“….esce confermato anche l’altro intendimento fondamentale di questo provvedimento, nel senso del passaggio dal vecchio sistema tendente a difendere la persona che lavora DAL mercato del lavoro, evitandole il più possibile di dovervi transitare, a un sistema di protezione tendente a difenderla NEL mercato, in particolare nel passaggio dalla vecchia occupazione a una nuova.
La transizione dal paradigma della job property a quello della flexsecurity, avviato con la riforma del 2012, viene dunque ora portato a compimento con un nuovo assetto del sistema protettivo che mira essenzialmente a coniugare la massima possibile flessibilità delle strutture produttive, indispensabile per la competitività delle nostre imprese nell’economia globalizzata, con la massima possibile sicurezza economica e professionale delle persone che in esse lavorano. Sicurezza che deve essere data essenzialmente dalla libertà effettiva di movimento nel mercato garantita a tutti da una assicurazione contro la disoccupazione di impianto moderno, strettamente collegata con servizi efficaci di assistenza nella ricerca della nuova occupazione.”
Piero Ichino
“La necessità di superare le rigidità in uscita [cioè la difficoltà di licenziare] del mercato del lavoro italiano è stata oggetto di sollecitazioni da parte di istituzioni sovranazionali, quali l’Unione Europea, la BCE e l’OCSE”
Maurizio Sacconi
Nei giorni che seguenti l’approvazione dei decreti attuativi del Jobs Act mi è avvenuto di parlarne con diverse persone di diverso orientamento e da questo confronto nascono alcune, provvisorie considerazioni.
Un mio amico, orientato a sinistra ma “moderato” anche se non lo definirei renziano, era convinto del fatto che la libertà di licenziare può essere uno stimolo ad assumere. Insomma, l’imprenditore, liberato da lacci e laccioli, finalmente assumerebbe serenamente lavoratori e lavoratrici nella consapevolezza che potrebbe, se si dimostrassero “inadeguati” liberarsene con poca fatica.
Gli ho fatto notare che un simile argomento si basa su un presupposto fallace, la comunanza di interessi fra padroni e lavoratori e l’esistenza di una comunità aziendale. E’ chiaro che, se così fosse, avrebbe ragione il governo visto che si tratterebbe di espellere dalla comunità aziendale chi reca un qualche danno.
Se però si assume il fatto che la comunità aziendale è un mero costrutto ideologico, che esistono interessi diversi e confliggenti, è evidente che siamo di fronte al dispotismo aziendale, alla possibilità di eliminare chi si oppone al potere padronale o in forma organizzata o a livello individuale e chi, semplicemente, è poco interessante come, ad esempio, una lavoratrice o un lavoratore non più giovane e con problemi di salute. Questo senza dimenticare, per fare un caso sin troppo noto, il fatto che, in una situazione di disparità di potere come quella che crea la libertà di licenziare, la resistenza a, sin troppo diffuse, molestie sessuali – e le chiamo molestie ma spesso sono vere e proprie violenze – diventerà difficile se non impossibile.
Non so se l’ho convinto, spero almeno di avergli dato motivo di riflettere ma il suo caso mi conferma comunque nella necessità di una campagna capillare di informazione, denuncia, critica del diritto del lavoro.
Una compagna impegnata nel movimento NO TAV e molto brava e generosa, dopo una relazione sul Jobs Act tenuta alla CUB di Torino ha avuto una reazione preoccupante e che non va sottovalutata.
Ha, infatti, posto l’accento sul fatto che, in questo contesto, se tutto va bene siamo rovinati, che sarà impossibile, o quasi, l’azione e l’organizzazione dei lavoratori in un contesto come quello con il quale faremo, in realtà già facciamo, i conti. Insomma, la conoscenza sembra produrre sconcerto più che stimolo all’azione ed all’organizzazione.
A questa reazione credo vadano date risposte chiare.
In primo luogo, e lo dimostrano alcune recenti lotte dei lavoratori della logistica, quello che conta, alla fin della festa,è la capacità di lotta, di iniziativa, di organizzazione. Lavoratori senza diritti, in quanto immigrati senza nemmeno i diritti che avevano/hanno i lavoratori italiani, hanno ottenuto con la mobilitazione diretta importanti miglioramenti contrattuali. Si dirà, e chi lo dicesse avrebbe ragione, che nella logistica i lavoratori sono concentrati ed hanno un rilevante potere contrattuale che i lavoratori delle piccole e medie aziende sovente non hanno ma è anche vero che non si tratta di imitare quanto avvenuto nel settore della logistica ma di trarne spunto per individuare forme di azione efficaci.
In secondo luogo, si tratta, come sempre, di accettare i doni del nemico sulla punta della spada. nel nuovo contesto giuridico e sociale è essenziale costruire forme di coordinamento nelle lotte e nella mobilitazione che vadano al di là delle appartenenze o non appartenenze sindacali e, soprattutto, di sviluppare su serio forme di mutuo soccorso, di solidarietà, di sostegno reciproco fra lavoratori e lavoratrici.
Poniamola in questo modo, la “protezione” statale, una protezione pelosa, ambigua, per certi versi fonte di passività e corruzione, viene sempre più a cadere, si tratta di sviluppare autonoma capacità di autotutela della classe sia nella forma della lotta che in quella dell’organizzazione della solidarietà.
Abbiamo già esempi concreti che vanno in questa direzione, dobbiamo farli conoscere, esaminarne le caratteristiche, estenderli e coordinarli, farne un fatto culturale, un’indicazione di metodo.
Per riprendere una vecchia ma efficace formulazione, possiamo affermare “Nuovo capitalismo, vecchia lotta di classe”.
Al riformismo al contrario del capitale, alla fine del sistema di garanzie costruito nell’età dell’oro del capitalismo dobbiamo rispondere non implorando il ceto politico, che anche volesse – e non vuole – non potrebbe farlo, di salvare la “stato sociale” ma opponendoci nei fatti all’offensiva statale e capitalista nella consapevolezza che questa è l’unica linea d’azione efficace nell’immediato e in prospettiva.
Cosimo Scarinzi