Siamo nella piana di Gioia Tauro, a San Calogero, in provincia di Vibo Valentia, siamo in Calabria. E’ sera, è sabato, e tre migranti, “regolari” ci tengono a farci sapere i TG, rovistano presso una fabbrica abbandonata.
Cercano vecchie lamiere e altro materiale per costruirsi un riparo di fortuna.
I tre ragazzi sono braccianti, si chiamano Sacko Soumayla, Madiheri Drame e Madoufoune Fofana.
Vivono provvisoriamente nella tendopoli di San Ferdinando. Quel campo però, pochi mesi prima, era stato semidistrutto da un incendio e avrebbe dovuto essere smantellato a breve.
A morirci mesi prima, in quella tendopoli, fu la giovane migrante Becky Moses, altre rimasero ustionate e intossicate. Becky era una richiedente asilo e aveva 26 anni, la burocrazia l’aveva sbattuta fuori dallo SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) perché riteneva non avesse diritto all’accoglienza, decise così di trovare riparo in quella baraccopoli, finì per trovarci solo sfruttamento e un’orribile morte in un freddo gennaio.
Morte chiama morte. Quella sera del 2 giugno mentre i ragazzi cercano pezzi di metallo, plastica e legna, da un casolare a circa 150 metri dall’ex fornace partono diversi colpi di fucile, il primo colpisce Sacko in testa, un colpo e cade a terra esangue.
Altre fucilate sono dirette agli altri due lavoratori, Madiheri viene colpito ad una gamba mentre Madoufoune cerca riparo e si salva.
Gli assassini hanno predisposto tutto bene, nell’immediata vicinanza dell’ex fornace c’è l’auto, in pochissimo tempo si danno alla macchia. Il ragazzo rimasto illeso riesce a vedere almeno una persona, è bianco dice. Gli inquirenti stanno indagando, pare stiamo trovando l’esecutore, pare sia uno solo, pare.
Quello che invece è certo è che Sacko era un lavoratore sfruttato, al limite dello schiavismo come avviene da tempo, ed era un sindacalista dell’USB (Unione Sindacale di Base).
Sacko era un migrante maliano di 29 anni, in prima fila nel battersi per i diritti dei braccianti contro il caporalato. Impegnato fin da subito nelle lotte sindacali proprio contro lo sfruttamento bestiale nella Piana di Gioia Tauro, e le condizioni fatiscenti in cui lui e gli altri lavoratori erano costretti a vivere nelle tendopoli.
Questo è certo, l’unica certezza in questa ennesima piccola storia ignobile italiana.
Perché loro, Sacko, Madiheri e Madoufoune erano “regolari”, esattamente come era “regolare” che venissero schiavizzati per una manciata di euro, per una decine di ore al giorno, senza diritti e umanità da padroni italiani assolutamente in “regola”, regolarmente lasciati fare dai Comuni interessati, dalla regione e dallo stato, rigorosamente nell’indifferenza generalizzata di istituzioni, polizia, e di una società regolarmente omertosa nei confronti di migranti, sfruttati, soprattutto se precari e poveri.
Mentre il nuovo governo leghista e pentastellato conclude l’osceno balletto d’inciucio chiamato contratto e si prepara alla guerra di classe antiproletaria della terza repubblica, la morte di Sacko viene affrontata con frettolosità, derubricata a increscioso incidente col solito appello a che la giustizia trovi i responsabili e bla bla bla.
Ma i responsabili, nella fattispecie di mandanti, gli abbiamo già trovati.
Siedono nei massimi scranni del governo, indossano fasce tricolori alle celebrazioni, brindano e pasteggiano in abbondanti buffet, partecipano sorridenti a popolari show televisivi, e sono soliti dirci che dovremmo fare sacrifici, che chi più è ricco è giusto che meno paghi eccetera eccetera.
Sacko muore in uno stato di guerra a bassa intensità permanente.
Sotto i colpi dilaganti del razzismo prima e del fucile dopo. Muore tra le fila disperate di lavoratori schiavizzati sotto gli slogan “è finita la pacchia” e “prima gli italiani”.
Ma muore anche attorniato da chi ancora lotta, come lui, per i propri e i diritti di tutti.
Muore nel calore di chi non tace e tenta di autorganizzare la rabbia, muore fra le braccia di chi, oltre e contro i confini, fuori dalle ipocrite e mistificatorie narrazioni legalitarie, trova ancora fratelli con cui solidarizzare e compagni di cui fidarsi.
E’ poco ma è tutto.
Stefano Raspa