Essendo stato tra i primi a lanciare, durante le passate e l’attuale gestione redazionale, il dibattito sull’antispecismo sulle pagine di UN (chi volesse ne troverà tracce sul sito web del giornale), volentieri rispondo, a titolo personale e in qualità di membro della redazione, alla lettera firmata con lo pseudonimo collettivo Luther Blissett, pubblicata in questo numero, che a quel dibattito fa riferimento.
In essa mi pare si condensino alcune tra le più ricorrenti obiezioni e reazioni alle pratiche e ai discorsi antispecisti; da ciò, a mio avviso, l’utilità di un suo commento critico.
Premesso che sarà impossibile rispondere esaustivamente al diluvio di questioni poste, commenterò queste ultime distinguendole in tre gruppi: le critiche rivolte agli antispecisti, quelli anarchici in particolare, le domande poste loro, le argomentazioni che lasciano intravvedere, nonostante il tono aspramente polemico, sostrati problematici, esigenze critiche, preoccupazioni comuni all’autore della missiva e ai suoi interlocutori.
Prendo le mosse da alcune riflessioni: chiunque porti avanti pratiche antispeciste, o anche solo abbia fatto una scelta vegetariana o vegana, ha potuto sperimentare il fatto che queste suscitano in un certo numero di persone reazioni contrappositive ed un bisogno, talvolta insistente, di ‘cogliere in fallo’ il ‘non mangiatore di carne’, individuando presunte o effettive incoerenze nei suoi modi di fare e pensare. A scatenare questo tipo di reazione spesso basta il fatto che una persona, trovandosi a mangiare o anche semplicemente chiacchierare con altri, dichiari di essere vegetariano o vegano.
Quali sono le cause principali di questa reazione? Quali i tipi di risposta più sensati, e utili ad un effettivo approfondimento delle questioni sollevate? Quali i modi di diffondere i discorsi e le azioni antispeciste, o anche solo di testimoniare scelte vegetariane o vegane, più funzionali ad un superamento di queste barriere e allo sviluppo di un effettivo confronto critico di ognuno con se stesso e con gli altri su problematiche come quelle dell’alimentazione che riguardano tutti?
A livello psicologico, una delle cause più frequenti di queste reazioni risiede, a mio avviso, nel sentirsi implicitamente accusati dalle scelte dell’altro, anche se quest’ultimo non è un militante della PITA americana, o della LAV italiana, organizzazioni che effettivamente usano non di rado forme di propaganda shock e retoriche colpevolizzanti, ma semplicemente un tizio che, senza interferire in alcun modo con le scelte altrui, sta preparando, ordinando, o consumando il proprio pasto vegetariano o vegano, o parlando con altri di cibo.
Nella mia personale esperienza, ho incontrato simili atteggiamenti in persone che si sentivano chiamate in causa dalle scelte alimentari vegane o vegetariane a vario titolo: come consumatori di carne e/o prodotti animali, piccoli o grandi allevatori, fautori dell’allevamento tradizionale o intensivo, imprenditori o lavoratori legati al comparto zootecnico o farmaceutico, veterinari o operatori sanitari deputato al controllo del “benessere” degli animali da reddito, persone legate a organizzazioni come l’ONU o il WFP (World Food Programme). Ma, anche in un altro tipo di reazioni frontiste mi sono spesso imbattuto: quelle di radice umanista e, più o meno latamente, antropocentrica, di chi si sente indignato, offeso, ferito da qualsiasi tentativo di stabilire paragoni o relazioni tra sfruttamento e oppressione, violenza, accanimento e crudeltà dell’uomo sull’uomo e sfruttamento, oppressione e annientamento degli animali non umani.
Questi due ceppi di motivazioni si intrecciano nella missiva pervenutaci. Essa esprime, infatti, in maniera emblematica, l’atteggiamento del sentirsi implicitamente accusati dagli antispecisti, cui ho sopra accennato: “Preavviso di partire dal campo opposto: sono infatti un contadino, un ortolano, un pastore, allevatore ed uccisore (di conseguenza non solo non anarchico, ma ‘fascista!’ o ‘assassino!’, immagino) di svariate specie animali”.
Il punto di vista ‘dell’allevatore’ si coniuga, poi, esplicitamente, a quello dell’indignazione per la messa a confronto dei destini degli animali domesticati e degli uomini. L’attacco più pesante, sferrato nelle prime righe, riguarda, infatti, alcuni articoli comparsi su UN, accusati di “paragoni tra pecore galline e donne sfruttate, morti nel mediterraneo e vitelli macellati” secondo l’autore improponibili. A tali accuse, naturalmente, potranno rispondere, se lo riterranno opportuno, gli autori degli articoli chiamati in causa. Io mi limiterò, in questa sede, a discutere le riserve che l’autore esprime nei confronti del movimento antispecista nel suo complesso e delle sue componenti anarchiche in particolare. Ne riporto di seguito alcune:
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“Incentrare la propria azione e riflessione sull’allargamento di presupposti ‘diritti’ agli animali è, a mio avviso, da una parte un frutto teorico del benessere borghese, dall’altra un preoccupante sintomo di quanto lontani siamo da teorie e pratiche universali e rivoluzionarie”.
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“si leggono molte più documentate riflessioni e ardenti condanne su come vivono e muoiono i polli, che su come vivano e muoiano i carcerati o i popoli lontani”. “Le vittime della barbarie umana ci sono, a miliardi, nell’ambito della nostra stessa specie, senza bisogno di andare a cercare oltre”;
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“vedo ben arduo andare a spiegare l’antispecismo a chi muore di fame, a chi si vende i figli per provare a campare, a coloro a cui si rubano la terra e le fonti di sopravvivenza, a chi è schiavo ed a chi è sotto le bombe, perché ha avuto la sfortuna di nascere nella parte sbagliata di mondo”.
Procedo, nel commentarle, in senso inverso, partendo dall’ultima: al doveroso chiarimento del fatto che non ho mai incontrato un anarchico antispecista che si sognasse di voler imporre tramite metodi coercitivi una dieta vegetariana o vegana a chicchessia (men che meno a chi è sotto le bombe o lotta per la sopravvivenza), aggiungerei che – più arduo dello “spiegare” a quanti vessano in tali condizioni le ragioni dei movimenti antispecisti – troverei il voler comprendere (figuriamoci poi risolvere) i loro e i nostri problemi sociali senza tener conto delle dirette e inaggirabili connessioni che essi presentano con alcuni temi cui gli antispecisti prestano voce e attenzione.
Da questo punto di vista, gl argomenti che l’autore propone mi sembrano alquanto deboli: “Peraltro”, scrive Blissett, “grande e devastante impatto hanno anche (e forse più) le produzioni capitalistiche di cibo non animale: le monocolture varie ed il loro portato di espropriazioni e sconvolgimenti sociali, di danni incalcolabili agli ecosistemi ed alla biodiversità, di uso intensivo dei suoli e di chimica fertilizzante e diserbante. Va notato che queste produzioni non sono per nulla solo indirizzate all’alimentazione animale”.
Ovviamente, e ci mancherebbe, non tutte le colture e monocolture sono destinate agli animali da reddito, tuttavia il quadro delineato, non da militanti antispecisti, ma da personaggi interni o vicini allo stesso settore della produzione di cibo animale come P. Lymbery, direttore di Compassion in World Farming International, ong dedita alla tutela del “benessere” degli animali allevati a scopo alimentare, e autore con I. Oakeshott del bestseller Farmageddon. Il vero presso della carne economica (2014), è significativo: oggi, con una popolazione mondiale che supera i 7 miliardi di persone, più di un miliardo delle quali soffre la fame, un terzo del raccolto mondiale annuo di cereali viene destinato al bestiame rinchiuso negli allevamenti industriali. Se fosse utilizzato per il consumo umano diretto basterebbe, secondo i calcoli di Lymberly e altri, a sfamare circa 3 miliardi di persone.
Riflessi non meno drammatici ha lo sviluppo degli allevamenti intensivi sulla deforestazione, sul’inquinamento e sulla salute umana. Ogni anno, sempre secondo i calcoli di Lymberly, viene abbattuta un’area di foresta pari alla metà della Gran Bretagna e i motivi sono principalmente due: ottenere terreni su cui coltivare soia transgenica e altri mangimi per animali, e liberare spazi in cui impiantare grandi allevamenti industriali. A livello mondiale, l’industria del bestiame contribuisce a più del 14.5% delle emissioni di gas serra prodotte dall’uomo, superando le emissioni di tutti i mezzi di trasporto messi insieme. A causa delle malattie indotte dalle loro condizioni di vita e da malformazioni genetiche dovute alla selezione artificiale, una buona metà degli antibiotici utilizzati nel mondo viene somministrata agli animali da allevamento e questa pratica contribuisce, come è noto, a creare, per gli esseri umani, l’emergenza dei “superbatteri” resistenti agli antibiotici. Sproporzionata appare anche la cosiddetta “impronta idrica” (Water footprint) della produzione carnea, ovvero il suo impatto in termini di consumo d’acqua. Mentre 2 miliardi di persone circa soffrono per la scarsità di risorse idriche, e si prevede che il loro numero triplichi entro il 2050, secondo calcoli forniti dall’economista indiano R. Pachauri, presidente del Gruppo intergovernativo di esperti delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (IPCC), per produrre ogni singolo chilo di carne di maiale immesso sul mercato vengono impiegati, attualmente, in media, 4900 litri d’acqua, mentre ne occorrono addirittura 15500 per ottenere un chilo di manzo.
Riguardo ad alcuni danni alla salute umana che, in modo conclamato, derivano direttamente dal consumo di carni prodotte dagli allevamenti intensivi, non le associazioni antispeciste ma le stesse fonti governative in molti casi ne denunciano, nonostante enormi pressioni delle lobbies del settore, periodicamente la tragicità: negli USA, tra il 2005 e il 2009, documentazioni governative indicavano che quasi tutti i polli messi in commercio nella grande distribuzione (il 95%) erano contaminati da Escherichia coli (un indicatore di contaminazione da feci) e che una percentuale compresa tra il 39 e il 75% della carne di pollo che arrivava sui banchi dei supermercati ne era ancora infetta. L’8 per cento risultava invece contaminato da Salmonella mentre una percentuale variabile tra il 70 e il 90% “è affetto da un altro batterio potenzialmente letale, il Campylobacter. Di regola si usano bagni a base di varechina per togliere lerciume, odori e microbi. Ovvio, i consumatori potrebbero accorgersi che i loro polli non hanno proprio il sapore giusto (…) ma le carni saranno iniettate (o gonfiate) di ‘brodi’ e soluzioni saline per dare loro quello che ormai pensiamo sia il gusto, l’odore e l’aspetto del pollo” (p. 143 del testo citato prima).
Tornando al nostro interlocutore, una logica contrappositiva guida anche la sua seconda obiezione: “Le vittime della barbarie umana ci sono, a miliardi, nell’ambito della nostra stessa specie, senza bisogno di andare a cercare oltre”.
La mia prima risposta a questo tipo di argomentazioni prende la forma di ulteriori domande: come mai l’analogia tra carcerati e animali destinati alla stabulazione, al lavoro coatto o al macello è stata vissuta come intuizione lapidaria e folgorante e introdotta nel dibattito contemporaneo proprio da persone fortemente impegnate nelle lotte contro le discriminazioni sociali di ogni sorta, o da persone incarcerate per lotte sociali rivoluzionarie?
Ad esempio (ne farò più avanti qualche altro), cosa afferrò di sé e dei movimenti insurrezionali della Germania del biennio rosso cui partecipò fino a pagarne le estreme conseguenze, Rosa Luxemburg, mentre, imprigionata nel carcere di Breslavia per le sue attività antibelliciste, guardava gli animali che “se ne stavano esausti” e sanguinanti durante le operazioni di scarico merci, nel cortile della prigione? Quale condizione comune agli uomini d’oggi e alle bestie domesticate le si fece evidente, al di là di ogni barriera di specie, quando da dietro quelle sbarre fissò negli occhi un bufalo battuto e malmenato, e fu da lui ri-guardata?
Risposta che offriva lei stessa, parlando della creatura inerme che “non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta”. Condizione, comune agli uni e agli altri, da leggere, a mio avviso, non come inevitabile legge naturale ma come condizione sociale di merce vivente che già precedenti regimi autoritari avevano in parte realizzato e che il sistema capitalistico ha saputo imporre ad ogni moto o espressione del vivente che possa produrre profitto.
Muove da queste riflessioni il mio tentativo di sottoporre a critica anche la ‘terza’ obiezione all’antispecismo e all’anarchismo antispecista avanzata da Blissett (la prima, in realtà, nell’ordine in cui le ho citate e in cui compaiono nell’articolo): egli afferma che la pretesa di un allargamento di supposti “‘diritti’ agli animali” avanzata da una parte del movimento antispecista sia “un frutto teorico del benessere borghese”, da un lato, “un preoccupante sintomo di quanto lontani siamo da teorie e pratiche universali e rivoluzionarie” dall’altro. Articolandosi l’obiezione in tre asserzioni, proporrò, in estrema sintesi, tre risposte:
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Questione dei “diritti”: personalmente, come molti anarchici, ho riserve critiche forti verso il concetto di “diritti animali”, motivate da perplessità altrettanto radicali nei confronti del concetto di “diritti umani” e delle sue intrinseche ambiguità, che affondano radici nel contesto teologico-antropocentrico da cui esso, a partire dal 1600, si è sviluppato. Penso, tuttavia, non sia un caso che il primo testo intitolato Animal Rights sia stato scritto da una persona come Henry Salt, attivista, amico di Reclus e Kropotkin, impegnato contro le discriminazioni nei confronti delle donne, dei detenuti, delle minoranze e dei perseguitati politici, e fondatore dell’associazione Humanitarian League. Più in generale, posso qui solo ricordare che la letteratura anarchica, da Malatesta ai giorni nostri, offre ampi spunti a chi voglia misurarsi con una critica radicale del diritto, dei poteri che lo fondano, dei presupposti socio-economici che ne garantiscono l’esercizio.
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Antispecismo come “frutto teorico del benessere borghese”: a me pare che il diffondersi nelle società contemporanee di una sensibilità antispecista sia frutto pratico, assai prima che teorico, del “benessere borghese”, in duplice senso. In primo luogo, perché, come già chiarito, è normale che chi ha da lottare per la propria sopravvivenza e quella dei propri cari, poco o nulla possa accollarsi, e sia indotto ad alleviare, il destino di altri sofferenti, e che ciò avvenga ancor meno quando questi appartengono ad altre specie, che una tradizione millenaria ci ha insegnato a considerare nostri “strumenti animati”. In secondo luogo, perché solo nel corso dell’ultimo secolo, e precisamente per realizzare il “benessere borghese”, il fenomeno dell’asservimento, della vessazione e dello sfruttamento degli animali da reddito, e quello della distruzione indiscriminata degli habitat degli animali selvatici, hanno assunto le proporzioni spaventose e prodotto gli effetti devastanti che abbiamo, in parte, esposto. Giusto per dare un dato riguardo alle proporzioni complessive del fenomeno, le stime attuali parlano di circa 170 miliardi di animali all’anno fatti nascere, vivere (un’infima porzione del tempo che potrebbero) e morire in condizioni di continua e intensa sofferenza, in merito alle quali invito tutti a leggere uno dei più documentati libri sull’argomento: Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? di J. S. Foer. Si tratta di cifre che non tengono conto del comparto ittico, quindi, del pesce allevato, di quello pescato e delle ‘vittime collaterali’ della pesca, ributtate in mare morte che, nelle attuali forme di pesca industrializzata, rappresentano circa l’80 % del totale.
Personalmente, dunque, più che istituire paragoni tra lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e quello dell’uomo su altre specie animali, penso sia necessario chiedersi, non superficialmente, qual è la loro relazione effettiva e se esse non si rivelino variabili intrinsecamente interdipendenti tra loro. Vittime degli allevamenti intensivi e dei macelli, tanto per sollevare solo uno dei tanti corni della questione, sono, in un destino inevitabilmente speculare, non meno degli animali, i lavoratori del comparto. G. Meroni riportava, nel 2005, dati che Oxfam, confederazione di organizzazioni non profit dedite alla riduzione della povertà globale, aveva raccolto e presentato negli USA col documento Lives on the line. The human cost of cheap chicken: l’industria alimentare del pollame negli Stati Uniti impiegava, in quegli anni, secondo tali dati, circa 250.000 lavoratori, la maggior parte dei quali immigrati o rifugiati e donne. Il valore degli stipendi di questi lavoratori era diminuito del 40 per cento dal 1980, mentre la velocità della linea di trasformazione era divenuta “due volte più veloce”. I lavoratori del settore, intervistati in modo anonimo, riferivano di quotidiani “infortuni e ferite non curate o non trattate in modo corretto per mantenere le linee di produzione in movimento”, e del sistematico diniego di diritti minimi dei lavoratori, teoricamente acquisiti e tutelati da leggi vigenti, “come le pause per andare in bagno o le protezioni contro gli ingranaggi”.[1]
Cos’è, dunque, oggi, più “rivoluzionario”, rimuovere queste connessioni oggettive, questa devastante estensione dello sfruttamento e delle attività distruttive promosse dai regimi esistenti, o affrontare le nuove sfide sociali ed etiche che esse pongono cercando di comprenderle e contrastarle? La risposta la offre, in parte, l’autore stesso.
Infatti, proprio come gli antispecisti e gli ecologisti sociali, il nostro Blissett ritiene oggi necessario “ampliare la riflessione sul ruolo che la specie umana tiene o dovrebbe tenere nei confronti della natura” e degli “abomini della produzione alimentare capitalistica”. Come noi, egli reputa indispensabile sviluppare, sotto il profilo teorico e pratico questa “intersezionalità delle lotte” e orientarsi verso un approccio “che tenga in conto anche l’impronta ecologica e sociale dei nostri consumi e desideri, delle nostre azioni e riflessioni”. “Condannare” l’allevamento intensivo e i suoi metodi gli sembra poi “un’ovvietà”. Ma proprio questa condanna è oggi purtroppo condivisa solo da una piccola parte dell’umanità. Quanto c’è ancora da lottare, quante e quali sinergie sarebbero necessarie, perché la consapevolezza della necessità di un superamento di questo modo di produzione si diffondesse e iniziasse a dare frutti pratici? Ed è a tal fine è più utile menar fendenti agli antispecisti o percorrere con loro tutto l’enorme tratto di lotta che può accomunarli a quanti, pur praticando scelte differenti, sono consapevoli di tali problematiche e disposti a mettersi in gioco in prima persona per superarle?
Vengo con ciò ai quesiti e all’ultimo gruppo di critiche che l’autore rivolge “agli antispecisti”:
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“cosa mangiate? Cosa vi hanno fatto, infatti, le forme di vita vegetali per non meritare di essere considerate titolari di diritti? Perché ci si focalizza solo sugli animali, peraltro quasi sempre solo sui mammiferi maggiori, dimenticando, tanto per citare, il cece o l’insalata? Forse che essi non provino dolore? e chi ce lo dice?”
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“Tra la linfa che sgocciola dal pistillo reciso e il sangue che sgorga dalla gola tagliata, la differenza è in fondo solo nella percezione umana”
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“ogni essere vivente ha bisogno, per la sua stessa esistenza, di prevaricarne altri, e a sua volta viene prevaricato. È la catena alimentare, bellezza”.
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“Quest’ultimo punto mi pare il più importante. Alimentarsi senza delegare, producendo.
Certo, la vita è anche catena alimentare, ha bisogno di nutrirsi di altra vita, non si sopravvive con soli sali minerali. In questo senso, non ci è data possibilità di sfuggire totalmente all’esercizio della violenza nei confronti di altri esseri viventi, a meno di ipotizzare in futuro la produzione di cibi sani, gradevoli e nutrienti totalmente sintetici.
Ma alla domanda sul “chi dice” che i vegetali non provino dolore e all’asserzione che equipara “la linfa che sgocciola” al “sangue che sgorga dalla gola tagliata” si può risponde che tale equiparazione è da considerare, ad oggi, del tutto arbitraria, poiché non supportata da alcuna evidenza empirica o sperimentale e che nonostante le scoperte importanti, e culturalmente rivoluzionarie, sul sensorio e gli apparati cognitivi delle piante, prodotte negli ultimi decenni, al netto di alcuni articoli sensazionalistici, per lo più divulgativi, l’ipotesi che i vegetali possano esperire qualcosa di simile al dolore e alle sofferenze è ancora lontanissima dal trovare un consenso tra gli studiosi. Riguardo agli animali, al contrario, le nostre attuali conoscenze consentono di attribuire con certezza tale facoltà a tutti gli animali, inclusi aracnidi e insetti che sembrano essere la nuova frontiera dell’industria zootecnica.
A ciò aggiungerei una mia personale domanda: davvero, caro Blissett, per te sarebbe indifferente, potendo o dovendo scegliere, ammazzare un uomo, un cane, una mucca, o uno scimpanzé, per mangiarli, e strappar dal suolo (quindi togliere la vita a) un cespo di insalata? O il fare questa asserzione ti costa, invece, una forte rimozione del tuo effettivo sentire? In ogni caso, il ricorso al dispositivo retorico del colpevoli tutti, nessun colpevole, mi sembra meramente autoassolutorio.
Ma non voglio, a mia volta, sfuggire ad una risposta, la mia è la seguente: ove mai evidenze plurime relative ad una capacità di soffrire nei vegetali, ad oggi non prevedibili, dovessero emergere, penso che il principio cui si orienta l’etica antispecista, o almeno quello che delle mie scelte personali, resterebbe lo stesso, che è poi quello che Blissett stesso, come si è visto, in parte fa proprio, solo preso più sul serio, meno alla buona, di quanto egli, oggi, sembra disposto a fare: produrre il minor danno possibile, meno violenza possibile, privilegiare il più possibile il rispetto per i senzienti, per gli esseri che sappiamo capaci di gioire e soffrire, oltre che di morire (incluso se stesso).
Torniamo così alla questione posta all’inizio di questo articolo: per quali ragioni alcune persone, come il nostro Blissett, si sentono offese da qualunque accostamento tra l’uccisione, oppressione, vessazione di persone e un analogo trattamento riservato ad animali non umani, non meno di noi capaci di soffrire?
Lo si consideri giusto o sbagliato, il giudizio che sta dietro questo sentire afferma che la vita umana vale, e dovrebbe valere per ogni appartenente alla specie, sempre e comunque più di qualunque (e di qualunque quantità di) vita non umana, sia essa vegetale o animale.
Confesso di avere un atteggiamento problematico e conflittuale nei confronti di questo principio. Da un lato, mi sembra doveroso ammettere che, per quanto mi senta antispecista, non credo avrei un attimo di dubbio ove dovessi scegliere se sacrificare o meno, per esempio, qualche migliaio di formiche o moscerini per salvare la vita di mia madre, di un amico, o anche di una persona che non conosco.
D’altro canto, non sono affatto sicuro che, costretto a scegliere, privilegerei in ogni caso e qualunque circostanza una vita umana rispetto ad una vita animale. Volendo ricorrere al classico “gioco” del ‘chi salvi, chi lasci affogare’, non sono affatto sicuro che, trovandomi obbligato a scegliere se soccorrere un capomafia, un violentatore seriale, oppure un cane o un gatto cui sono affezionato, sceglierei i primi solo perché appartenenti alla mia specie.
Ne ricavo che il principio del rispetto della vita, della libertà e del sentire altrui va assunto, sia riguardo ai nostri conspecifici, sia riguardo a tutte le altre forme viventi, in tutta la sua problematicità, senza rimuovere le tensioni e conflittualità che esso può generare ed effettivamente genera in ogni contesto sociale, in ogni epoca, e in ogni vita, e cercando invece di comprenderle nelle loro trasformazioni storiche.
Da qui una risposta anche all’obiezione con cui “Luther” chiude il suo discorso: la condizione del potersi alimentare attraverso l’autoproduzione, che l’autore raccomanda, ritengo ne sia consapevole quanto e più di me, è oggi, sia nei paesi altamente industrializzati, sia in quelli più devastati dalla miseria, dalla siccità e da altri flagelli sociali, un (sudato) privilegio cui solo una piccola minoranza ha accesso. La vita e l’attività dei piccoli produttori autonomi sono oggi dappertutto falcidiate da grandi catene di produzione, lavorazione e smercio. Tanto per far riferimento a dati di immediata lettura: la carne non proveniente da allevamenti intensivi negli USA, cioè nel paese che detiene il primato di maggior consumo mondiale, è pari all’1% del totale e questa fetta di mercato, conquistata con enormi sforzi grazie al riunirsi di migliaia di piccoli allevatori, è oggi più che mai (ancora un’analogia con gli animali non umani) a rischio estinzione (s. v. J. S. Foer, op. cit.)
Concludendo, al di là di qualunque (pseudo)logica contrappositiva, la questione del riscatto dell’umanità dallo sfruttamento, quella della crisi ecologica globale e quella della dignità da restituire alle vite animali sono, a mio avviso, irrisolvibili ove le si separi una dall’altra, e insuperabili se non si realizzeranno modi di organizzare l’economia, la società non incentrati sull’accumulazione del profitto.
Al movimento anarchico tocca, quindi, il compito di far emergere, sia sul piano della riflessione e della progettualità, sia nelle pratiche quotidiane, attraverso una rielaborazione critica della propria stessa tradizione, il legame costitutivo tra questi tre orizzonti della lotta anticapitalista.
In particolare, come già in passato ho suggerito, penso che a chi si riconosce nelle forme e negli obbiettivi dell’anarchismo sociale tocchi, oggi, l’onere di uno sforzo che miri ad includere, in maniera articolata, la questione antispecista e quella ecologica, così come le problematiche derivanti dalle nuove forme di espropriazione dei saperi, delle libertà, e della forza lavoro legate all’era dell’informatizzazione, nel progetto di un comunismo libertario degli individui, dei generi, delle genti e delle specie, capace di estendere il principio della cooperazione non coatta anche ai rapporti tra gli umani e le altre specie senzienti, e di contribuire alla diffusione di pratiche di vita in cui tali forme di libera convivenza e cooperazione possano essere liberamente sperimentate ed effettivamente realizzate.
Marco Celentano
NOTE
[1] MERONI, Gabriella, “Allevamenti-lager: e se le vittime non fossero solo i polli?”, in Vita Bookmagazine, 3 novembre 2015.