Il 24 giugno 1997 per molti è una data tra le altre, in realtà per molti è l’inizio di una “nuova vita”. In questo giorno infausto, infatti, si rende operativo il “pacchetto Treu” che segna l’inizio della precarizzazione del mondo del lavoro; il lavoro interinale, fino allora vietato dalla legge 1396 del 1960, entra a far parte dell’ordinamento italiano. Da allora si sono susseguite una serie di leggi che hanno perfezionato questo sistema: la legge 30 del 2003, “legge Biagi”, la legge 92 del 2012, “riforma Fornero”, il decreto legge 34 del 2014, “Job Act”. In soli 17 anni si è delineato un vero e proprio kamasutra della flessibilità. La sicurezza dell’occupazione, del e sul posto di lavoro, della rappresentanza e del reddito sono diventate delle chimere. La figura del “precario” è andata ben oltre al mondo del lavoro in senso stretto e si è elevata a categoria esistenziale, icona di una vita flessibile, incerta, senza garanzie, senza futuro, figura simbolo della ricattabilitá e dell’alienazione. Per arginare questa situazione molti continuano a rivendicare la piena occupazione e il lavoro a tempo indeterminato, figura simbolo della non ricattabilitá, della tutela, dei diritti. La lotta tra posto fisso e posto precario è diventata una lotta vitale. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Cerchiamo di fare un tuffo nella realtà, una doccia fredda per rischiararci le idee, e vediamo cosa stiamo sacrificando sull’altare del “posto fisso”. Molti esempi si possono portare ma, visto che vivo nel ricco nord-est, gli esempi che porterò saranno riferiti al mio territorio, anche se sono certa che ognuno potrebbe trovare riscontro a pochi chilometri da casa. Iniziamo dalla Fiat di casa nostra, l’Electrolux-Zanussi. Di fronte alla minaccia di chiudere lo stabilimento, il mantenimento temporaneo dell’occupazione, tre anni “salvo complicazioni” recita l’accordo, è stato raggiunto a caro prezzo: incentivi all’esodo, diminuzione del 60% dell’agibilità sindacale, diminuzione delle pause, le ferie diventano flessibili ed esigibili dall’azienda, tagli occupazionali per le ditte in appalto, incremento della produzione, i pezzi prodotti in 8 ore di catena di montaggio dovranno ora essere prodotti in 6 ore (per ogni stabilimento è presente un allegato tecnico). È vero che il salario rimane invariato ma bisogna chiarire come, ovvero attraverso delle integrazioni “esterne”, guarda caso statali, derivate dal contratto di solidarietà e dalla cassa integrazione straordinaria. Per Porcia poi, unico stabilimento a rischio chiusura, la regione Friuli Venezia Giulia, contribuirà con degli sgravi all’Irap. Dopo 6 mesi di proteste, 150 ore di sciopero, 100 giorni di presidio delle portinerie, 15 giorni di blocco totale di camion e merci a febbraio, il segretario della FIOM Maurizio Landini ha potuto dichiarare con piglio vittorioso: «L’accordo Electrolux può costituire un modello per gestire le crisi aziendali». Del resto peggio è andata a una ex controllata della stessa Electrolux, l’ACC di Mel, che dopo mesi di difficoltà finanziarie e produzione a singhiozzo è stata comprata, attraverso una gara internazionale, dalla Wanbao Group Compressor. Anche se l’offerta “vincolante” prevedeva un taglio del 10% del costo del lavoro, grazie alla “congiuntura economica sfavorevole”, la multinazionale cinese, che chiedeva il 26%, è riuscita a spuntare un taglio del 16% del costo del lavoro, realizzato eliminando i premi di risultato e altre gratifiche aziendali, ma anche azzerando (per gli impiegati) e riducendo (per gli operai) gli scatti d’anzianità e modificando altre voci minori, come quelle sulla mensa aziendale. Le ferie verranno ridotte, ci sarà più rigidità sulle assenze per malattia, e i sindacati saranno estromessi per i primi due anni di attività. Tutti i lavoratori verranno licenziati e solo 300 saranno subito riassunti, poi, ogni 4 mesi, altri 50, per arrivare a 455, su 597. Dunque 142 tute blu resteranno fuori, anche se si studia l’applicazione di qualche ammortizzatore sociale, ovvero altri soldi pubblici e non privati, prima della mobilità. Non occorre, o forse si, ricordare che sia nel primo che nel secondo caso le regole democratiche sono state preservate, entrambi gli accordi infatti sono stati presentati prima in assemblea e approvati con delle maggioranze schiaccianti dai lavoratori. Spenti gli echi di questi ultimi accordi, Altri 140 operai sono rimasti ad ascoltare la fantasmagorica proposta del loro padrone. Angelo Piccinin, titolare del mobilificio Santa Lucia di Prata di Pordenone, dopo aver fatto benedire la fabbrica dal vescovo, dopo aver lui convocato le rappresentanze sindacali, visto che il sindacato non ha nessun tesserato, ha tenuto, lui in persona un’assemblea in cui ha chiesto di accettare un taglio dei salari attraverso una revisione della contrattazione su base trimestrale che comporterebbe una “temporanea” rinuncia al sistema contrattuale nazionale, per salvare produzioni e posti di lavoro. L’idea è di legare le retribuzioni ai “reali e oggettivi risultati economici raggiunti dall’azienda” visto che semplicemente “non è più possibile redistribuire ricchezza che non si produce più”. Va detto che l’azienda non è in crisi, anzi Piccinin premette che il suo discorso ha senso proprio perché “l’azienda è in equilibrio”, ma ritiene necessario non proseguire più in “questo tremendo errore” (la contrattazione nazionale) che “in poco tempo” riporterebbe l’azienda, “nella stessa situazione di prima. Se non peggiore”, ovvero a rischio chiusura. Quindi arriviamo ad una perdita di diritti e salario non perché l’azienda sta fallendo ma in previsione di una ineluttabile crisi. Per fortuna che esistono delle leggi che proibiscono questo tipo di contrattazione, visto che i lavoratori erano già disposti a trattare.
Ma arriviamo alla mossa strategica del nostro cRISIKO, l’obbiettivo da tutti i giocatori agognato, la conquista della Kamčatka, ovvero il caso Ideal Standard.
Quest’azienda leader delle ceramiche sanitarie è controllata dal fondo di investimento americano Bain Capital, che da qualche hanno ha deciso di vendere proprio lo stabilimento di Orcenico di Zoppola non per crisi o mancanza di commesse, ma puramente per far cassa, per rimpinguare un po’ le già pingui tasche degli azionisti. Inizia così la solita via crucis di assemblee scioperi presidi occupazioni di sedi istituzionali, blocco della logistica, incatenamenti, tavoli di confronto, casse integrazioni, visite dal vescovo in giù, visite dal presidente della regione in giù, visite dal prefetto in giù. Ed ecco Renzi ed il suo prode destriero Poletti, ex presidente di Lega Coop e ora ministro del Lavoro, che hanno l’illuminazione, l’idea di tutte le idee che farà scuola per gli anni a venire: facciamo sì che i lavoratori si organizzino in cooperativa e comprino la “loro” azienda. Grazie all’intervento di Lega Cooperative e BPI, società del gruppo “Obbiettivo Lavoro”, il 18 luglio nasce la cooperativa IdealScala, a cui hanno già aderito, ovvero hanno investito la loro liquidazione, 200 dei 399 lavoratori. Peccato che a tutt’oggi non si sa ancora se la sede della fabbrica sarà messa a disposizione e nemmeno come, in comodato o in vendita, nè le condizioni, nè l’entità dei volumi produttivi da lasciare; nella nebulosa delle promesse non scritte ci sono anche i volumi e il prezzo di acquisto della produzione che la multinazionale si impegna ad acquisire. Per adesso i lavoratori hanno solo la speranza di “appropriarsi” di un sito industriale desueto e da bonificare, e tutto questo perché? Perché, come recita un scarno ma illuminate comunicato del mese di maggio degli stessi lavoratori per tramite delle loro RSU “Chiediamo solo di poter continuare a lavorare. La fabbrica di Orcenico fa parte della vita di centinaia di famiglie per le quali lo stabilimento è stato e continua ad essere la propria casa. Per entrare a casa propria non si chiede il permesso a nessuno!!!” Fare cessi, pardon sanitari è diventata una ragione di vita.
A questo punto la domanda è, al di là delle seghe teoriche e filosofiche, chi è il più ricattabile, il più alienato, il più precario in questo gioco al massacro?
Ma la domanda migliore sarebbe come siamo arrivati a questo?
Da anni le trattative sindacali sono state svuotate di senso, il salario ed il mantenimento dei livelli occupazionali sono diventati gli argomenti principe se non gli unici oggetti di discussione. Nel corso degli anni i lavoratori di tutte le categorie si sono abituati a non rivendicare ma nemmeno a difendere i diritti, detto in altri termini si lotta solo sul prezzo del lavoro e non per il controllo delle condizioni e della natura del lavoro. Anni di bombardamento mediatico, anni di manipolazione dei bisogni reali hanno portato il lavoratore a pensare che il rifiuto della sua condizione e il progetto di superarla possa passare solo attraverso la richiesta di maggior denaro e che salvare il posto di lavoro vuol dire solo salvaguardare la produzione e quindi la fabbrica, ovvero salvaguardare e non gestire i rapporti di produzione. Fino a pochi anni fa, ad esempio, i pochi casi di aziende in crisi che sono state occupate dai lavoratori stessi mostravano come, l’istituzione di una cooperativa, era vista solo come strumento legale per difendere un nuovo modo di intendere il lavoro, infatti il più delle volte il tipo ed i modelli di produzione venivano radicalmente modificati; si era ben consci, per esempio, che la divisione del lavoro non aveva e non ha nessuna giustificazione, se si considera il miglioramento della produttività ma diventa fondamentale se si fa riferimento alla sua funzione di controllo, di umiliazione e di dominio, per cui il modello propugnato era quello dell’autogestione. Calare dall’alto il modello cooperativo come si sta facendo oggi, modello imposto, quindi, non certo frutto di ragionamenti tra lavoratori, vuol dire lasciare intatto il modello organizzativo gerarchico e quindi il modello di dominio. In nessuno dei documenti sfornati in questi anni dai sindacati o dai lavoratori dell’Ideal Standard, o delle altre fabbriche in crisi, traspaiono ragionamenti di questo tipo. Del resto anche per il precario il chiodo fisso non è il lavoro ma il salario, anzi questa indifferenza verso il tipo di impiego, “basta che paghino”, porta all’indifferenza verso il lavoro in sè, in termini qualitativi. L’unico punto di forza, probabilmente, per il precario è che almeno non mistifica questo desiderio di denaro attraverso un identificazione verso una data azienda piuttosto che verso un’altra. Un precario non potrà mai portare una spilletta con su scritto “Noi siamo la Zanussi”, una sorta di ricordo per quando si stava bene per quando si trattava con il “padrone” buono che aveva a cuore la fabbrica e i suoi operai. Insomma in un periodo in cui le contraddizioni interne del capitalismo non sono state mai così spettacolari. In cui è palese la poca capacità di risolvere da solo i problemi che esso genera; questa stessa incapacità non gli è mortale anzi ha acquisito gli strumenti per dominare la non-soluzione dei suoi problemi traendone nuova forza e nuove forme di dominio per sopravvivere al suo disfunzionamento. I proletari, al contrario, invece di sfruttare queste contraddizioni per reclamare nuove forme di lavoro e nuovi patti sociali interiorizzano tutte queste perdite per affermare la loro dipendenza totale e chiedono di essere completamente presi in carico. Visto che non hanno alcun potere, tutto deve venire dal potere ovvero dalle istituzioni. Ogni volta che si parla di crisi tutti invocano la mediazione dell’apparato statale per tramite dei suoi funzionari, non pensando che in tal modo restringiamo sempre di più la possibilità di produzione, scambio e consumo autonomi. Diceva bene Malatesta a proposito delle teorie che tentano di spiegare e giustificare l’esistenza del governo: “si sa bene come in economia sociale troppo spesso le teorie s’inventano per giustificare i fatti, cioè per difendere il privilegio e farlo accettare tranquillamente da coloro che ne sono le vittime.” Per spiegare questo concetto mi viene in aiuto proprio il nostro caro ministro del lavoro che parlando degli ammortizzatori sociali afferma: “Nessuno starà a casa aspettando il sussidio, sarebbe troppo facile fare come nel passato: ti do quattro soldi e tu non rompi le scatole. Il principio che muove l’intera politica di questo governo – si parli di carcerati, anziani, immigrati – è che tutti dovranno avere un ruolo. Chi avrà diritto ad un sostegno, perché senza occupazione o in difficoltà, dovrà restituire alla collettività il favore ottenuto. Sarà un vero e proprio cambio di mentalità.” Ma quale cambio di mentalità, purtroppo è sempre la stessa, se lo Stato da dei soldi agli sfruttati, e la comunità che gli chiede di vigilare che siano ben spesi che la loro libertà di fare ciò che vogliono sia ben limitata ma se lo Stato da dei soldi alle aziende che minacciano la perdita di posti di lavoro allora si che si apre la cuccagna dei miliardi, senza porre limiti o ponendo finti paletti, via con sgravi fiscali ed incentivi, ed ecco che una parte del nostro salario, attraverso le tasse, diventa un dispendioso sussidio alla produzioni di beni non necessari. Ma allora perché non iniziamo a parlare di come gestire questi miliardi, di come possano essere utilizzati per attuare un vero cambio di mentalità. Una mentalità che si apra alla voglia di autonomia, alla voglia di usare il tempo liberato dal lavoro per riaffermare il proprio ruolo sociale che va ben al di la del mero lavoro salariato. Un sussidio per ripensare a quali sono i veri bisogni, non quelli che servono solo a sostenere l’ethos produttivo del pieno impiego, per sviluppare una nuova etica della partecipazione, per restituire ai proletari non solo nel posto di lavoro ma anche e sopratutto fuori il controllo della loro vita e la libertà di determinare la miglior condizione per la piena espressione individuale e collettiva. La partita è alta e noi, cari compagne e compagne, abbiamo il dovere di iniziare a discutere su come e dove portare avanti la lotta per realizzare “il nostro programma”, se questo passa anche attraverso il denaro delle nostre tasse perché continuare a disprezzarlo!
Labombasina e Co