Quando avviene, come è recentemente avvenuto, che un’organizzazione sindacale, nella fattispecie USB, subisca una crisi e la fuoriuscita di un gruppo di dirigenti, militanti e iscritti, inevitabilmente se ne parla, circolano nel meritano le più disparate e sovente false voci, si prende posizione sulla base di simpatie o antipatie preesistenti.
A maggior ragione, l’attuale crisi che attraversa l’Unione Sindacale di Base, una delle maggiori organizzazioni, quantomeno per consistenza, del sindacalismo di base. merita, a mio avviso, una riflessione non appiattita sulla polemica politica contingente e sulle logiche di appartenenza (1).
Dobbiamo, infatti, ricordare che anche le vicende di una piccola organizzazione come USB sono determinate dal quadro sociale e generale e, di conseguenza, ne permettono una migliore comprensione.
Inoltre, in questo caso, è possibile ragionare utilmente su alcune delle questioni fondamentali che affrontiamo nella nostra attività militante.
E’ bene tenere presente il fatto che in realtà non vi è UNA crisi di USB, ma il sommarsi di due crisi che, pur avendo origini comuni, si sviluppano su questioni specifiche diverse.
La prima, in ordine cronologico, crisi deriva dal formarsi dentro USB di un’opposizione alla firma dell’accordo del 10 Gennaio 2014 sulla rappresentanza e sui diritti sindacali fra CGIL,CISL,UIL e Confindustria (2). Chi conosce la storia di RdB prima e di USB poi non si è affatto stupito per la scelta del gruppo dirigente di quest’organizzazione di firmare l’accordo. Il criterio, per altro dichiarato, che guida l’azione del suo gruppo dirigente è sin troppo semplice: “primum vivere deinde philosophari”, in altri termini gli interessi dell’organizzazione e, ca va sans dire, quelli del suo gruppo dirigente sono prevalenti rispetto a qualsiasi altra considerazione.
In maniera, per molti versi, sorprendente, almeno per me, questa scelta ha determinato il formarsi di un’opposizione interna che si è proposta di sviluppare all’interno di USB una discussione che avrebbe dovuto condurre a una vera e propria battaglia congressuale, volta al fine di modificare orientamenti e organizzazioni interne della stessa USB.
Si può pensare, ed è quello che io penso, che in ogni caso questo tentativo, visti i meccanismi di selezione della leadership di USB, era sin dall’inizio condannata allo scacco ma ritengo anche che ne vada apprezzata la qualità politica e morale.
Il fatto che si parlasse di prospettive generali e del senso stesso del fare sindacato è stata infatti una boccata d’aria fresca in un contesto troppo spesso asfittico.
La seconda crisi nasce da questioni, se vogliamo, di profilo meno elevato e cioè da uno scontro sull’allocazione delle risorse mentre mi risulta che molti esponenti della “dissidenza” erano, e suppongo siano, tranquillamente favorevoli alla firma dell’accordo sui diritti sindacali.
A mio avviso, va, a questo proposito, evitata ogni attitudine angelicata, in un’organizzazione sindacale l’allocazione delle risorse economiche è in stretta correlazione con l’allocazione del potere di decisione, quindi siamo comunque di fronte a un problema politico.
USB è un’organizzazione che rivendica un modello centralista che concentra quindi le risorse nelle mani del gruppo dirigente nazionale che ne può fare l’utilizzo che ritiene più opportuno e che può, attraverso questo strumento, selezionare la stessa leadership dell’organizzazione.
Una serie di importanti dirigenti nazionali di USB ha aperto uno scontro interno che ha assunto forme decisamente vivaci e che ha portato a una scissione proprio su questo problema.
A questo punto è opportuno fare tre considerazioni:
1.il gruppo dirigente nazionale di USB non ha manifestato nessuna significativa preoccupazione per il formarsi di un’opposizione incentrata su principi generali quali la firma dell’accordo del 10 gennaio 2014 ed era perfettamente consapevole del fatto che la macchina dell’organizzazione avrebbe impedito a quest’opposizione di giocare un ruolo significativo per quel che riguarda gli assetti dell’organizzazione e la selezione della leadership.
Al contrario ha reagito immediatamente e in maniera secca ad un tentativo di far saltare gli equilibri interni dell’organizzazione quale è stato quello del secondo gruppo di dissidenti. Un apparato, come qualsiasi organismo vivente, difende con tutti i mezzi che ha a disposizione il suo territorio e le sue fonti di sostentamento;
2.alle origini della crisi, come spesso avviene, vi è stata una riduzione delle risorse, determinata in questo caso dal taglio dei permessi e dei distacchi sindacali ad opera del Governo. E’ infatti evidente che, nel momento in cui le risorse venivano a mancare ed era necessario tagliare distacchi e permessi, il centro ha teso – ed è nelle cose – a salvaguardare coloro che ritiene più omogenei alla sua visione del mondo con l’effetto di determinare tensioni crescenti nelle categorie e nelle zone che si sono sentite penalizzate sino a determinare l’attuale scissione. La stessa scelta di firmare l’accordo del 10 gennaio 2014 va letto nella stessa logica, in tempi difficili ci si deve acconciare alla volontà di chi ha il potere reale pur di sopravvivere;
3.paradossalmente, ed è forse questo il fatto più interessante, il modello organizzativo centralista che si vuole più efficiente, più capace di governare i processi, più compatto, regge le difficoltà peggio di modelli di tipo federalista.
In una struttura di tipo federalista, infatti, è possibile attuare strategie più articolate, non vi è – o almeno non vi è nella stessa misura – un “centro” oggetto di rancore della medesima portata ammesso che del rancore vi sia, la dialettica delle posizioni è fisiologica e, di regola, non determina eccessive tensioni.
Insomma, paradossalmente il modello più “debole” si dimostra più forte e più vitale.
4. ovviamente si tratta anche di intendersi su cosa significhi il termine federalismo. E’, intanto, bene avere chiaro che non si tratta di solo una modalità di distribuzione delle risorse anche se, è inutile fingere che questa questione non sia importante, solo se le organizzazioni di categoria e le organizzazioni locali hanno risorse proprie si può parlare di decentramento del potere di decisione. D’altro canto anche un’organizzazione balcanizzata, una federazione di ras locali, può pretendersi “federalista”, il federalismo in campo sindacale prevede, di conseguenza, sia il diritto di tendenza che una pratica antiburocratica a tutti i livelli dell’organizzazione.
Sebbene la cosa possa stupire gli eredi dello stalinismo che dimenticano che il modello centralista funziona bene solo se si ha a disposizione la ceka, la possibilità di piena espressione dei diversi punti di vista e la ricchezza del dibattito favoriscono l’unità di un sindacato che si voglia effettivamente un’organizzazione di classe. Se il diritto di tendenza è negato, vuole dire che il potere è nelle mani di UNA tendenza magari, come nel caso di USB, non dichiarata e a chi non è in linea non resta che la sottomissione o la fuoriuscita.
Per concludere, una crisi può sembrare, a chi si tenga al senso comune, un male in sé, se però è un’occasione di confronto, riflessione, riorientamento dell’azione, può svolgere un ruolo assolutamente positivo che ritengo avvenga in questo caso.
Cosimo Scarinzi
(1)Per chi volesse documentarsi sulle vicende specifiche vi è sul web una pletora di materiali, consigliamo in particolare l’articolo “Sulla firma dell’accordo fra confindustria e CIGL-CISL-UIL da parte dell’Unione Sindacale di Base” pubblicato in Collegamenti Wobbly, gennaio 2016.
(2) Si tratta di un accordo che lega il godimento di alcuni diritti sindacali minimi, in particolare la possibilità di presentare candidati all’elezione delle RSU all’impegno a non scioperare contro gli accordi presi a maggioranza e, nel fatti, da CGIL CISL UIL.