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Libertà o dittatura. Il concetto anarchico della rivoluzione (parte seconda)

Libertà o dittatura. Il concetto anarchico della rivoluzione (parte seconda)

“Libertà anche per i nemici nostri?” ci si chiede. La domanda è ingenua o subdola. Coi nemici siamo in lotta, e nella mischia non si riconosce al nemico nessuna libertà, neppur quella di vivere. Se essi fossero dei nemici solo… teorici, se ce li trovassimo di fronte disarmati, nell’impossibilità di attentare alla libertà nostra, spogli d’ogni privilegio e quindi a parità di condizioni, sarebbe cosa ammissibile. Ma preoccuparsi della libertà dei nostri nemici quando noi abbiamo qualche povero giornale e pochi settimanali, ed essi possiedono centinaia di quotidiani a grande tiratura; quando essi sono armati e noi disarmati, mentre loro sono al potere e noi siamo sudditi, essi ricchi e noi poveri, via! sarebbe ridicolo… Sarebbe lo stesso che riconoscere ad un assassino la libertà di ammazzarci! Tale libertà noi la neghiamo loro, e la negheremo sempre, anche in periodo rivoluzionario, finché essi conserveranno la loro condizione di carnefici e noi non avremo conquistata tutta e completa la nostra libertà, non solo in diritto ma di fatto.

Ma questa libertà non potremo conquistarla se non adoperandola anche come mezzo, dove il farlo dipende da noi; vale a dire dando fino da oggi un indirizzo sempre più libero e libertario al nostro movimento, al movimento proletario e popolare; sviluppando lo spirito di libertà, di autonomia e di libera iniziativa in mezzo alle masse; educando queste ad una insofferenza sempre maggiore d’ogni potere autoritario e politico, incoraggiando lo spirito d’indipendenza di giudizio e d’azione verso i capi di ogni specie, abituando il popolo allo sprezzo d’ogni freno e disciplina imposti dagli altri e dall’alto, che non sia cioè il freno della propria coscienza e la disciplina liberamente scelta e accettata, e seguita solo finché la si ritiene buona ed utile allo scopo rivoluzionario e libertario che ci siamo prefissi.

È chiaro che una massa educata a questa scuola, un movimento avente questo indirizzo (e cioè il movimento anarchico) troverà nella rivoluzione l’occasione e il mezzo di svolgersi nel suo senso fino a limiti oggi neppure immaginabili; esso sarà l’ ostacolo naturale e volontario insieme al formarsi ed affermarsi di qualsiasi governo più o meno dittatoriale. Fra questo movimento verso una sempre maggiore libertà e la tendenza accentratrice e dittatoriale non può esservi che conflitto, più o meno forte e violento, con maggiori o minori tregue, a seconda delle circostanze; ma concordanza mai.

E ciò non per una fisima esclusivamente dottrinaria e astratta, ma perché i negatori del potere – è questo ripetiamo il lato più importante della teoria anarchica, che vuol essere la più pratica delle teorie – pensano che la rivoluzione senza la libertà ci riporterebbe ad una nuova tirannide; che il governo per il solo fatto che è tale tende ad arrestare e limitare la rivoluzione; che è interesse della rivoluzione e del suo progressivo sviluppo combattere e ostacolare ogni accentramento di poteri, impedire la formazione d’ogni governo, se è possibile, o impedirgli almeno di rafforzarsi, di diventare stabile e consolidarsi. Vale a dire che l’interesse della rivoluzione è contrario alla tendenza che ogni dittatura ha in sé, per quanto proletaria o rivoluzionaria si dica, di diventare forte, stabile e solida.

Ma no! replicano altri; si tratterebbe d’una dittatura provvisoria finché dura l’opera di spodestamento della borghesia, per combattere questa, vincerla ed espropriarla.

Quando si dice «dittatura» si sottintende sempre provvisoria, anche nel significato borghese e storico della parola. Tutte le dittature nei tempi andati furono provvisorie nelle intenzioni dei loro promotori e, nominalmente, anche di fatto. Le intenzioni in tal caso contano poco, poiché si tratta di formare un organismo complesso che seguirebbe la sua natura e le sue leggi e annullerebbe ogni aprioristica intenzione contraria o limitatrice. Quello che dobbiamo vedere è: primo, se le conseguenze del regime dittatoriale siano più di danno che di vantaggio per la rivoluzione; secondo, se gli scopi distruttori e ricostruttivi per cui la dittatura si vorrebbe, non si possano raggiungere anche e meglio senza di essa, per le vie larghe della libertà.

Noi crediamo che ciò si possa; e che la rivoluzione sia più forte, più incoercibile, più difficile a vincersi, quando non v’è un centro in cui colpirla: quando essa è dovunque, su tutti i punti del territorio; e dovunque il popolo proceda liberamente ad attuare i due fini principali della rivoluzione: la destituzione dell’autorità e l’espropriazione dei padroni.

Quando noi rimproveriamo alla concezione dittatoriale della rivoluzione il grave torto di imporre la volontà d’una piccola minoranza alla grande maggioranza della popolazione ci si risponde che le rivoluzioni le fanno le minoranze.

Anche nella letteratura anarchica si trova spessissimo ripetuta questa espressione, che dice infatti una grande verità storica. Ma bisogna comprenderla nel suo vero significato rivoluzionario, e non darle, come i bolscevichi, un senso che prima d’ora non aveva mai avuto. Che le rivoluzioni le facciano le minoranze, infatti, è vero… fino ad un certo punto. Le minoranze, in realtà, iniziano la rivoluzione, prendono l’iniziativa dell’azione, sfondano la prima porta, abbattono i primi ostacoli, poiché sanno osare ciò che le maggioranze inerti o misoneiste paventano, nel loro amore di quieto vivere e nel loro timore dei rischi.

Ma se, una volta spezzate le prime ritorte, le maggioranze popolari non seguono le minoranze audaci, l’atto di queste o è seguito dalla reazione del vecchio regime che si piglia la rivincita, oppure si risolve nella sostituzione di una dominazione ad un’altra, di un privilegio ad un altro. Bisogna cioè che la minoranza ribelle abbia più o meno consenziente la maggioranza, ne interpreti i bisogni ed i sentimenti latenti e, vinto il primo ostacolo, realizzi le aspirazioni popolari, lasci alle masse la libertà di organizzarsi a loro modo, diventi in un certo senso la maggioranza.

Se questo non è, noi non diciamo che la minoranza non abbia lo stesso il diritto alla rivolta. Secondo il concetto anarchico della libertà, tutti gli oppressi han diritto di ribellarsi all’oppressione, l’individuo come la collettività, le minoranze come le maggioranze. Ma altro è ribellarsi all’oppressione, altro è diventare oppressore a sua volta, come più volte abbiam detto. Anche quando le maggioranze tollerano l’oppressione o ne sono complici, la minoranza che si senta oppressa ha diritto a ribellarsi, a volere per sé la sua libertà. Ma altrettanto e maggiore diritto vi avrebbero le maggioranze, contro qualsiasi minoranza che pretendesse con qualunque pretesto di soggiogarle.

Del resto, nel fatto reale, gli oppressori sono sempre una minoranza, tanto se opprimono apertamente in solo nome proprio, quanto se l’oppressione esercitano in nome di ipotetiche collettività o maggioranze. La rivolta è quindi al principio di una minoranza cosciente, insorta in mezzo ad una maggioranza oppressa, contro un’altra minoranza tirannica; ma tale rivolta diventa rivoluzione, può avere efficacia rinnovatrice e liberatrice, solo se col suo esempio riesce a scuotere la maggioranza, a trascinarla, a metterla in moto, a conquistarne il favore e l’adesione.

Abbandonata o avversata dalle maggioranze popolari, la rivolta se sconfitta passerebbe alla storia come un movimento eroico ed infelice, fecondo precorritore dei tempi, tappa sanguinosa ma necessaria di una vittoria immancabile nel futuro. Altrimenti se vincitrice la minoranza ribelle divenuta padrona del potere a dispetto delle maggioranze, novello giogo sul collo dei sudditi, finirebbe con l’uccidere la rivoluzione stessa da lei suscitata.

In certo senso si potrebbe dire che se una minoranza ribelle non riuscisse col suo slancio a trascinare dietro sé la maggioranza degli oppressi, sarebbe più utile alla rivoluzione se sconfitta e sacrificata. Poiché, se con la vittoria diventasse lei l’oppressore, finirebbe con lo spegnere nelle masse ogni fede nella rivoluzione, col far loro fors’anco odiare una rivoluzione da cui esse vedessero uscire null’altro che una nuova tirannide di cui sentirebbero il peso ed il danno, qualunque fosse il pretesto od il nome con cui venisse coperta.

Specialmente dopo la rivoluzione russa, viene difesa l’idea del potere dittatoriale della rivoluzione, come un mezzo necessario di lotta contro i nemici interni, contro i tentativi degli ex dominatori vogliosi di riacquistare il potere economico e politico. Il governo servirebbe, cioè, ad organizzare, nei primi momenti di maggior pericolo, il terrorismo antiborghese in difesa della rivoluzione [Fabbri parla del «terrorismo» non nel solo significato particolare di politica terrorista di governo, ma nel senso generale dell’uso della violenza fino agli estremi limiti più micidiali, che può esser fatto tanto da un governo per mezzo dei suoi gendarmi, quanto direttamente dal popolo nel corso d’una sommossa e durante la rivoluzione, ndr].

Noi non neghiamo punto la necessità dell’uso del terrore, specialmente quando ai nemici interni vengano in aiuto, con forze armate, i nemici esterni. Il terrorismo rivoluzionario è una conseguenza inevitabile, quando il territorio su cui la rivoluzione non s’è ancora sufficientemente rafforzata viene invaso da eserciti reazionari. Ogni insidia della controrivoluzione, dal di dentro, è troppo funesta in tali circostanze per non dover essere sterminata col ferro e col fuoco.

La leggenda di Bruto, che manda al patibolo i figli, complici all’interno dei Tarquini scacciati da Roma e minaccianti la romana libertà alla testa d’un esercito straniero, è il simbolo di questa tragica necessità del terrore. Così in Francia si sentì la necessità, nel 1792, di sterminare i nobili, i preti e i reazionari accumulati nelle prigioni, quando Brunswich si appressava minaccioso a Parigi, guidato dagli emigrati.

Il terrore diventa inevitabile, quando la rivoluzione è accerchiata da ogni parte. Senza la minaccia esterna, le minacce controrivoluzionarie interne non mettono paura; basta a tenerle inattive la visione della loro impotenza materiale. Lasciarle indisturbate può essere lo stesso un errore, e magari un pericolo per l’avvenire, ma non costituisce pericolo immediato. Perciò si può più facilmente essere trascinati verso i propri nemici da un sentimento di generosità e di pietà. Ma quando questi nemici hanno al di là delle frontiere delle forze armate pronte a intervenire in loro soccorso, quando essi trovano degli alleati nei nemici esterni, allora diventano un pericolo, che si fa sempre più forte quanto più l’altro pericolo avanza dal di fuori. La loro soppressione diventa allora questione di vita o di morte.

La rivoluzione tanto più è inesorabile in tali frangenti, tanto meglio riesce ad evitare maggiori lutti per l’avvenire. Una eccessiva tolleranza oggi potrebbe render necessario domani un rigore doppiamente grave. Se poi essa avesse per conseguenza la sconfitta della rivoluzione, ben più tremende stragi verrebbero a punire la debolezza col terrore bianco della controrivoluzione!

Non bisogna del resto valorizzar troppo la retorica di cui fa pompa la stampa borghese, per vituperare e calunniare il terrorismo rivoluzionario.

Tutti da quattro anni non fanno che parlare degli orrori, delle stragi, delle infamie, dei disordini rivoluzionari di Pietrogrado e di Mosca. Ma se si avesse la pazienza di andare nelle biblioteche a ripescare i diari di Roma, Torino, Vienna, Coblenza, Berlino, Londra e Madrid dal 1789 al 1815 circa vi si leggerebbero parole identiche di orrore sulle stragi, le infamie e i disordini della Rivoluzione francese, che oggi tutti chiamano la Grande Rivoluzione. Quelli che rammentano i tempi della Comune di Parigi del 1871, ricordano parimenti con quale linguaggio ributtante si parlava delle «stragi» dei petrolieri comunardi: non v’erano parole bastanti per vituperarli come i peggiori assassini. Nonostante, quanti apologisti della Comune parigina non vi sono oggi fra i vituperatori della Comune moscovita!

I patrioti sinceri italiani debbon ricordare le infamie che nei giornali moderati e bonapartisti parigini si scrissero – d’accordo coi giornali clericali viennesi – contro la Repubblica Romana nel 1849, e come pure allora le anime pie si scandalizzarono e inorridirono per le stragi attribuite ai carbonari ed ai mazziniani. Anche sulla rivoluzione russa un giorno si saprà la verità vera e forse molti odierni suoi diffamatori si ricrederanno. Allora, probabilmente, gli unici che persisteranno nella critica saranno… gli anarchici!

Luigi Fabbri

(tratto da “Dittatura e rivoluzione”, Ancona, Libreria editrice internazionale G. Bitelli, 1921).

La prima parte è stata pubblicata sul n.6

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