Nuovi terreni di scontro fra le classi

Una prima considerazione ritengo vada fatta per comprendere appieno il contesto nel quale si sviluppa la mobilitazione per lo sciopero del 26 ottobre indetto da CUB, SGB, SI Cobas, SLAI, Cobas, USI: va rilevata l’assenza dalla scena del conflitto, reale o virtuale poco importa, sia del sindacalismo istituzionale che del sindacalismo, diciamo così, semi-istituzionale, e cioè dei sindacati “di base” che hanno firmato l’accordo del 10 gennaio 2014 (1).

Per un verso, CGIL CISL UIL, che pure dovrebbero temere la “furia anticasta” dei due partiti attualmente al governo, sembrano singolarmente rilassate e pare che aspettino di valutare la situazione.

È, infatti, interessante rilevare che l’accordo sull’ILVA, sulla cui importanza generale non possono esservi dubbi, ha visto il ritorno in scena della concertazione triangolare sindacati – padronato – governo, quel modello corporativo che sembrava essere stato radicalmente messo in crisi dalla politica “blairiana” del governo PD.

E questo accordo, indubbiamente migliore dal punto di vista della tecnica sindacale rispetto a quello che aveva spuntato il ministro Calenda e che aveva visto il rifiuto di FIOM ed USB, rende evidente un salto di paradigma.

Il sindacato, e quindi anche la sinistra sindacale di FIOM e USB, accetta, volente o nolente, di svolgere un ruolo “puro” di contrattazione sull’occupazione e il salario lasciando in mano al padrone e al governo la dimensione sociale generale del conflitto e, in questo caso, la gestione di una nocività che determina morti, malformazioni, malattie.

Un accordo certo prodotto da una situazione particolare, da uno dei tanti passi indietro del M5S, dal fatto che il sindacalismo industriale a Taranto ha vissuto per decenni in serena e ben retribuita subalternità rispetto all’ILVA, ma anche un apripista e un prezzo pagato, specie da FIOM e USB, per vedersi riconosciuti da governo e padronato.

Per l’altro verso, l’assenza della parte del sindacalismo di base che ha firmato l’accordo del 10 gennaio e la scelta dei dirigenti di USB di lanciare il 20 ottobre una manifestazione romana a favore delle nazionalizzazioni: se se ne vuole dare una spiegazione nobile una sorta di nazionalsinsdacalismo (2) che si colloca nell’attuale deriva sovranista, se si vuole essere brutali una marchetta al governo ed un controfuoco volto a indebolire lo sciopero del 26 ottobre.

Un secondo problema è evidente: larghi settori della nostra classe guardano al nuovo governo con attenzione e con speranze che, per quanto mal riposte o, forse, proprio perché mal riposte indeboliscono la disponibilità, già non straordinaria, alla mobilitazione.

Da un lato, sarebbe sciocco negarlo, la propaganda xenofoba del governo fa breccia fra i lavoratori al punto che, come cercherò di dimostrare più avanti, il “Decreto sicurezza”, più noto come “Decreto Salvini”, contiene, senza che la gran parte dell’opinione pubblica ne abbia consapevolezza, misure durissime contro il conflitto sociale nelle sue forme più fisiologiche e tradizionali, misure che fanno pensare a una volontà di “portarsi avanti” in previsione di un forte indurimento dello scontro sociale.

Dall’’altro, la promessa di una politica sociale generosa, di una distribuzione a pioggia di ricchi doni e cotillons, promessa resa più credibile dalle polemiche di segno ordoliberista sollevate dalla destra civilizzata, si fa per dire, e dal Partito democratico, ha un effetto, lo si è già rilevato, passivizzante.

Non vi è spazio in questo testo per una puntuale disamina del Decreto di Economia e Finanza, ma anche qui l’essenziale è evidente: non si toccano l’assetto proprietario e la distribuzione della ricchezza, cosa che peraltro nessuno si aspettava, con l’effetto che l’incremento della spesa pubblica mediante indebitamento si scaricherà sul lavoro dipendente come pressione fiscale, e si spostano risorse su tre segmenti di popolazione, ovvero, lo strato più povero o, quantomeno, quello che dal punto di vista della pressione fiscale risulta tale, una parte dei lavoratori anziani, e la piccola impresa.

È però un fatto che, lo strato più povero riceverà, nel mentre verranno imposti vincoli e controlli di ogni sorta, in media, meno di 130 euro lordi al mese con l’effetto che, nonostante le rodomontate di Di Maio, resterà povero, che chi si avvantaggerà della possibilità di andare in pensione sarà un numero relativamente limitato di lavoratori, e che solo la piccola impresa avrà, forse qualche vantaggio reale.

In ogni caso, la massa dei lavoratori dipendenti, basti pensare a quelli pubblici per i quali nel DEF non sono previste risorse per i contratti, non ne avrà alcun vantaggio e, in molti casi, per le ragioni già esposte, ne sarà danneggiata.

È opportuno, a questo punto, per la sua rilevanza, tornare sul Decreto Salvini: una vera propria porcata che, peraltro, ne nasconde, male, un’altra.

In generale i primi commenti sul decreto Salvini hanno, e con molte buone ragioni, posto l’accento sui caratteri xenofobi, se non razzisti, del decreto stesso.

Tocca, paradossalmente, proprio a noi, accusati di essere i più risoluti avversari del Governo, la difesa del Ministro Salvini, il suo decreto infatti è una porcata non solo contro gli immigrati ma anche contro i lavoratori italiani, e quindi, se di razzismo si tratta, è il normale razzismo della classe dominante contro i lavoratori.

Basta infatti leggere attentamente, nonostante non sia una lettura gradevolissima, il decreto stesso per rilevare che, con l’art. 22, il divieto di partecipare a iniziative pubbliche previsto per i membri delle tifoserie, il famoso Daspo, viene esteso a coloro che le autorità di polizia ritengono ostili al loro ordine sociale e quindi a chunque si ribelli non a chiacchiere alle misure di questo o di altri governi.

Con l’art. 23, inoltre, vengono estesi i luoghi per i quali è prevista l’applicazione dello stesso Daspo.

Può farci indubbiamente piacere l’essere eguagliati agli appassionati di calcio, ma è evidente che l’obiettivo del governo è limitare radicalmente la libertà di manifestare.

L’art. 25 rafforza ulteriormente le limitazioni introducendo sanzioni gravissime, il carcere, per i blocchi stradali e ferroviari, e cioè per normali forme di manifestazione dell’opposizione dei lavoratori, per fare solo un caso, ai licenziamenti di massa.

Con l’art. 32 si sanzionano ancora con il carcere le occupazioni di case, e quindi la colpa di essere poveri, e di proprietà, ad esempio l’occupazione di un’azienda nel corso di una vertenza sindacale.

Accanto a queste disposizioni che colpiscono esplicitamente e direttamente le lavoratrici ed i lavoratori ve ne sono molte altre che prevedono il rafforzamento degli strumenti di repressione “generali”. Basti pensare, per fare un solo esempio, all’armamento dei vigili urbani del grandi centri con la famigerata pistola “taser”.

Non è necessaria una straordinaria fantasia sociologica per comprendere la logica del decreto Salvini: sviluppare una campagna contro gli immigrati, equiparati ad un problema di ordine pubblico, ottenendo così un consenso dai settori meno avvertiti del mondo del lavoro a misure che colpiscono tutti i lavoratori, compresi magari quelli che oggi guardano con simpatia queste misure.

A questo punto, il compagno che ha avuto la pazienza di leggere il teso potrebbe, con qualche ragione, porre la domanda se, viste le difficoltà, non sarebbe stato il caso di evitare di cimentarsi in uno sciopero. Una, eventuale, buona domanda alla quale cercherò di dare una risposta, spero, buona.

Proprio in un momento in cui la nostra classe rischia di essere usata strumentalmente dalle due fazioni del capitale e del ceto politico attualmente in campo, i sovranisti ed i liberali di destra e di sinistra, si tratta di dare un segnale di autonomia dall’istituito, dal quadro politico, dal governo, dal padronato e di darlo su una piattaforma contro la guerra, il razzismo, l’attacco alle libertà e, nello stesso tempo, per il salario, il welfare, la difesa dell’ambiente, la parità dei diritti.

Non è facile, al contrario, ma la partita interessante si sta giocando nelle assemblee, nei volantinaggi, negli incontri, nella costruzione di un fronte articolato di soggetti sindacali, politici, culturali che si schierano su questa piattaforma.

Chi scrive, come sospetto sia noto, non è un osservatore neutrale di questo processo, ritengo però sia possibile dare un giudizio sensato e basato sulla valutazione dei fatti su quanto sta avvenendo anche essendo esplicitamente di parte.

Sullo sciopero si sono già pronunciati favorevolmente militanti e delegati della sinistra CGIL e la stessa componente di sinistra della CGIL nel suo insieme, della sinistra di USB e della Confederazione Cobas e, nello stesso tempo coordinamenti di base a scarsa intensità di appartenenza ideologica di settori di lavoratori che vivono tensioni molto forti come gruppi di maestre diplomate magistrali che, dopo mesi e mesi di lotte, e dopo aver avuto rassicurazioni dai partiti attualmente al governo, si vedono “tradite” (3), comitati che si battono contro le nocività, diverse forze politiche.

Nell’attività di preparazione e di propaganda verifichiamo che scontento c’è, si tratta di offrire ai lavoratori ed alle lavoratrici modo di agire questo scontento e magari di costruire assieme la mobilitazione.

Punti di crisi ci sono, ho ricordato le diplomate magistrali, ma basti pensare alle attuali tensioni fra Movimento NO TAV e M5S, di fronte agli sbandamenti di questo partito sulla questione TAV, per comprendere che uno spazio politico/sindacale c’è. Si tratta, come già dicevo, di sapervi operare.

Cosimo Scarinzi

  1. Si tratta di un accordo fra CGIL CISL UIL e, prima Confindustria, e poi altre associazioni padronali, che lega il godimento di diritti sindacali minimi come la possibilità di presentare candidati alle elezioni per le Rappresentanze Sindacali Unitarie all’impegno a non scioperare contro gli accordi firmati a maggioranza. Di fronte alla scelta secca se firmare o rifiutarsi, il sindacalismo di base si divise fra chi chinò il capo e chi tenne duro con l’effetto che, almeno su iniziative quali gli scioperi generali, non è possibile indirli unitariamente.

  2. In realtà, legato alle posizioni nazionalcomuniste di organizzazioni come la Rete dei Comunisti, alla quale aderiscono molti se non tutti i dirigenti di USB. Si tratta di un’area politica che propugna come obiettivo l’uscita dall’Unione Europee e una vigorosa politica nazionale.

  3. Inutile dire che, a mio avviso, come diceva François VI de La Rochefoucauld principe di Marsilio, non si è traditi che dai propri. Molti, troppi, lavoratori non hanno maturato una critica radicale della politica e se la fanno, la fanno sulla base dell’esperienza più che della nostra propaganda. Come diceva giustamente Errico Malatesta in una lettera a Nestor Ivanovic Machno, pubblicata su “Il Risveglio” del 4 dicembre 1929, “Ecco, io credo che l’importante non sia il trionfo dei nostri piani, dei nostri progetti, delle nostre utopie, le quali del resto hanno bisogno della conferma dell’esperienza e possono essere dall’esperienza modificate, sviluppate ed adattate alle reali condizioni morali e materiali dell’epoca e del luogo. Ciò che più importa è che il popolo, gli uomini tutti perdano gl’istinti e le abitudini pecorili, che la millenaria schiavitù ha loro inspirate, ad apprendano a pensare ed agire liberamente.”

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