro.”
Queste riflessioni sono estremamente utili per comprendere innanzi tutto il ripensamento di Errico Malatesta attorno alla precedente strategia della propaganda col fatto, di cui era stato uno dei più fervidi sostenitori, che non aveva dato i risultati sperati; è utile, inoltre, per mettere nella giusta luce le indicazioni strategiche del Programma Anarchico e, infine, per mettere nella giusta luce la strategia del dualismo organizzativo. Questioni estremamente importanti e stimolanti che meritano sicuramente di essere ulteriormente trattate.
Tiziano Antonelli
Nell’immagine: Errico Malatesta, dopo il suo arresto a Lugano nel 1891. Conservata presso The International Institute of Social History, Amsterdam