Il libro La sfida Anarchica nel Rojava (pubblicato dalla Biblioteca Franco Serantini, a cura di Norma Santi e Salvo Vaccaro) rappresenta un paziente lavoro di documentazione dell’audace esperimento sociale intrapreso dai curdi e dagli altri popoli presenti nel Rojava. Il testo è articolato in sedici contributi e analizza – criticamente – in particolare il versante libertario, oggettivamente o soggettivamente anarchico.
Uno spaccato a 360 gradi (o quasi) della complessa situazione (il famoso “groviglio”) del Rojava (ma nel libro si parla anche del Bakur – i territori curdi sotto amministrazione/occupazione turca – e dei monti Qandil).
Comunque un “labirinto” sospeso tra mille contraddizioni: la guerra e l’autogestione, la resistenza e l’ecologia, il rifiuto delle gerarchie e la necessità dell’autodifesa, la rivoluzione delle donne e le milizie in armi…
Salvo Vaccaro, docente universitario di filosofia a Palermo, apre queste pagine con la critica alla facile similitudine espressa da David Graeber, noto antropologo e militante del movimento Occupy Wall Street (da poco scomparso), su due eventi storici come la rivoluzione spagnola del 1936 e la rivoluzione in corso nel Rojava. Anche se qualche aspetto, tra l’altro la non secondaria coincidenza tra i tempi della rivoluzione e della guerra, sosterrebbe tale paragone, le profonde differenze tra i due contesti storici rende poco credibili le sue affermazioni.
Vaccaro parla di un “abbaglio da troppa distanza o da troppa vicinanza simpatetica” per definire la forzatura. Secondo lui, l’esaltazione per il Confederalismo Democratico, quale parente stretto dell’anarchismo, si basa su di un a priori di evidente simpatia e solidarietà che corre però il rischio di non comprendere la realtà effettiva, ben più complessa. Basta considerare il fatto che la rivoluzione sociale libertaria in Spagna era il risultato di decenni di attività anarchica a partire dai tempi della Prima Internazionale, una serie continua di scontri con lo stato e di riflessioni teoriche che avevano creato il terreno favorevole alla rivoluzione sociale iniziata nell’estate 1936: collettività autogestite, milizie quasi egualitarie e spontanee, emancipazione (sia pure incompleta) della donna e altre rotture col mondo conservatore e reazionario. Dallo “stile comunitario dei villaggi” curdi e dal ruolo indiscusso del partito PKK e del leader Abdullah Ocalan (“Apo”) emergono evidenti tratti del tutto peculiari e poco affini all’esperienza spagnola.
Ad ogni modo, la lotta del Rojava sta sperimentando forme vicine all’autogestione, un’organizzazione femminile determinata e militante, una serie di critiche radicali allo stato-nazione e una sensibilità ecologista, oltre a un progetto di convivenza fra diverse etnie e tradizioni.
Vaccaro chiarisce che personalmente si muove sul terreno della “interrogazione critica seppure solidale”. Inoltre prospetta un’evoluzione incerta dell’esperimento in Rojava ipotizzando delle probabili “condizioni prossime alla sconfitta” per l’enorme peso delle potenze belliche, vicine e lontane, che intendono evitare che il modello Rojava si diffonda e si moltiplichi.
Più in là egli sottopone a critica un punto che inevitabilmente, secondo lui, mette in forse la dimensione libertaria della sfida del Rojava. Si tratta della “mistica delle armi” che si rintraccia, senza troppo sforzo, nel principio della “violenza levatrice della storia” la quale assegna alla lotta armata un ruolo di finalità politica complessiva e condizionante.
Norma Santi, l’altra curatrice del volume, si impegna ad approfondire il tema della liberazione delle donne curde, un fatto di importanza centrale nel Rojava, attraverso l’analisi della sociologa curda Dilar Dirik. Questa intellettuale, che lavora a Cambridge, ha fatto un giro di conferenze alcuni di anni fa in diverse località italiane e ha conosciuto Norma scambiando valutazioni e riflessioni. Il tema originale è la Jinealogia, “scienza e paradigma delle donne” (Jin in curdo significa donna). Norma aggiunge che questa novità nel campo dell’analisi scientifica e della pratica politica “sta influenzando il pensiero femminista ortodosso”.
Interessante è pure il contributo di Raul Zibechi che cerca di risolvere un enigma: perché eventi di tale portata (“il popolo in armi, il ruolo di spicco delle donne, l’autogoverno”) vengano a manifestarsi in coincidenza con tempi duri e condizioni difficili, se non addirittura disperate (“durante una guerra, in una situazione estremamente critica per la sopravvivenza”)? Del resto lo stesso – più o meno – avvenne anche in Ucraina nel ’21 e in Catalogna e Spagna nel ’36.
I precedenti della situazione del popolo curdo sono – relativamente – noti: dagli accordi segreti Sykes-Picot tra inglesi e francesi alle rivolte curde tra il 1920 e il 1940 alla repressione turca degli anni ottanta e novanta… Arrivando ai nostri giorni, lo scrittore uruguayano spiega come dall’evaporazione delle strutture statali nel nord della Siria (2011) sia derivata l’occasione per formare le Unità di Protezione del Popolo (YPG) e le Unità di Difesa delle Donne (YPJ) – le milizie che l’anno dopo avrebbero liberato Kobane e altre città. Di conseguenza, sorge anche la possibilità per il PYD (Partito dell’Unione Democratica) e il KNC (Consiglio Nazionale Curdo) di amministrare in base ai principi del Confederalismo Democratico (ossia di una forma adattata del municipalismo libertario) e – nel gennaio 2013 – l’opportunità storica per i cantoni di Jazira, Efrin e Kobane di proclamare la loro autonomia. Tra le macerie (le “rovine” che non spaventavano Durruti e compagni) della guerra civile, i curdi hanno cercato e individuato la “loro strada attraverso l’autogoverno”. Un esempio di possibile convivenza pacifica tra curdi, arabi, aramaici, armeni, turcomanni, ceceni…
Quanto al cambiamento di paradigma, non solo politico ma anche sociale, culturale e teorico, operato dal PKK (per inciso: precedente alla carcerazione di “Apo” del 1999), secondo Zibechi questa novità costituì un elemento che doveva scatenare la “reazione furibonda degli Stati Uniti e dei loro alleati che decisero di definirlo terrorista e di perseguire il suo dirigente Abdullah Ocalan”. I fatti successivi sono noti: espulso dalla Siria ed anche dalla Russia, dopo un breve soggiorno in Italia (in un primo momento D’Alema aveva garantito a Bertinotti l’asilo politico per il leader curdo perseguitato), Ocalan venne sequestrato – in un’operazione attribuita alla CIA e al Mossad – mentre dall’ambasciata greca in Kenya si recava in Sudafrica su invito di Nelson Mandela.
Nel suo scritto Zibechi non dimentica di rimproverare ai partiti della sinistra turca, pure della sinistra rivoluzionaria, una conclamata inadeguatezza di fronte alla questione curda. Al contrario, proprio la resistenza e l’autogoverno dei curdi sia in Rojava che in Bakur avrebbero ridestato la sinistra turca, rimasta a lungo in difficoltà dopo il golpe del 1980.
Attraverso la testimonianza della figlia, veniamo informati dell’origine del rapporto tra il pensatore anarchico – statunitense ma di origine russa – Murray Bookchin (che molti di noi ricordano, basco in testa, a Venezia nell’Incontro internazionale del 1984) ed Ocalan. Debbie Bookchin, esponente dell’Institute for Social Ecology, racconta di quando Murray le rivelò che “apparentemente i curdi hanno letto il mio lavoro e stanno cercando di mettere in pratica le mie idee” – che il filosofo e storico aveva denominato “ecologia sociale”. In quei giorni (aprile 2004) Bookchin padre aveva ricevuto una lettera da un intermediario (un traduttore tedesco, Reimar Heider) che scriveva a nome del leader curdo imprigionato a Imrali, un carcere speciale ipersorvegliato nel mar di Marmara.
Fino ad allora nulla dell’ideologia del fondatore del PKK “sembrava in alcun modo assomigliare a quella di mio padre”. Invece, come spiegò Heider, “Ocalan stava leggendo le traduzioni turche dei libri di mio padre in carcere e si considerava un suo bravo studente”: libri che il prigioniero aveva potuto ottenere in carcere in quanto necessari alla preparazione di una strategia legale per la propria difesa durante il processo per tradimento, individuando nella formazione e sviluppo dello stato-nazione le origini storiche del conflitto turco-curdo ed elaborando una soluzione democratica per ristabilire un rapporto di reciproco rispetto e di convivenza.
Il cammino intrapreso dal PKK (fino ad approdare – nel 1998 – al Confederalismo Democratico) era iniziato nei primi anni Novanta in coincidenza della caduta del socialismo reale, una nuova strategia che rifletteva – tra l’altro – i cambiamenti demografici avvenuti nella società curda. Dei tredici milioni di abitanti di Istanbul, ricorda il saggio di Debbie, “sei milioni sono curdi” ed altri quattro milioni sarebbero i curdi emigrati in Europa, al punto che ormai “la maggior parte dei curdi non vive in Kurdistan”. Un’opportunità concreta, insomma, di emancipazione per tutti i soggetti oppressi e sfruttati, anche se non sono curdi.
Purtroppo le circostanze sfavorevoli non consentirono un incontro personale tra i due militanti: Bookchin era già anziano e con problemi di salute, Ocalan in carcere, spesso sottoposto a lunghi periodi di isolamento, per cui i loro contatti si limitarono ad uno scambio epistolare. Alla morte di Bookchin (30 luglio 2006), il PKK lo volle ricordare con una dichiarazione – dettata dallo stesso Ocalan – di due pagine in cui lo definiva “uno dei più grandi scienziati sociali del ventesimo secolo” ed aggiungeva: “Ci ha introdotti al pensiero dell’ecologia sociale e per questo verrà ricordato con gratitudine dall’umanità. (…) Ci impegniamo a far vivere Bookchin nella nostra lotta. Metteremo questa promessa in pratica come la prima società che stabilisce un tangibile Confederalismo Democratico”.
Particolarmente incisivo l’intervento della già citata sociologa curda, Dilar Dirik. Letteralmente incisivo, in quanto – se interpretato correttamente e compiutamente – incide, penetra e scava nelle coscienze estirpandovi processi mentali consolidati, interiorizzati, metabolizzati e non solo dai maschi, par di capire.
Spiega, in sintesi, cosa sia la Jineologia “scienza e paradigma delle donne”: dall’esigenza di un “nuovo linguaggio” che non sia inaccessibile, astratto, di un “nuovo femminismo che possa essere coinvolgente e avere un impatto sulla vita, ad esempio, di mia nonna, della mia vicina, della donna che muore di fame per strada o che ha dieci figli”. Niente a che vedere con l’Accademia, insomma, perché “noi vogliamo rendere visibile un nuovo approccio alla scienza, un nuovo paradigma su come la scienza sociale può funzionare”.
Va superato il pensiero dicotomico per cui “l’uomo è la mente, il soggetto, e la donna il corpo, l’oggetto; la mente è il soggetto, l’emozione è l’oggetto; lo stato è il soggetto e la comunità, la società sono l’oggetto”.
Una dicotomia, un meccanismo di pensiero che inevitabilmente implica e stabilisce una gerarchia, in pratica “legittima la dominazione e la schiavitù, e naturalizza questi concetti facendo sì che molti movimenti – incluso in passato il PKK – siano arrivati a pensare che lo stato significhi libertà (…) convincerci che siamo oppressi perché non abbiamo uno stato, quando in realtà è lo stato il problema”.
I concetti della Jineologia acquistano ulteriore luminosità se espressi e applicati (attraverso la partecipazione alle case delle donne, alle comuni, ai consigli territoriali, alle milizie armate…) in un contesto dove le donne hanno dovuto affrontare il “sistema di Daesh [Stato Islamico] basato sul fondamentalismo che utilizza la violenza sessuale, lo stupro, come motivo di propaganda”. Le organizzazioni delle donne in Rojava vedono nella scienza sociale, nella Jineologia il loro maggior strumento di autodifesa. Non nelle armi che, tuttavia, usano.
Da un certo punto di vista possiamo dire che da sempre coesistono “due forme di civiltà” (concetto espresso anche da Ocalan): la civiltà degli oppressori (quella dominante basata su gerarchia, dominazione, abuso di potere…) e quella democratica, alternativa alla corrente dominante, fatta da “donne, poveri, artisti, esclusi, indigeni, una civiltà naturale e comunitaria” e – si può aggiungere – ribelli, rivoluzionari, fuggiaschi, dissidenti e refrattari all’ordine costituito. Anche banditi, talvolta.
Esaurienti e significative le interviste, presenti nel libro a più voci, a chi materialmente “si è sporcato le mani”, i militanti internazionali integrati nelle YPG, YPJ ed in altre strutture. Crimethinc spiega le diverse motivazioni che spingono giovani turchi, europei, statunitensi, ecc. a combattere con i curdi ma non lesina qualche critica al comportamento di coloro che hanno colto in modo strumentale l’occasione offerta dalla lotta nel Rojava. Questi pochi opportunisti hanno di fatto tradito il sacrificio di tutti gli internazionalisti morti combattendo contro il califfato (Daesh) o contro l’esercito turco. Tra cui molte compagne: Barbara Kistler, Andrea Wolf, Ivana Hoffman, Ayse Deniz Karacagil, Anna Campbell, Alina Sánchez… Nel suo Poscritto Norma Santi ricorda poi in particolare i compagni anarchici caduti: Michael Israel, Robert Grodt, Haukur Hilarsson, Sehid Sevger Ara Makhno, Lorenzo Orsetti. Di quest’ultimo, militante fiorentino ucciso nel marzo 2019 dai fanatici dello Stato Islamico, la curatrice riprende il toccante testamento politico e umano.
Per concludere, tra le righe de La sfida Anarchica nel Rojava si coglie una preoccupazione ricorrente (e comunque legittima): quanto siano veramente “rivoluzionari” i compagni curdi. Quanto realmente “anticapitalisti”. Quanto realmente “libertari”, se non proprio anarchici.
Preoccupazione legittima – si diceva – ma forse talvolta eccessiva, dato che non abbiamo a che fare soltanto con una o più organizzazioni rivoluzionarie (YPG, JPG, PKK…), ma anche – soprattutto – con un popolo. Un popolo che – come altre comunità minoritarie o minorizzate (in quanto separate da artificiosi confini statali) presenti in quei territori – rischia periodicamente, se non il vero e proprio genocidio, quantomeno l’etnocidio o l’assimilazione (forzata e non).
Viceversa andrebbe apprezzato – e molto – il fatto che in un contesto come quello del Medio Oriente – e di questi tempi – qualcuno (se non un intero popolo, almeno una sua componente significativa) si auto-organizzi mettendo radicalmente in discussione le gerarchie consolidate (di stato, di classe, di genere… talvolta perfino l’antropocentrismo).
In sostanza si tratta di un volume ricco di spunti per una migliore comprensione di una grande realtà alla quale, non solo in Italia, tanti ambienti variamente libertari guardano con molta attenzione e con intensa speranza. Anche se oggi la situazione nel Rojava è in parte mutata, le analisi qui riprodotte restano utili e stimolanti. Da non perdere.
Silva e Tom