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Paradigmi di visibilità/invisibilità della specie

Paradigmi di visibilità/invisibilità della specie

FILIPPI, Massimo, Il Virus e la Specie. Diffrazioni della Vita Informe, Milano, Mimesis, 2020.

Lo specismo, ideologia ufficiosa del capitalismo, agisce come una macchina da presa che inquadra alcuni soggetti mettendone a fuoco le proprietà (il proprio dell’uomo che è sempre bianco, maschio, eterosessuale…), lasciando “fuori campo” il resto del vivente, la vita informe. Se lo specismo è l’ideologia che serve a legittimare la divisione gerarchica del vivente rendendola naturale, la categoria di specie rende visibile ed incontestabile la distinzione umano/animale. Insieme ad altre performance come la razzializzazione e la sessualizzazione, la speciazione taglia, separa e discrimina, utilizzando i paradigmi della visibilità costitutivi dell’evoluzione tecnologica con cui Homo sapiens ha sviluppato un capillare controllo sul mondo.

Il Virus e la Specie. Diffrazioni della Vita Informe affronta molte questioni: lo sfruttamento degli altri animali, la gerarchizzazione del vivente, i processi di animalizzazione delle soggettività subalterne nonché, ovviamente, le concause che hanno contribuito al diffondersi del coronavirus, concause in qualche modo legate alle logiche del profitto nell’epoca del realismo capitalista. Il saggio si interroga inoltre sui regimi che regolano e normano la produzione e riproduzione animalizzata del visibile. Secondo Filippi, il dispositivo che collega e ottimizza i processi di invisibilità e ipervisibilità del vivente, materialmente e simbolicamente, va individuato nella categoria di specie che, con la sua capacità di giustificare un modello di vita presidiato da anthropos, abitua a vedere i soggetti umani e non umani come naturalmente costituiti da differenze fisiche. Su queste differenze biologiche ed etologiche si attivano una serie di procedure che istituzionalizzano il distanziamento di specie. In altre parole, il vedere gli animali consisterebbe in un atto interpretativo teso a naturalizzare la divisione specista dell’esistenza. La specie non è tanto un concetto che traduce una serie di immagini specifiche quanto un modo di vedere (pensare) prodotto da un ben preciso regime di sguardo.

Il libro trova la sua sistematicità proprio nei processi di animalizzazione, processi in cui il “fenomeno” coronavirus, «sciamano in grado di mettere in comunicazione mondi all’apparenza molto distanti», funziona come soglia che collega e raccorda vuoti insondabili. Questi vuoti costituiscono sia l’habitat che l’umano edifica per le specie destinate a nascere per essere allevate e trasformate in carne sia gli spazi dove si sedimenta il rimosso rappresentato dalla vulnerabilità umana che la pandemia ha fatto, per un attimo, vacillare.

Generalmente la relazione umano/animale si costituisce attraverso una serie di metafore visive. La distanza e l’avvicinamento con gli altri animali vengono determinati proprio dal fatto di poterli o non poterli vedere; il poterli vedere non dipende solo dalle nostre capacità percettive ma dalla costruzione di modelli di visibilità che se da una parte ne enfatizzano i requisiti che li qualificano (esseri in grado, per esempio, di volare o di respirare sott’acqua) dall’altra li riducono a meri rappresentanti di una determinata specie.

Questi due “campi” del visibile e dell’invisibile istituiscono la visualità come fatto sociale, come norma visuale attraverso cui vediamo ciò che ci è permesso vedere. Del resto, per citare Berger, l’unica mediazione rimasta tra umano e animale è quella delegata alle tecnologie della visione cui sembra sfuggire paradossalmente il virus, che si sottrae “naturalmente” ad ogni controllo fondato sui regimi del visibile e della trasparenza ottica, cardini del capitalismo della sorveglianza. Non a caso, allora, Il Virus e la Specie è scandito da soglie che intervallano il ritmo della scrittura. La soglia non è solo limite ma anche punto in cui è possibile passare da uno spazio all’altro. La soglia, termine che designa una parte di un edificio, diventa il tra con cui Filippi pone fine al suo racconto della vita informe. Il saggio infatti, che inizia evocando le architetture del dominio – il grattacielo ed il mattatoio – si conclude con un invito all’attraversamento dei confini di specie, di genere e di “razza”.

Come resistere a questo regime di sguardo che disciplina e categorizza il vivente? Come reagire a questa postura antropocentrica che contemporaneamente uniforma la vita in ruoli e modelli prestabiliti, naturalizzandoli e rendendoli perciò indiscutibili? Come affrontare il nuovo eterno ritorno della volontà di potenza attraverso cui il capitale mette a profitto quelle risorse che costituiscono la nostra stessa possibilità di co-esistenza con altri mondi ed altri animali? Come oltrepassare questo vedere che nega e inibisce l’animalità che dunque siamo? A questi interrogativi Filippi risponde con il bisogno di assumere “uno sguardo necessariamente defilato, anomalo, minoritario (…) come quello di Holden, che posizionandosi sulla soglia che unisce/separa il dentro dal fuori, è in grado di cogliere, con inusitata leggerezza (…) l’occulta trama del mondo”.

Secondo Filippi, la norma visuale è un incrocio di processi di invisibilizzazione e ipervisibilizzazione in cui il tropo della maschera come argine al contagio pandemico è anche un modo per materializzare alcuni corpi e per smaterializzarne molti altri. La mascherina agisce, infatti, come “cartina al tornasole dell’invisibile pervasività dei meccanismi di oppressione”: è sul volto (umano) e sulle sue retoriche (chi ha volto è chiamato alla responsabilità, mentre chi non ha volto, gli animali ed i soggetti animalizzati, è ontologicamente e socialmente inintellegibile) che convergono le pratiche della rappresentazione specista, sessista, razzista e di classe.

In questo libro in cui Filippi passa, con grande disinvoltura, da Kafka a King Kong, da Thacher all’horror, da Deleuze a Romero, facendo cortocircuitare istanze espressive di differente intensità, si comincia a respirare di nuovo. Contro le attuali politiche senza respiro – mentre sto scrivendo la polizia americana si è macchiata dell’ennesimo omicidio tramite soffocamento di un altro afrodiscendente colpevole solo di essere nero –, Filippi ci invita a “restituire alla Terra e alle/ai suoi abitanti il loro respiro”. Il respirare corrisponde, se inteso politicamente, al soffio vitale.

Emilio Maggio


Dalla scrittura di un testo

Note a margine della crisi

Durante le settimane più cupe della pandemia di Covid-19 ho preso alcuni appunti che sono andati a costituire il secondo capitolo di Il Virus e la Specie, recensito in questo stesso numero. Ho pertanto pensato di presentare quattro passaggi del libro che riprendessero alcuni dei punti sollevati nella recensione, ne mostrassero altri e offrissero alle/ai lettrici/lettori di Umanità Nova spunti di riflessione non banali – almeno lo spero – su quanto sta ancora accadendo.

Il Volto Nero e la Mascherina Bianca

Una differente prospettiva di sguardo è necessaria per denunciare una delle più violente norme oppressive: la norma visuale. Quella norma per cui si pensa che la vista sia in grado di restituirci indiscutibili dati di fatto. (…)

Come tutte le altre, anche la norma visuale si avvale di processi incrociati di invisibilizzazione e ipervisualizzazione. Per esempio, il razzismo (ma lo stesso vale per tutti quei modi di vedere il mondo secondo dicotomie gerarchizzanti e disciplinanti – uomo/donna, etero/omo, cis/trans, umano/animale…) ipervisibilizza il bianco e il nero, invisibilizzando quanto sta nel mezzo; invisibilizza il bianco, che in tal modo non è più colorato e viene fatto coincidere con l’universale o l’umano tout court, e ipervisualizza il nero, marcandolo come particolare e come meno-che-umano; infine – e soprattutto – invisibilizza se stesso ipervisibilizzando la sua presunta naturalità.

L’epidemia da coronavirus mette in luce l’invisibilità della norma visuale che materializza alcuni (pochi) corpi per dematerializzarne altri (molti). Oggi è obbligatorio uscire a volto coperto, quando fino a non molto tempo fa tale comportamento era considerato segno di possibile violenza (il nero incappucciato) o di evidente arretratezza e sottomissione (la donna velata). La mascherina (…) dovrebbe essere pensata non solo come strumento per prevenire la diffusione del contagio,ma anche come cartina al tornasole dell’invisibile pervasività dei meccanismi di oppressione: ci sono volti (i nostri) così visibili che possono essere coperti senza perdere la loro bianca lucentezza e ci sono volti (i loro) così oscuramente neri da dover rimanere perennemente esposti.

Del resto, è proprio la retorica del volto che, a partire da Lévinas, apre – chi ha volto chiama alla respons/abilità – nel momento stesso in cui chiude con inusitata violenza – chi non ha volto è ontologicamente e socialmente inintelligibile. Al volto, pertanto, dovrebbero subentrare gli orifizi che, a differenza di quello, sono ubiquitari e attraversano – bucano, perforano – sia il Reale sia la materia sia i corpi. In fondo, pensiamoci, riconosciamo le/i Gregor* Samsa non dal volto, ma dalle cicatrici che portano sulla schiena.

La Guerra ed il Terrore

Durante le varie fasi dell’epidemia, le autorità e i mass media hanno equiparato con insistenza la lotta contro il virus a una guerra su scala planetaria. Questa equiparazione è sostenibile ma per motivi molto diversi da quelli ufficiali, che sembrano basarsi sulla retorica della sempiterna lotta tra il bene (noi, la civiltà, gli eroi) e il male (loro, le/gli animali, i cattivi).

Sloterdijk afferma che “ci si ricorderà del XX secolo come di quell’epoca la cui idea principale consisteva non più nel prendere di mira i corpi dei nemici, bensì il loro ambiente” e che “il XX secolo ha avuto inizio (…) il 22 aprile 1915 a Ypres con il primo utilizzo massiccio dei gas al cloro” da parte dell’esercito tedesco “contro le postazioni d’artiglieria franco-canadesi”. E prosegue: “Nel caso della guerra con il gas gli strati più profondi delle condizioni biologiche degli uomini vengono coinvolti nell’attacco: l’insuperabile abitudine di respirare viene rivolta contro coloro che respirano, in modo tale che, con la prosecuzione del loro habitus elementare, si rendono responsabili della propria distruzione”.

Terrore puro, quindi. Ecco perché il terrorismo contemporaneo, che annienta i corpi devastando i loro ambienti-di-vita (…) è la continuazione della guerra sulla vita qualunque con altri mezzi. Così come Chernobyl, il riscaldamento globale e l’inquinamento atmosferico. E la pandemia di Covid-19.

Il Piacere e la Mancanza

Se c’è qualcosa di evidente in questi giorni in cui un virus s’aggira per il mondo, questo qualcosa è la mancanza. Mancanza che non è solo nostalgia per i piaceri di un tempo ma godimento di ciò che di solito manca: l’inoperosità, il silenzio, la trasparenza dell’aria, il ritorno delle/degli animali dentro la polis…

Se c’è qualcosa che abbiamo imparato da Freud e Lacan è il paradosso per cui il principio di piacere porta la vita a un equilibrio che si avvicina molto alla morte, mentre la pulsione di morte trascina la vita nella mancanza a sé, in quell’incessante disequilibrio produttivo che la rilancia all’in/finito. Anche per questo, il godimento, la jouissance, si realizza nell’impossibilità di compiersi, di materializzarsi alla presenza.

In questo tempo spettrale comprendiamo la potenza della mancanza, la potenza costituente di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato e, forse, non sarà. A comprendere che il desiderio è pienezza della mancanza e che la legge della vita informe è questo desiderio: il circolo D-M-D’, desiderio, mancanza, ancora più desiderio. E, a partire da qui, per mettersi alla ricerca di nuovi piaceri e di inedite soggettivazioni.

La Relazione ed il Soggetto

Se al momento, nessun* può dire se e come questa crisi terminerà, qualcosa, però, dovrebbe già risultare chiaro, anche a chi continua a credere nella favola del Soggetto: la realtà non è fatta di somme di individui ma di relazioni, di assemblaggi di assemblaggi di assemblaggi, di matrioske dentro matrioske dentro matrioske… Da iper/relazioni, insomma. Iper/relazioni che rendono possibile la diffusione del patogeno oltre ogni barriera di specie – più o meno presunta e più o meno sbandierata – e al di là di ogni tentativo di quadrillage e di controllo.

Se qualcosa di buono può uscire da questa brutta storia è che la realtà è fatta di flussi, tracce e forze che corrono lungo linee di contatto e di distacco, di contagio e di attrito, di alleanza e di conflitto, di cooperazione e di lotta… Territorializzazioni, deterritorializzazioni, riterritorializzazioni… Flussi, tracce e forze che attraversano, compongono e decompongono, che ci piaccia o meno, anche l’umano, il suo Mondo e il suo mondeggiare. Anche “noi” siamo attraversat* da una faglia transpersonale di vita qualunque che ci espone all’altro-da-noi che è sia là fuori sia qui dentro: altro-con-noi e altro-in-noi.

Massimo Filippi

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