Pubblichiamo in anteprima un articolo che apparirà sul numero 7 di Umanità Nova.
Non conosceremo mai con certezza gli organizzatori dell’attentato contro un convoglio militare realizzato tramite un’autobomba il 17 febbraio ad Ankara: esattamente come per gli altri attentati verificatisi nel paese negli ultimi mesi, anche questo attacco è legato al caotico magma internazionale della guerra siriana (e della questione curda), in cui la Turchia è un attore fondamentale.
La versione ufficiale del governo turco è quella di un attentatore siriano, entrato recentemente nel paese come rifugiato e legato al PYD, il partito democratico curdo siriano affiliato al PKK, le cui milizie (chiamate YPG) stanno svolgendo un ruolo importantissimo nella lotta all’ISIS e nella liberazione del Rojava in Siria. Le accuse di terrorismo mosse dalla Turchia al PYD sono state già ripetutamente formulate in sede internazionale e, coerentemente con tale politica, questo ultimo sviluppo potrebbe perciò rappresentare semplicemente un tentativo (orchestrato dai servizi segreti turchi) del governo di Erdoğan di legittimare un intervento militare via terra in Siria. D’altronde solo pochi giorni fa la Turchia aveva chiarito la sua posizione interventista, chiedendo però necessariamente l’appoggio concreto degli alleati della Nato.
Ma appare davvero poco credibile attribuire la responsabilità dell’attentato ai curdi siriani, che godono ormai dell’appoggio delle potenze internazionali grazie al loro ruolo nella lotta contro i fondamentalisti islamici e che non avrebbero alcun interesse a provocare (anzi, cercano comprensibilmente di scongiurare) un intervento turco in Siria, che renderebbe la situazione del conflitto ancora più sanguinosa e disperata. D’altra parte, se si vuole dare credito alla teoria che individua tra i maggiori sostenitori del PYD i servizi russi e iraniani, animati da interessi sostanzialmente ostili alla Turchia, si potrebbe avvalorare persino la chiave di lettura che individua nel PYD l’esecutore o il mandante dell’attacco ad Ankara.
In questa situazione già ambigua, il KCK, la struttura politica che è diretta emanazione del PKK, ha dichiarato che l’attentato di Ankara potrebbe essere una risposta ai massacri condotti dall’esercito turco nelle regioni curde, ricordando così che la trentennale guerra tra lo stato turco e i guerriglieri curdi si trova da alcuni mesi in una fase di brutale recrudescenza, tra l’indifferenza dei paesi occidentali che pretendono di ignorare quello che succede nel sud-est della Turchia mentre forniscono ad Erdoğan aiuti economici considerevoli per tenere a bada la crisi dei rifugiati. Da questo punto di vista, l’attentato non sarebbe che un atto della guerra in corso entro i confini turchi, trasportata dalle forze curde (se non dal PKK, forse da gruppi di supporto come il TAK) dal sud-est al territorio occidentale, anzi al cuore stesso dello stato. Se fossero i curdi gli autori della provocazione, si tratterebbe dunque di una minaccia diretta alla Turchia, anche con lo scopo di dissuaderla da un intervento contro i curdi in Siria. (Per inciso, fa davvero riflettere la facilità e la frequenza con cui ultimamente si verificano in Turchia attentati suicidi, senza che i servizi e le forze di sicurezza esprimano mai preoccupazione né prevedano minacce del genere, salvo poi essere in grado di fornire prontamente l’identità e le impronte degli attentatori pochissime ore dopo i fatti.)
Ma ancora: le modalità dell’attentato, che si colloca lungo una serie di atti simili attribuiti all’ISIS, potrebbero piuttosto far pensare a un coinvolgimento dei fondamentalisti sunniti, che alcuni ritengono possano essere stati armati persino da mano americana, dal momento che gli Usa non avrebbero gradito il recente ‘invito’ della Turchia a scegliere tra il loro storico alleato in Medioriente (nonché prezioso membro della Nato) e il PYD. Fatto sta che, finché la situazione in Siria non troverà una risoluzione che ruoti soprattutto intorno alla questione dell’autonomia curda, il rischio che gli attentati in Turchia continuino ad aumentare è molto alto.
Ricordiamolo: in questi giorni, le forze curde riconquistano importanti territori nel nord della Siria, ai confini con la Turchia, approfittando del supporto fornito dai bombardamenti russi all’offensiva delle truppe di Assad. La Russia, che appoggia apertamente il governo di Assad, sta di fatto garantendo sostegno anche al PYD, tanto che i curdi siriani hanno aperto un ufficio di rappresentanza politica a Mosca (nelle foto dell’inaugurazione circolate in rete, accanto alla bandiera curda campeggia anche la foto di Öcalan: quella delle tensioni tra Siria e Turchia da una parte, Turchia e Russia dall’altra, a proposito del sostegno offerto dai due paesi al PKK, è d’altronde una storia vecchia, che aveva in ultimo rischiato di esplodere durante la vicenda della fuga di Öcalan nel 1998). Allo stesso tempo, come noto, i curdi siriani hanno ottenuto l’appoggio concreto degli Stati Uniti nella lotta all’ISIS, motivo in più che spinge la Russia a non restare indietro e a gareggiare con l’America per il sostegno al PYD.
Sembrerebbe dunque che, tramite l’intermediazione russa, il regime di Assad e le forze curde si stiano schierando insieme per respingere i ribelli anti-governativi (appoggiati, tra l’altro, dai paesi occidentali all’inizio della guerra) e i fondamentalisti islamici, con la prospettiva di ricostruire uno stato siriano che riconosca anche l’automomia già conquistata dai curdi nella regione del Rojava. Si tratterebbe dunque di una soluzione simile a quella adottata in Iraq, dove la regione federale del Kurdistan iracheno è una realtà statale consolidata da tempo, approvata dagli Usa e riconosciuta per forza di cose anche dal governo turco.
Ma l’ipotesi di Assad non è più realizzabile per i paesi della Nato e in particolare per la Turchia, che ha aggravato le tensioni con la Russia proprio a causa dell’appoggio di Putin ai curdi e per i presunti bombardamenti russi sulle popolazioni turcomanne siriane, alleate della Turchia. Non è forse azzardato pensare che, con questo scontro giocato finora su un livello per lo più diplomatico (fatte eccezioni per gli episodi di abbattimenti aerei), la Russia speri di complicare le relazioni tra la Turchia e gli Stati Uniti, o addirittura di minare l’equilibrio interno della Nato, aprendo così un preoccupante scenario di pericolo collettivo con il rischio di un conflitto che può rapidamente estendersi su scala mondiale.
Per la Turchia il vero problema non è respingere l’ISIS, bensì indebolire l’avanzata dei curdi siriani ai propri confini, creando piuttosto, con il pretesto dell’emergenza dei rifugiati siriani, una zona cuscinetto che separi il territorio turco dalla regione del Rojava e spezzi la solidiarietà tra i curdi siriani e i militanti del Bakur (così i curdi chiamano il loro territorio in Turchia). Il terrore che le vicende e le conquiste dei curdi nei paesi limitrofi possano rafforzare le richieste di autonomia e la lotta indipendentista nel Kurdistan turco è un elemento radicato, che starebbe spingendo la Turchia ad appoggiare l’ISIS e ad inviare miliziani islamisti in Siria in funzione anti-curda.
In effetti, è necessario leggere le mosse turche in Siria come conseguenza delle vicende di politica interna e comprenderne le ripercussioni sul conflitto tra lo stato e i curdi in Turchia. La posizione di Eroğan in Siria ha infatti contemporaneamente prodotto, all’interno della Turchia, un’escalation della guerra in Kurdistan, un rafforzamento dell’AKP e della retorica nazionalista, oltre che una seria difficoltà per i gruppi di opposizione ad organizzarsi, non solo a causa della serrata repressione, ma anche per la sostanziale impossibilità di pensare e agire al di là della sanguinosa agenda imposta dal governo. D’altronde, il solo fatto di criticare l’intervento militare turco e dichiararsi a favore di una risoluzione pacifica nel sud-est del paese comporta il rischio di essere accusati di simpatizzare o fare propaganda terroristica per il PKK: ne è la prova l’ondata di licenziamenti, inchieste, fermi e minacce in cui sono incorsi gli accademici firmatari di una petizione per la pace a gennaio, e prima di loro addirittura una maestra che, nel corso di un collegamento telefonico con una nota trasmissione televisiva, aveva ricordato i massacri di civili e di bambini nell’est del paese. Con una sorta di effetto domino, pochissimi giorni dopo quella telefonata anche gli accademici hanno espresso la loro richiesta di pace e la protesta per il coprifuoco e i combattimenti contro la popolazione curda.
In un clima talmente esasperato, non ci sarebbe da stupirsi se, per non incorrere nella repressione, persino i parlamentari e i rappresentanti democratici filocurdi finissero con l’assicurare che anche loro sono dalla parte del governo contro le violenze del PKK.
Ciò che, alla fine, risulta evidente è la complessità e contraddittorietà degli interessi e delle parti in gioco: come sempre accade in Medioriente, nei fatti siriani sono coinvolti i paesi occidentali, gli Stati Uniti, la Russia, la Turchia e gli altri poteri regionali, e in questo caos i curdi stessi rischiano di essere ancora una volta un’utile pedina sulla scacchiera della politica internazionale. Il Medioriente è la zona di frontiera, è la trincea, il campo di battaglia dove si combatte per interposta persona una nuova ‘guerra fredda’ che coinvolge molti più paesi che in passato.
Tuttavia, se ci si domanda chi è che trae davvero vantaggio dalla guerra in Siria, dal conflitto tra l’esercito turco e i curdi, dall’ascesa dell’ISIS, dagli attentati in Turchia e in Europa, al di là delle concrete responsabilità dell’uno o dell’altro paese o gruppo, la risposta è semplice e univoca: lo STATO, gli STATI. Che si tratti dello Stato turco, degli Stati Uniti, dello Stato russo o dello Stato islamico, sono l’AUTORITÀ e l’autoritarismo ad avere la meglio. È altrettanto evidente che in Turchia (ma non solo) l’unico vincitore assoluto della guerra in corso e di quella che rischia di venire è il POTERE, con la sua violenza e i suoi meccanismi di dominio coloniale sui territori e sulle popolazioni.
È impossibile e superfluo tentare di scindere la natura autoritaria del potere dalle sue realizzazioni statali e contingenti, dai suoi apparati, dai suoi eserciti, dalle sue pratiche terroristiche, dalle sue offensive belliche.
Per questo motivo, a dispetto della confusione e dello scoraggiamento in cui ci gettano le vicende internazionali, anche la risposta anarchica deve essere sempre la stessa, semplice e univoca: senza lasciarci imporre nulla dall’agenda governativa, senza restare schiacciati sotto la pressione della cronaca mondiale, senza farci stritolare dalla repressione interna ed esterna, dobbiamo elaborare una linea libertaria e anti-autoritaria riconoscibile e autonoma anche su questioni così gravi, rispetto alle quali siamo certamente chiamati a dire la nostra e a non diventare strumenti dell’oppressione, magari nell’illusione di poterla annullare dall’interno. Ma soprattutto, come attività politica ed esistenziale fondamentale, dobbiamo continuare la nostra libera ricerca, la nostra sperimentazione di spazi di libertà e di liberazione, non tanto per essere avversari credibili e radicali del potere (di qualunque potere si tratti, in qualunque forma esso sia), ma per impedire che la nostra libertà e la nostra umanità siano fatte soltanto di quelle poche briciole che il potere ci concede mentre ci terrorizza con le sue informazioni, ci reprime con il suo controllo, ci ammazza con le sue bombe.
18/02/16
Kara kız