“Uno Stato che non vuole riconoscere la verità è uno Stato che non esiste. Io non mi sento sconfitta perché non ho avuto giustizia nelle aule di tribunale. La giustizia sta nel fatto che tutti sappiano la verità”.
Con questa frase lapidaria Licia Rognini Pinelli – scomparsa a 96 anni la mattina dell’11 novembre scorso – ha sintetizzato il percorso che ha caratterizzato la sua vita da quando suo marito Pino venne scaraventato dall’ufficio del commissario Luigi Calabresi al quarto piano della Questura di Via Fatebenefratelli a Milano, nella notte tra il 15 e 16 dicembre del 1969, all’indomani della strage di piazza Fontana. Un percorso tutto in salita, irto di ostacoli di ogni tipo, frapposti da chi teneva le fila della provocazione antipopolare che negli anarchici doveva trovare, ad ogni costo, i capri espiatori per quelle bombe infami. Licia, nella sua vita, ha perseguito con caparbietà, con lucidità lo scopo di conoscere la verità sulla morte in Questura di Pino. Una verità che gli anarchici, e non solo loro, hanno affermato da subito sintetizzandola nello slogan ‘Valpreda innocente, Pinelli assassinato, la strage è di Stato’. Una verità che lo Stato non ha mai voluto darle, offrendo invece – dopo le false ricostruzioni dei primi momenti funzionali a presentare Pino come responsabile della strage insieme a Valpreda e compagni e dopo i tentativi d’archiviazione – il fantasmagorico pronunciamento tombale del giudice D’Ambrosio vicinissimo al PCI che nel 1975, nel clima montante del compromesso storico di berlingueriana memoria, ricorse alla teoria basata sul “collasso che si manifesta con l’alterazione del centro d’equilibrio cui non segue perdita del tono muscolare e cui spesso si accompagnano movimenti attivi e scoordinati”, in sostanza il famoso ‘malore attivo’ – come venne appellato allora – che avrebbe costretto Pinelli, sottoposto allo stress di un interrogatorio sempre più pressante, a sbarellare in mezzo alla stanza fino a compiere un balzo oltre la ringhiera della finestra. Non si poteva più, dopo aver accertato l’estraneità degli anarchici dall’attentato compiuto dai fascisti in combutta con pezzi dello Stato, continuare con la favola del suicidio, ma non si poteva nemmeno ammettere le complicità di chi allora stava nella Questura di Milano, al Ministero degli interni a Roma e all’Ufficio Affari Riservati: ecco allora tutti salvi con la trovata del ‘malore attivo’. Ma Licia questa soluzione non poteva accettarla e ha continuato imperterrita nella sua ricerca della verità, quella verità che era sembrata a portata di mano quando nel 1970, il commissario Luigi Calabresi, lasciato solo dai superiori e stanco di una campagna di stampa alimentata soprattutto da Lotta Continua, aveva denunciato i responsabili del quotidiano per diffamazione in un processo che gli si era subito rivolto contro: da accusatore diventava accusato; i subalterni presenti nella stanza della questura avevano cominciato ad inanellare testimonianze sempre più contraddittorie costringendo il giudice a silenziarne almeno uno, il più ciarliero. Licia dirà che mai come in quel momento la verità sembrasse venire a galla. Ci penserà la ricusazione del giudice Biotti e poi l’omicidio di Calabresi ad affossare quel processo. Prima di allora Licia aveva continuato nella sua lotta con la denuncia, nel giugno del 1971, per omicidio volontario di Calabresi e dei suoi sodali presenti nella stanza. D’Ambrosio prenderà in mano la denuncia per portarla dove abbiamo già visto, stilando una sentenza senza neppure un processo pubblico, senza contraddittorio.
Anno dopo anno, decennio dopo decennio, la mobilitazione per la verità e la giustizia sulla strage di Piazza Fontana e l’omicidio di Pino Pinelli è continuata e non si è mai fermata. Così come sono continuati gli incontri di Licia, e poi delle sue figlie Silvia e Claudia, nelle scuole, nei circoli e nelle situazioni ove veniva invitata per raccontare di Pino e di quella strage.
Per Licia, l’invito al Quirinale da parte del presidente Napolitano nel 2009 parve un’ennesima occasione per ottenere quella giustizia tanto ricercata. Dopo tanti insabbiamenti e archiviazioni le parole di Napolitano che riconoscevano i torti subiti dal compagno sembravano poter aprire una porta per un nuovo procedimento che portasse i responsabili a giudizio. Nulla. Fu solo un’operazione politica tesa a ‘pacificare’ tra loro chi non era mai stato in conflitto, le vedove, i figli e le figlie, dell’anarchico e del commissario. E con questa ‘pacificazione’ cercare di chiudere un intero periodo storico, occultando di fatto le responsabilità della classe politica e della borghesia italiana nella strategia della tensione.
Nemmeno un libro inchiesta, scritto da Gabriele Fuga e da Enrico Maltini (edito prima da Zero in Condotta e poi, ampliato, da Colibrì) che rivelò per la prima volta in assoluto la presenza di agenti dei servizi segreti italiani, del famigerato Ufficio Affari Riservati, negli interrogatori che portarono alla morte di Pino è servito a riaprire uno straccio d’istruttoria.
Un magistrato confidò una volta a Licia che se non ci fosse stata lei, con la sua caparbietà e la sua determinazione a cercare la verità sulla morte di Pino, Valpreda sarebbe stato condannato all’ergastolo. Non per niente chi ha conosciuto Licia l’ha sempre definita una ‘roccia’, un sasso che ha contribuito a far deragliare un treno, insieme a quanti e quante, in questo mezzo secolo, si sono impegnati a tener vivo il ricordo e la denuncia dei misfatti del potere.
Nel pomeriggio di venerdì 15 si sono svolti i suoi funerali alla casa funeraria di via Corelli, avendo rifiutato la famiglia la cerimonia istituzionale proposta dal sindaco Sala. Diverse centinaia di persone si sono strette ai familiari di Licia, alle figlie Silvia e Claudia, alle/ai nipoti in una abbraccio che non ha avuto nulla di cerimonioso, tra sventolamento di bandiere, canti e parole. Numerosi interventi si sono susseguiti incentrati sulla dimensione umana e sull’impegno di Licia per la verità. Verità che non può che significare la piena assunzione di responsabilità da parte degli apparati dello Stato nell’assassinio di Pino. Non sono mancati gli esponenti politici e sociali come il segretario milanese dell’ANPI che ha affiancato le sorelle Pinelli nell’organizzazione dei funerali, come pure rappresentanti della società milanese. Numerose le anarchiche e gli anarchici che hanno contributo, con la loro testimonianza e la loro presenza, a ricordare il senso di quella strage, di quell’omicidio e delle false accuse che tennero in galera per tre anni Valpreda, Gargamelli e compagni.
Massimo Varengo
(qui tutti gli interventi della giornata: “www.youtube.com/live/LdbS3Hj_QzY?si=ivvUEj2gf4Uu-c_oD ).