Questo articolo non è e non vuole essere una risposta alle affermazioni di nessuno, ma una riflessione su una fase storica complessa – quella che si apre all’indomani del G8 di Genova, nella quale siamo immersi e della quale, forse, ancora non abbiamo saputo delineare i tratti.
Sui presupposti di una lucida corsa verso lo smantellamento di qualunque costrutto teorico e nella fluida ricerca di un non definito ritrovato capace di rompere definitivamente con un non precisato passato, si sono condensati anni di riflessioni sui conflitti sociali e sulle modalità di praticarli. Né è emersa, quindi, la ricerca di conflittualità non più incardinata nella dialettizzazione e sulla comprensione delle problematiche sociali, bensì su una lucida volontà di spettacolarizzarne le pratiche.
Sono esplosi i fenomeni dei media più o meno indipendenti e del mediattivismo da socialnetwork, c’è stata quindi una scelta precisa di rivaleggiare con il mainstream: costruendo strumenti di comunicazione alternativi, che spesso non sono riusciti ad affrancarsi da derive di autoreferenzialità – o che con questo tarlo erano originariamente nati – e di “specializzazione del conflitto”.
Si è quindi assistito ad un processo nel quale si sono dismessi gli strumenti di analisi classici, senza riuscire a determinarne di nuovi: ci si è gettati a mani nude nella mischia con una narrazione minuto per minuto. Una narrazione di quante batoste si stessero prendendo.
Qui non si cercano responsabili in quanto individui, semmai tenteremo una disamina per individuare quelle responsabilità storiche che collettivamente, più o meno consapevolmente, abbiamo deciso di assumere, in misura di una più o meno attiva partecipazione ad un processo di espianto degli organi di senso politico di un’intera “generazione”. Una privazione chirurgica e scientifica degli strumenti atti ad orientare non tanto le scelte in sé, quanto le opportunità di confliggere in maniera decisiva con un sistema che andava dotandosi di anticorpi contro i quali ci siamo ben guardati di equipaggiarci. Abbiamo quindi scelto di ribattere punto su punto una agenda di eventi, scadenzati da un’entità sovranazionale, cercando di abbattere le porte sbagliate, abbandonando quella genuinità di pratiche aderenti ai territori, come il lavoro sistematico nei quartieri, finendo con il lasciare campo libero agli “anti-imperialisti” con la celtica.
Ma come si può definire la “generazione Genova”? Una stratificazione complessa ed intricata fatta di sacche di ortodossia politica avvinghiata all’operaismo, opposte alla fluidità spensierata tipica della sindrome post ideologica? E nel mezzo? Conflitti sociali ed ambientali, comitati spontanei, case occupate, orti sociali e scioperi, ma anche inchieste, suicidi, denunce, incendi e pestaggi. Intanto il mondo accelerava sulla china discendente della crisi imminente e il tutto ha assunto i connotati di estrema resistenza, o per lo meno di tentativi di resistenza, agli eventi e ai processi. Quella conflittualità tanto cercata, intanto, ridimensionava sé stessa nel momento in cui si doveva reagire: si è preferito inscenare un teatro di piazza, un gioco di ruolo il cui esito si misurava nei like sui blog e sui social network.
Ma torniamo al concetto di “generazione Genova”, che convince sempre meno nella misura in cui si delinea una costante tensione tra la generazione che ha vissuto gli anni settanta e quella stordita dagli anni ottanta, due generazioni che premono e tentano di orientare quella cresciuta negli anni novanta, letteralmente abbandonata a sé stessa senza strumenti per analizzare la propria condizione. Questo in parte sconfessa la sintesi abbracciata da troppi: che chi vive il precariato e la privazione sa già tutto in quanto li esperisce sulla propria pelle ed è capace di risalire alle cause stesse della sue privazioni. Se così fosse vivremmo in una condizione di perenne rivolta. Una generazione (la mia) che è cresciuta a pane e televisione si trova di punto in bianco senza quel radioso futuro che percepiva da riviste e media, a doversi confrontare con contraddizioni delle quali non riesce a capire la natura.
C’è stato un preciso periodo storico nel quale si è deciso di buttare via tutto quello che apparteneva al passato e di inventarsi nuove letture sociopolitiche: nascono così aborti mentali tipo “la produzione cognitiva” – locuzione inventata a tavolino per tentare di accomunare il concetto di produttività per creare una sorta di operaio del sapere da mettere in corteo assieme all’operaio dell’industria. Si coniano significati sui luoghi comuni, si sconfessa la centralità della sovrapproduzione all’interno dei meccanismi di demolizione dei rapporti di lavoro e tutto diventa etereo, rarefatto e virtuale.
In questo pantano post moderno sguazza un bestiario assortito che galleggia sulle più grosse contraddizioni storiche, che non chiude la porta in faccia a nessuno, che dialoga con tutto e il contrario di tutto, che accetta i compromessi, che mira alla concretezza del risultato immediato, che affronta le problematiche caso per caso trovando soluzioni in costante conflitto le une con le altre, dicendo tutto e il contrario di tutto. Ovviamente non parliamo dei partiti politici ma di specifiche tendenze all’interno del movimento, tendenze che ammettono candidamente gli accordi sottobanco nei consigli comunali, che esprimono beatamente consiglieri e che salvaguardano il lavoro nei quartieri dei loro affiliati e tacciono sugli sgomberi ai danni delle altre aree politiche.
Se questa è la “generazione Genova”, ebbene che affondi nelle sue stesse contraddizioni. Se la “generazione Genova” è quella che sta tentando di ricostruire le armi politiche per analizzare il mondo che gli sta attorno allora è un’altra storia: parliamo di una generazione che non vuole ricordare e identificare Genova solo con l’omicidio di Carlo Giuliani, con i pestaggi per strada o con Bolzaneto, non perché non le interessi ma perché non vuole che la ritualità del ricordo offuschi quelle che furono le responsabilità di un fallimento politico e movimentista. Che non si usi il ricordo di una vita stroncata per soffocare ogni critica al fallimento portato dalle lotte per la leadership di un movimento.
Se una “generazione Genova” ci deve essere allora è quella costruita attorno all’irrappresentabilità come fondamento e non come slogan, come critica immanente a false dottrine tenute in piedi dai “mi piace” e dalla conta delle visualizzazioni di un articolo on line. Se una “generazione Genova” esiste è quella che non ammette più la lotta per la leadership, l’auto narrazione e la ricerca di nuove idee a tutti i costi o neologismi che puzzano di Neolingua senza riferimenti ad alcuna idea. Una generazione che i conti col passato li pretende, perché vuole capire come sia possibile essere tornati in condizioni di sfruttamento tipici di un secolo fa, questa generazione, se mai esistesse, vorrebbe sapere come mai abbiamo fatto tanti passi indietro mentre i responsabili del dietrofront stanno ancora a parlarci di rivoluzione, di mobilitazioni, di insurrezioni dalle colonne di un quotidiano o da qualche “sito d’area”.
Jammy