È indubbiamente anomalo che un ministro in carica annunci l’aumento del prezzo delle bollette della luce. Neanche quando l’ENEL era il monopolista del settore ed era direttamente controllato dal governo, si è mai sentito un ministro fare un’affermazione del genere: si preferiva lasciare all’utenza la sorpresa dell’aumento del prezzo e si evitavano contraccolpi in termini di consenso politico.
Oltre alla preoccupazione di chi sarebbe stato strangolato dagli aumenti, ha perciò destato stupore il fatto che l’annuncio che le bollette della luce sarebbero aumentate del 40% fosse stato fatto dal Ministro per la Transizione Ecologica, Roberto Cingolani. Che l’annuncio giungesse a pochi giorni di distanza dal tentativo di rilancio del nucleare in Italia fatto dallo stesso Ministro, però, dava qualche indicazione sulle sue vere intenzioni.
Sui giornali si è cianciato dell’aumento dei prezzi delle materie prime ma senza dare troppe spiegazioni. Certo, rispetto ad aprile, quando il petrolio WTI andò sottozero e il petrolio Brent quotava 25 dollari al barile, il prezzo del petrolio è risalito. Adesso è intorno ai 70 dollari al barile, gli stessi livelli di prima della sindemia, quando però le bollette elettriche non costavano il 40% in più. Oltretutto è difficile che salga ulteriormente. Quando il prezzo del petrolio supera i 55/60 dollari al barile aumenta l’offerta per la vendita sul mercato del petrolio estratto con la tecnica del fracking. Questa tecnica, che causa notevoli danni ambientali, è estremamente costosa: circa 50 dollari al barile. Con un prezzo del barile più alto diventa conveniente per i produttori venderlo e, aumentando l’offerta, si stabilizza il prezzo.
Il prezzo del gas naturale è raddoppiato da inizio anno: è passato da 2,5 dollari al metro cubo a 5. Va tenuto presente, però, che il prezzo del gas era crollato con la crisi del 2008 (quando costava 13,5 dollari al metro cubo) e non si è più ripreso da allora. Oltretutto molti stati hanno contratti a lungo termine per le forniture, con un prezzo fisso più basso e non sensibile alle variazioni quotidiane. Infatti il prezzo è aumentato sul mercato “spot” dove si commerciano giornalmente gli scambi di gas per le maggiori esigenze non coperte dai contratti di fornitura, che rappresenta solo una parte del gas che viene utilizzato. Per quanto il consumo di gas sia destinato a crescere nel tempo (e a sostituire parzialmente il petrolio), le aspettative sono di una stabilizzazione del prezzo nel breve/medio periodo. In Europa, in particolare, l’anno prossimo dovrebbe entrare in funzione il Nord Stream 2, un gasdotto che passa attraverso il Mar Baltico e porta il gas dalla Russia alla Germania. L’aumento dell’offerta dovrebbe favorire una riduzione del prezzo.
In ogni caso il costo del gas per uso domestico (che è più sensibile all’aumento del prezzo della materia prima) è aumentato del 14% e il solo aumento del prezzo del gas (con cui viene prodotta meno della metà dell’energia elettrica in Italia) non spiegherebbe perché l’energia elettrica debba aumentare del 40%. Incidentalmente segnalo che l’aumento sulle prossime bollette sarà del 30% e non del 40%, per l’intervento del governo teso a calmierare gli aumenti nell’ultimo trimestre dell’anno. Dall’anno prossimo gli effetti dell’intervento governativo cesseranno e la bolletta salirà ulteriormente. L’incremento del prezzo dell’energia elettrica, che proseguirà nei prossimi anni finché non si modificherà lo scenario produttivo, dipende infatti relativamente poco dall’aumento del costo delle materie prime e molto dalla politica energetica dell’Unione Europea.
Dal 2013 l’UE ha infatti progettato di ridurre, entro il 2030, le emissioni di anidride carbonica (CO2) del 40% rispetto ai livelli di emissioni del 1990. Per realizzare questo obiettivo ha assegnato ai grandi produttori di CO2 (centrali elettriche e termiche, acciaierie, raffinerie, compagnie aeree) delle quote di emissioni annue denominate ETS (Emission Trading System): con una quota si può produrre una tonnellata di anidride carbonica. Le imprese che emettono meno CO2 rispetto alle quote assegnate possono vendere le quote in eccesso alle imprese che ne producono di più.
In base a 54 parametri di riferimento vengono assegnate gratuitamente alcune quote a ognuna delle industrie produttrici, e ogni anno le quote assegnate vengono ridotte del 1,74% rispetto all’anno precedente. Dal 2019, con il dichiarato obiettivo di aumentare il prezzo delle quote negoziate, è stata introdotta una Riserva Stabilizzatrice del Mercato (MSR) in cui far confluire parte delle quote gratuite. Il mercato delle quote, visto l’atteso aumento di prezzo, ha cominciato a far gola anche ai fondi speculativi, che sono entrati nel mercato comprando quote per poi rivenderle a prezzo maggiorato.
Nel 2021 l’Unione Europea ha modificato, in parte, il sistema di assegnazione delle quote: la riduzione annuale delle quote è passata al 2,2% l’anno e il MSR è stato incrementato di 900 milioni di quote, non utilizzate nel 2020 per la riduzione della produzione dovuta alla sindemia. Questo ha portato a un’esplosione del prezzo delle quote: il prezzo medio annuo è passato da 5,83 euro a quota del 2018 ai 24,75 euro del 2020 alla quotazione, a settembre 2021, di 60,87 euro a quota. Questo aumento del 250% in un anno (e del 1.050% in tre anni) è quello che ha fatto schizzare alle stelle i costi di produzione dell’energia elettrica.
Il problema è che quest’aumento dei costi, conseguente all’incapacità dei produttori di energia elettrica di ridurre le emissioni, viene scaricato sugli utenti (che non possono decidere nulla sui modi di produzione dell’energia elettrica) e non sugli azionisti delle compagnie (che sono quelli che decidono le modalità di produzione) che invece vedono aumentare i propri profitti. Così l’ENEL, che produce il 16% dell’energia elettrica in Italia ha avuto, nel 2021, un aumento dei profitti del 20% e distribuirà agli azionisti un dividendo di 2,81 miliardi di euro. L’ENI che è il secondo produttore con l’8% ha avuto, nel primo semestre del 2021, un aumento dei ricavi del 40% e un utile di 1,2 miliardi di euro. Il boom di ricavi e profitti riguarda tutte le compagnie produttrici di elettricità in Italia.
Il problema di questi aumenti è proprio nel voler conciliare ecologia e capitalismo. Non è sbagliato ridurre le emissioni annue di anidride carbonica e dei gas serra: è sbagliato farlo senza pensare di intaccare i profitti delle compagnie. Se si fosse posta come condizione il fatto che l’aumento dei costi derivanti dalle emissioni non potesse essere scaricato sulle bollette ma, invece, dovesse essere pagato da chi ha effettivamente il potere di decidere come produrre l’energia elettrica, avremmo probabilmente già raggiunto la neutralità ecologica per quanto riguarda le emissioni. Facendo così, invece, l’unico risultato sarà quello di rendere i poveri più poveri e i ricchi più ricchi.
Ci sono anche altri aspetti preoccupanti di questa strategia europea. Uno è il fatto di non considerare nel computo delle emissioni dei gas serra – non renderli quindi soggetti al mercato degli ETS – i cosiddetti “termovalorizzatori”: gli impianti che producono energia elettrica bruciando rifiuti. Questo significa incentivare questo tipo di impianti che, oltre ai gas serra, producono diossine. L’altro è l’aumentata convenienza economica degli impianti a energia nucleare: come se la produzione di scorie radioattive e l’inquinamento da radiazioni non fossero pericolose più dei gas serra. Come se Chernobyl, Three Miles Island, Fukushima non fossero mai accadute.
Questo è allora il motivo per cui l’annuncio dell’aumento delle bollette è stato fatto dal Ministro per la Transizione Ecologica la settimana successiva al suo tentativo di rilanciare il nucleare in Italia. Del resto la tutela dell’ambiente da parte dei governi è equivalente alla tutela della fauna selvatica da parte dei cacciatori.
Fricche