Partiamo dall’inizio: Vogliamo lavorare meno e lavorare tutte e tutti. Vogliamo la settimana corta e più tempo libero. Vogliamo fare comunità. Vogliamo più diritti. Vogliamo il riconoscimento del lavoro delle donne.
Come stanno le lavoratrici? Come stanno quelle lavoratrici troppo spesso sottintese a quel maschile sovraesteso e universalizzante che di “neutro” non ha niente?
Pensiamo a tutte le soggettività che svolgono lavori di cura retribuiti (babysitter, collaboratrici domestiche, assistenti familiari ecc.) spesso in condizioni contrattuali e lavorative drammatiche, prive di tutele lavorative e sindacali, costrette a ricatti esistenziali e a cambiamenti di vita dolorosi e radicali, come provanti percorsi migratori. Pensiamo anche a tutte le soggettività che svolgono lavori di cura non retribuiti e invisibili.
Le donne svolgono la maggior parte – il 75% – del lavoro invisibile e non retribuito: lavoro domestico, di cura, riproduttivo, organizzativo, carichi mentali e fisici che in tutto il mondo gravano per lo più sulle spalle delle donne. Ai margini del mercato del lavoro retribuito si innestano le trame del lavoro gratuito: un mondo che fatichiamo non solo a riconoscere, ma anche semplicemente a vedere.
Questo, naturalmente, conviene. Conviene agli uomini che beneficiano dell’impegno casalingo della compagna e dopo una giornata di lavoro si buttano sul divano spensierati o trovano il tempo per coltivare hobby o sport; conviene a quelli che in pausa pranzo tornano a casa e trovano un piatto pronto; a quelli che nel weekend possono riposarsi e svagarsi senza pensare alle faccende domestiche. Conviene agli uomini che di notte non devono svegliarsi per accudire un neonato; conviene a quelli che di giorno non devono fare i salti mortali per preparare pappe e biberon; a quelli che non cambiano un pannolino sporco perché “fa schifo”. Conviene ai lavoratori che godono del privilegio maschile e fanno carriera ignorando – o cavalcando – le discriminazioni delle donne e di genere.
Ma soprattutto, conviene al potere. Il sistema capitalistico si regge sull’usurpazione e lo sfruttamento del lavoro gratuito: lavoro che ottiene gratis dalle persone, soprattutto dalle donne; lavoro indispensabile per la riproduzione della vita e, quindi, per la riproduzione della forza lavoro – per usare una locuzione fredda e disumanizzante, ma purtroppo efficace.
La crescente partecipazione delle donne al mercato del lavoro retribuito non ha trovato un corrispondente aumento da parte degli uomini nel lavoro non retribuito: di fatto, le donne lavorano più ore. Anche quando gli uomini decidono di contribuire di più a questo tipo di attività, tendono a non occuparsi delle mansioni quotidiane che costituiscono la maggior parte del lavoro domestico, scegliendo tendenzialmente compiti che risultano loro più piacevoli o “meno tipicamente femminili”. In Italia il 61% del lavoro femminile è lavoro non retribuito, mentre la quota maschile si ferma al 23. (Dati presi da Invisibili. Come il mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano di Caroline Criado Perez.) Secondo la relazione dell’ONU sul divario di genere del 2024, ci vorranno ancora 134 anni per raggiungere la parità di genere.
Insistiamo sul fatto che disconoscere il lavoro non salariato è non solo riduttivo, ma anche dannoso perché significa abbandonare le donne, ignorarne la storia, condannarle al disconoscimento di se stesse. Quando DICIAMO lavoro solitamente intendiamo quello salariato, in cui il lavoratore o la lavoratrice percepisce un compenso, troppo spesso misero e al limite dello sfruttamento – oppure ben oltre lo sfruttamento. Quando PENSIAMO al lavoro solitamente ci viene in mente l’immagine di una persona che svolge un lavoro salariato.
Di nuovo, la maggior parte del lavoro non retribuito al mondo è svolto – gratuitamente e spesso senza riconoscimento – da donne. Senza riconoscimento, perché in una società capitalistica in cui il valore e il merito si misurano in base ai soldi, svolgere un lavoro gratuitamente significa essere disconosciute come lavoratrici – condannate all’invisibilità, quando non apertamente sminuite. Il tipo di lavoro di cui stiamo parlando è così sminuito socialmente che molti uomini lo vivrebbero come un declassamento, una vergogna, uno svilimento e un attacco al proprio machismo. Naturalmente, il lavoro non retribuito non è invisibile solo perché gratuito, ma anche perché si svolge in parte dentro le mura domestiche, al riparo dalla visibilità sociale. Soprattutto, però, il lavoro non retribuito è reso meschinamente invisibile da chi pensa che sia un dovere implicito nell’essere donna, o, peggio, che abbia un legame con la natura, le inclinazioni o la biologia femminile. Pensiamo al cosiddetto istinto materno, tanto sbandierato perché, come qualcuna ha fatto notare, dire a una bambina che sarebbe stata condannata a lavare i piatti e le mutande sporche al marito per tutta la vita è sempre stato meno chic e meno seducente rispetto al convincerla subdolamente e fin da piccola che culla le bambole perché ha l’istinto materno; a convincerla pian piano e che il suo destino e la sua felicità risiedono nella maternità.
Ma c’è chi vorrebbe condannare all’invisibilità anche le lavoratrici salariate, asserendo che si può dire sindaco anche se il sindaco in questione è donna, perché “sindaco è il ruolo, non la persona” o perché “sindaca è cacofonico” (per dirlo, peraltro, utilizzano una parola cacofonica). E qui, vedete, gli esempi possono essere fatti solo con cariche abbastanza prestigiose, perché non ci è mai capitato che qualcuno o qualcuna si lamentasse di maestra, infermiera, impiegata. Succede, però, che la gente si lamenti di ministra, medica o avvocata. Quanto classismo c’è nel sessismo? Quanta misoginia c’è nel classismo?
Non vogliamo soffitti di cristallo che si rompono, perché il femminismo “delle pari opportunità di dominio” non ci appartiene e mai ci apparterrà: siamo contro il femminismo liberale, ancella del capitalismo. Vogliamo il femminismo per tutte: non vogliamo elevare l’1%, ma liberare il 99%. Vogliamo la fine del capitalismo. Se è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, noi vogliamo immaginare la fine del mondo e ridisegnare la società, per un nuovo mondo anticapitalista, transfemminista, ecologista, antispecista, antirazzista, antiautoritario, libero dall’omolesbobitransfobia e da tutte le oppressioni. Vogliamo il pane e le rose.
Gruppo Germinal Carrara