Guardando i più aggiornati dati ISTAT disponibili, nell’ultimo anno i prezzi sono aumentati dell’8,4% e i salari sono aumentati solo dell’1%. Ogni lavoratore ha perso il 7,4% del proprio stipendio. È l’equivalente di una mensilità di stipendio l’anno. È come se nessun lavoratore avesse ricevuto la busta paga di settembre.
Già questo potrebbe bastare a spiegare cosa sta accadendo nelle tasche di tutti noi. Poi se andiamo a guardare i dati in dettaglio ci si rende conto che la situazione è anche peggiore perché gli aumenti salariali non hanno riguardato tutti.
Sono rimasti esclusi i 3 milioni di lavoratori “in nero”: senza contratto, irregolari che oltre a non avere alcuna tutela pensionistica o di malattia, devono lavorare al salario deciso dal padrone (che poi si lamenta “perché non trova operai”).
Gli aumenti non ci sono stati neanche per quei 5 milioni di rapporti di lavoro subordinato mascherati da partite IVA, cooperative, società, collaborazione autonoma, prestatori occasionali dove la presunta “autonomia” della prestazione lavorativa nasconde la realtà di un lavoro subordinato con i contenuti della prestazione, in termini di salario e orario, decisi unicamente dal datore di lavoro.
Nella maggior parte dei casi, sono rimasti esclusi anche i 3 milioni di lavoratori stagionali o con contratti a termine, dove il rinnovo del contratto è spesso associato a condizioni salariali peggiorative.
Infine, il dato relativo al misero 1% di aumento non vale per i 6,4 milioni di lavoratori assunti a tempo indeterminato con un Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro scaduto: più della metà dei contratti di lavoro sono scaduti (in media da oltre 2 anni e mezzo) e non hanno determinato alcun aumento salariale per i lavoratori.
Insomma, dei 23 milioni di lavoratori in Italia, solo 6 milioni hanno avuto, nell’ultimo anno, minimi aumenti salariali.
Del resto, è tutta la struttura della contrattazione collettiva che in Italia è concepita in modo da far pagare ai lavoratori i costi della crisi. Dagli accordi del 1993, gli aumenti previsti nel contratto di lavoro sono vincolati al tasso di inflazione programmata (per il 2022 il tasso di inflazione programmata è pari al 1,5%) ed il recupero rispetto all’inflazione avviene in occasione del successivo contratto di lavoro, cioè non prima di quattro anni e mezzo (considerato il ritardo medio nel rinnovo). Oltretutto il recupero non avviene sull’inflazione reale, ma rispetto a quella calcolata con l’indice IPCA (Indice dei prezzi al consumo armonizzato per i paesi dell’Unione europea) , che non tiene conto degli aumenti dei beni energetici (che sono proprio quelli aumentati di più in questo caso).
Insomma, non è un caso che l’Italia sia stabilmente in fondo alla classifica dei 37 paesi OCSE [Organizzazione per la Cooperzione e lo Sviluppo Economico, ndr] per incremento dei salari. In trent’anni ( dal 1991-2021 ) i salari sono cresciuti solo dello +0.3%; nel trentennio dal 1990-2020 i salari erano diminuiti del -2,9 %. Oltretutto l’OCSE utilizza un sistema di calcolo del salario medio determinato su un modello di lavoratore impiegato tutto l’anno a tempo pieno e al lordo di tasse e contributi sociali. Un modello molto “ottimista” rispetto alle reali condizioni retributive, che prevedono contratti a tempo determinato e a tempo parziale, un alto cuneo fiscale e differenze significative su base territoriale.
Il ruolo della speculazione
Andando poi a guardare dentro l’aumento dei prezzi e analizzando quanto siano aumentate le specifiche voci, il panorama diventa ancora più triste.
I beni alimentari sono aumentati più degli altri (+11.4%) sia nella componente del “fresco” sia in quella dei “lavorati”. In generale c’è stata, nell’ultimo mese, un’accelerazione dei prezzi dei prodotti “per la cura della casa e della persona” e dei prodotti “ad alta frequenza d’acquisto”; insomma di quelli con cui si riempie il carrello della spesa sono aumentati più degli altri, penalizzando ulteriormente i lavoratori salariati.
Poi c’è il problema delle bollette e qui il quadro è da crisi nera. Nell’ultimo anno i “prodotti energetici” sono aumentati del 44,5%. Lo scorso 1° ottobre, l’ARERA (l’autorità per il controllo dell’energia) ha deciso un ulteriore aumento del prezzo di vendita dell’elettricità del 49%. Quindi le bollette aumenteranno ancora.
Va segnalato, inoltre, che gli aumenti di costo dell’energia e del riscaldamento graveranno ancora di più sui 6 milioni di lavoratori in smart working che si troveranno a pagare di più per la loro presenza a casa, facendo risparmiare le imprese per cui lavorano, senza che ai lavoratori venga corrisposto alcun rimborso.
Di questi aumenti viene data la colpa al conflitto russo-ucraino. La realtà è ben diversa. Quello della guerra è un pretesto che serve a nascondere le responsabilità di chi sta guadagnando, tantissimo, da questa crisi.
Già lo scorso anno, tra settembre e dicembre 2021 – sempre per gli aumenti decisi dall’ARERA – la bolletta elettrica era raddoppiata. Dopo lo scoppio della guerra russo-ucraina il prezzo dell’energia elettrica è addirittura diminuito del 10% ed è rimasto stabile fino all’aumento dell’altro giorno.
Il problema in realtà è quello della speculazione finanziaria. L’aumento dell’energia elettrica nel 2021 è stato determinato dalla speculazione al rialzo sugli ETS [Emission Trading System, ndr] (i certificati che emette l’UE per compensare le emissioni di anidride carbonica) che sono passati da 33 a 80 euro in meno di un anno. Questo ha fatto sì che molte aziende produttrici spostassero le centrali policombustibili dalla produzione a petrolio (passato da 40 a 80 dollari al barile nell’anno) alla produzione a gas, meno inquinante (e con minor costo di ETS), all’epoca più economico del petrolio e che, per la rigidità della distribuzione, aveva sempre avuto prezzi abbastanza stabili (intorno ai 20 euro a megawattora).
È necessario tenere presente che, quando fanno queste scelte di produzione, le compagnie elettriche non comprano il gas giorno per giorno, ma stipulano contratti pluriennali di fornitura con le compagnie produttrici di gas a un prezzo fisso.
La speculazione finanziaria si è allora spostata sul prezzo del gas, sfruttando una caratteristica di questo mercato. In Europa c’è una “borsa del gas” che fa il prezzo quotidianamente: il TTF [Title Transfer Facility, ndr] di Amsterdam. In realtà si tratta di un mercato spot, a cui le compagnie si rivolgono solo per negoziare le eccedenze o le richieste temporanee e non preventivate. Per questo, benché sia il punto di scambio europeo, il TTF tratta quantità minime di gas (circa il 3% del gas usato in Europa). Viene utilizzato soprattutto come quotazione di riferimento per i futures sul gas. Ed è per questo che, tra i 148 soggetti che operano al TTF, la maggior parte sono compagnie finanziarie e non compagnie che si occupano di elettricità o idrocarburi. E sempre per questo motivo il prezzo del gas, che a causa della scarsa elasticità della domanda e dell’offerta, ha sempre avuto minime oscillazioni di prezzo, ha cominciato ad avere grosse fluttuazioni quotidiane.
Ed è in questo contesto speculativo che si è inserita l’invasione russa dell’Ucraina con le sanzioni e la volontà di tutti questi operatori di sfruttare il conflitto per aumentare i propri profitti.
Aumentano i profitti
Chi opera dal lato non finanziario del sistema ha aumentato i prezzi di vendita. I produttori di energia elettrica stanno vendendo l’elettricità come se la producessero tutta e solo con il gas comprato al TTF. Questo significa che, con l’attuale costo di vendita di 295 euro a megawattora se io produco elettricità da una centrale idroelettrica con un costo di produzione di 10 euro a megawattora, senza costi di ETS e con una concessione statale di importo minimo (e probabilmente scaduta da anni), guadagno 285 euro per ogni megawattora venduto.
Questo ha fatto sì che ENEL abbia dichiarato profitti attesi (Margine Operativo Lordo) per 29 miliardi di Euro nel 2022, ENI abbia avuto nel primo semestre del 2022 un utile di 11 miliardi, Edison abbia triplicato i ricavi a 13 miliardi e A2A li abbia raddoppiati. Questo solo per citare i principali operatori italiani del mercato elettrico.
Ma la speculazione non c’è stata solo su questo. Fino a pochi giorni fa l’ENI esportava gas (quello che in Italia manca), per un ammontare pari a 6 miliardi di metri cubi su base annua, all’estero per sfruttare la differenza tra il costo pagato a Gazprom (molto più basso di quello del TTF) e il prezzo corrente al TTF. Il tutto mentre lamentava la scarsità di gas per l’inverno e la necessità di aumentare ulteriormente le tariffe.
Per non parlare della truffa dell’aumento del costo del gasolio che, rispetto alla benzina, ha meno accise ed ha un costo di raffinazione molto più basso. Poiché viene usato anche per il riscaldamento delle case, si vuole allineare il prezzo agli altri combustibili usati per il riscaldamento ed adesso costa, incredibilmente e senza alcuna ragione logica, più della benzina.
In questo contesto va segnalato anche il ruolo del governo nel finanziare gli speculatori. Il governo ha scelto di non indagare sui meccanismi della formazione del prezzo: sarebbe bastato che ARERA – che ne ha il potere – avesse chiesto alle compagnie una copia dei contratti di fornitura per sapere quanto pagavano effettivamente per produrre energia elettrica o per le forniture di gas. Ha invece deciso di intervenire sul lato dei consumi, dando dei bonus per pagare le bollette ai consumatori e alle imprese. Si tratta di finanziamenti propagandati come “a famiglie e imprese” ma che in realtà vanno a finire nelle tasche di chi fa queste speculazioni e che incassa i soldi delle bollette.
Anche la scelta di “tassare” gli extra profitti è servita ad aiutare gli speculatori. Il “governo dei migliori” ha scelto un modello di imposta (fatto calcolando l’incremento dell’IVA percepita dalle aziende) che è la fotocopia di una analoga, fatta a suo tempo da Tremonti, già bocciata dalla Corte Costituzionale. Moltissime aziende non l’hanno pagata e hanno fatto ricorso proprio alla Corte Costituzionale per farla bocciare nuovamente. La Corte, con i suoi tempi, deciderà verosimilmente a metà 2023. Fino ad allora, con un giudizio pendente e con alcuni che hanno pagato e altri no, non si potrà deliberare nessuna nuova imposta sugli extra profitti che così saranno blindati per quest’anno e per metà del prossimo.
Incidentalmente va segnalato anche il forte interesse degli USA perché questa situazione in Europa rimanga tale. Il costo del gas è attualmente cento volte superiore in Europa rispetto agli Stati Uniti. Questo comporta costi, in tutta la filiera energetica, sproporzionatamente superiori in Europa rispetto agli USA. Potendo produrre con costi dell’energia molto più bassi, le imprese statunitensi hanno un grande vantaggio competitivo rispetto alle concorrenti europee. Oltre a far diventare conveniente la vendita di gas USA in Europa (che altrimenti sarebbe stata fuori mercato per gli alti costi di estrazione, i costi di liquefazione del gas, del trasporto su nave e di rigassificazione successiva).
Le prospettive non sono rosee. La svalutazione dell’euro sul dollaro del 20% per recuperare il vantaggio competitivo perso nel commercio internazionale, significa aumento di costo delle materie prime (che sono perlopiù pagate in dollari) e conseguente altra inflazione. A cui andrà aggiunta quella causata dall’aumento del prezzo del petrolio determinato dalla scelta dell’OPEC di partecipare al banchetto della speculazione riducendo le quote di produzione e sperando che il panico e la speculazione facciano aumentare più che proporzionalmente il prezzo.
Il problema della riduzione del potere d’acquisto dei salari non è dovuto alla guerra che la Russia sta facendo in Ucraina, ma dipende dalla guerra che i padroni del mondo ci fanno tutti i giorni in Italia.
C’è una generazione che non ha vissuto l’inflazione come fenomeno sociale. L’ultima volta che in Italia c’è stata un’inflazione alta è stato alla fine del ciclo di lotte degli anni ’70, quando fu utilizzata per erodere le conquiste ottenute dai lavoratori. Adesso, se non si riesce a far ripartire un ciclo di lotte significativo per contrastare queste scelte, ci troveremo in condizioni di vita e lavoro più simili a quelle conosciute nell’800 piuttosto che nel ‘900.
Fricche