Alessio Lega risponde con semplicità, modestia, gentilezza e disponibilità alle mie domande qualche ora prima del suo concerto “Fedeli a Pietro Gori” in occasione dell’VIII Vetrina dell’Editoria e delle Culture Anarchiche e Libertarie a Firenze il 23 settembre 2017. Mezz’ora di conversazione profonda in amena compagnia sul Lungarno: “L’anarchia in fondo è un vaccino.” “Io faccio il cantautore anarchico perché continuo a pensare che, oltre tutto, le storie che a me commuovono di più sono le più belle da raccontare, in questo non si disgiunge l’etica dall’estetica.” Grazie, compagno!
In qualche modo si nasce anarchici, no? Te ne rendi però conto il giorno in cui ci puoi mettere la parola. Si nasce pure cantautore anarchico?
“Anarchico” è un termine bellissimo perché contiene tutto, ma proprio per il fatto che contiene tutto e forse troppo, si presta a molte ambiguità. Io ho sentito autodefinirsi anarchici persone che flirtavano col potere nella maniera più disgustosa, vivendo in un’epoca postsocialista in cui molti comunisti che si sono comportati in maniera assolutamente anti anarchica, ora si compiacciono nel dire che in fondo sono sempre stati libertari (ride). D’altra parte però è anche odioso volere mettere un timbro del genere questo è anarchico, questo no: nessuno di noi può permettersi di farlo. Allora proviamo banalmente a dire che esiste sicuramente un’anarchia dello spirito, un’intenzione, una capacità ribelle, però esiste anche un movimento anarchico intenso come una branca del grande movimento operaio e, pur nella considerazione che esistono gli individualisti, io mi riconosco nella sua parte più collettivista, organizzata, “malatestiana”. Dopodiché culturalmente sono aperto ad ogni fenomeno dentro il movimento, mi piace anche perché è vivace, è contraddittorio, a volte anche troppo (ride), è capace di discutere, a volte anche di litigare. Sono tutte le nostre caratteristiche nel bene e nel male con cui fare i conti, a volte anche senza riuscire ad imparare dai propri errori, insomma in questo movimento così complesso e così diversificato, in qualche misura mi sento ancora di identificarmi. Ci si nasce? Non lo so, ma diciamo di sì: si nasce potenzialmente anarchici, però diventarlo è una fatica che dura tutta la vita. Ma anche un’allegria alla fine è un mestiere, è facile cedere alle tentazioni del potere, anche quando si fa un lavoro come il mio dove magari si dirigono dei musicisti, nel rapporto umano che ha ognuno di noi con i suoi compagni di lavoro, con la sua compagna o compagno di vita, ci sono continuamente delle situazioni in cui l’autorità viene fuori. L’anarchia in fondo è un vaccino.
Com’è stata la tua formazione musicale?
Chiamarla formazione musicale è fin troppo pomposo, sicuramente ho avuto dei gusti diversi da quelli della mia generazione, cioè da piccolo mi piaceva la musica classica, l’opera. Poi se dovessi dire proprio musicalmente, a me piace il barocco, il settecento, la lirica. Ascoltare Donizetti, ascoltare Paisiello. Un’esperienza come ascoltare il clavicembalo ben temperato di Bach, a rischio di sembrare spocchioso, credo che non la si faccia con nessun’altra opera. Poi, detto questo, ero un ragazzino che aveva tredici quattordici quindici anni fra l’85 e il ‘90, quindi ovviamente andavo a ballare, non è che non conoscessi niente della musica che mi girava attorno. Però la vera passione mi è nata dalla passione di raccontare delle storie, mi sembrava una cosa molto bella e molto importante. Io subito ho scoperto due mezzi che erano allo stesso tempo colti e popolari, il fumetto e la canzone, e ho cercato di percorrere tutti e due. Ci sarebbe un terzo che è il cinema ma è costoso e devi relazionarti con troppa gente, cosa che non sono capace tanto di fare, facilmente litigo per cui mi piace un po’ l’autarchia, che è una parola usata malissimo, spesso dai fascisti. Mi piace invece l’idea che il fumetto è un piccolo film che ti fai da solo e che la canzone è una piccola opera che ti costruisci da solo e che, alla fine, con chitarra e voce è già eseguibile. Poi può essere arricchita, ti permette di relazionarti, ecco, questa possibilità di una cosa che fai individualmente ma che ti permette di parlare, anche nel come farla, con altra gente. Si sviluppano le tensioni che pongono le grandi domande, che si pongono gli anarchici appunto: come una creazione può nascere collettivamente ed essere comunque improntata a parlare di un individuo allo stesso tempo? Queste cose così mi continuo a chiedere, a volte risolvendole, a volte meno, nell’ambito del mio lavoro.
Appunto, io ho appena scritto una poesia per un compositore di musica barocca e per loro ci sono sempre prima le parole, poi il compositore ci mette la musica. Tu fai lo stesso, prima scrivi, poi metti la musica?
Questa è la domanda che ogni autore di canzone si fa: prima le parole o prima la musica? Vorrei fare una premessa molto importante. Le parole sono un fatto musicale, cioè per me la parola nasce parlata, non nasce scritta. Scritto è un’altra cosa, ci aiuta molto, ci permette di fissare, di riflettere, di tornarci dopo, però l’oralità è un fenomeno fondamentale. Ti parlavo prima di raccontare. Raccontare è un termine proprio dell’oralità, che ci viene delle favole, ed io sono molto legato alla tradizione dell’oralità, a questa forma che solo quando abbiamo inventato un registratore è stato possibile fissare con tutti i pregi e difetti. Perché così la fissi e diventa un testo, invece la bellezza era proprio l’evoluzione, la canzone che nasceva. Insomma fra oralità e scritto si gioca tutta questa cosa qui, per cui io ti direi che innanzitutto esiste una cosa che è il ritmo. Io penso prima a un ritmo, su questo ritmo si basa la parola, il verso, e quindi su quel ritmo cerchi di far correre un racconto, un sentimento. In seguito l’arricchisci di armonia, di melodia, però la base di tutto è il ritmo, ed è un fatto più letterario, più musicale, non te lo so dire. Però direi che il ritmo fa nascere.
E anche la scelta della chitarra è stata, come dire, per liberare la parola?
Quando ho cominciato a sentire canzoni, erano sopratutto canzoni popolari.
Brassens?
Sì, Brassens con la chitarra sicuramente, De André per gli italiani, ecc. ma anche tutto il fenomeno della canzone sudamericana per me è stato fondamentale. Atahualpa Yupanqui, Violeta Parra erano artisti che avevano tanto dentro, la musica popolare, l’oralità. Specialmente Atahualpa Yupanqui era un chitarrista però che non faceva semplicemente dell’accompagnamento, la chitarra all’interno del mondo ispanico è stata uno strumento fondamentale. Ovviamente il nostro immaginario rock’n roll, perché viviamo nel nostro tempo, è legato al cantante che canta suonando la chitarra, quindi probabilmente nel momento che mi sono immaginato a cantare, mi sono immaginato con una chitarra in mano. Non è necessariamente lo strumento che amo di più, durante un periodo ho amato molto il pianoforte, recentemente mi capita spessissimo di suonare con un fisarmonicista. Non disdegno gli strumento elettronici, anche se non li domino e quindi mi devo un po’ fidare degli altri – ma questo è anche il bello del gioco. Non ho preclusione, non è necessariamente la chitarra, certo la chitarra, fra gli altri strumenti, è l’unico che un poco un poco ho studiato e quindi so gestirlo.
Cantare l’anarchia serve per la diffusione dell’idea?
Si calcola male ancora quanto il fenomeno della canzone abbia attratto e continui ad attrarre persone. Qui bisogna aprire una parentesi. Le canzoni anarchiche, le canzoni di tematica anarchica, diciamo così, o di tematica vicino al libertario, hanno secondo me avuto un ruolo nella fascinazione, e – attenzione – la fascinazione è anche pericolosa, però nella fascinazione hanno avuto un ruolo centrale. Io stesso penso di aver sentito per la prima volta la parola “anarchia” in una canzone. Non è detto che sarei andato a cercare un testo di Bakunin o di Malatesta se non avessi prima sentito delle canzoni che mi spingevano. Viviamo in un’epoca stupida in cui si pensa la canzone come all’epoca rinascimentale, sembra solo un mezzo per rallegrare la gente che sbuffa… Invece secondo me continua a restare un mezzo straordinario per comunicare delle idee. Poi è chiaro che la canzone resta una canzone, non dobbiamo nemmeno farcene un moloc, molti si appassionano all’anarchia attraverso la canzone ma poi se continui solo ad ascoltare le canzoni (o magari anche scriverle) ma non agisci e non crei un po’ più di sostanza anche con delle letture che possano sviluppare il pensiero un po’ meglio di come si possa fare in tre minuti di una canzone, probabilmente non sarai mai veramente un anarchico o comunque non avrà sostanza questa cosa qui. Però, per il primo approccio, resta il mezzo più formidabile di diffusione.
Tu sei l’interprete del repertorio storico anarchico ma hai anche le tue creazioni. Come trovi in ogni concerto un equilibrio tra quello che si è già cantato e quello che vuoi portare tu?
Sicuramente sono diventato cantante perché scrivevo, non il contrario. Però il pregio di questo mestiere è che puoi continuare a fare ricerca dandone testimonianza in pubblico e non soltanto nel repertorio storico specialmente anarchico. A me piace fare ricerca su tutti i fenomeni musicali, ovviamente mi affascinano in particolare quelli di ribellione a un sistema e quindi sono andato sempre a cercare canzoni di cantautori francesi, di cantautori della grande tradizione latinoamericana, della grande tradizione angloamericana che è straordinaria, ma anche, a un certo punto, conoscendo le persone che mi avvicinavano a quella lingua, della tradizione russa, delle varie tradizioni slave, insomma ho interpretato un po’ tutto questo. Se mi va di fare un concerto sui cantautori russi, lo faccio. Anche il grande repertorio tradizionale italiano e mondiale della canzone di tematica anarchica continua ad essere un mondo importante. Vedo tante corali che interpretano queste canzoni, è vero che c’è stato un periodo aureo di queste canzoni e ci piace anche la retorica che hanno le canzoni di Pietro Gori, però a volte ho l’impressione che ci siamo fermati al secondo dopoguerra. Invece occorrerebbe cantare le cose nuove: quelle vecchie ci fanno riflettere, ci fanno capire che “nostra patria è il mondo intero”, ecc. e con queste canzoni continuiamo a parlare delle cose di oggi, quindi è importante avere questo repertorio, ma è importante anche rinnovarlo perché altrimenti l’impressione è che stiamo celebrando una liturgia.
Ritieni di essere un cantautore popolare, anche nel doppio senso?
Non te lo so proprio dire, mi piacerebbe e questa è la mia intenzione. D’altronde penso anche che il piccolo privilegio di continuare a scrivere ti faccia sperimentare delle strade che a volte, si spera, sono in anticipo sui tempi; ma questo noi non lo sappiamo quando iniziamo a scrivere, si segue un po’ il proprio gusto, un po’ le proprie idee. L’intenzione sicuramente è quella della comprensibilità. Non mi interessa, non che la disprezzi, ma non mi interessa la sperimentazione linguistica, altrimenti avrei scelto di fare il musicista classico o il poeta tout court: per quelli che sono stati gli sviluppi della poesia contemporanea, puoi fare una poesia molto slegata da criteri di popolarità. Invece no, mi sono sempre scelto delle forme, come la canzone, che comunque in genere rispettano un rapporto di comprensibilità. Questo credo, anche perché per me la cosa importante, come dicevo all’inizio, è raccontare delle storie e la storia ti obbliga a sacrificare tutto alla storia, la devi rendere più potente, ecc. però è sempre la storia che domina, è la narrazione che ti porta a svilupparla meglio. Tutto il linguaggio, la voce, la musica, è al servizio, non delle parole, tutto è al servizio della narrazione.
Parliamo del concerto di stasera “Fedeli a Pietro Gori: storia cantata dagli anarchici.” Il tuo pubblico qui a Firenze sarà tutto anarchico, sicuramente non ti capita spesso ma ti capita comunque? L’esperienza è diversa?
È evidente che parlare a un pubblico che già sa, è comodo. Non è necessariamente ciò che si auspica nel senso che a volte è anche bello parlare a della gente che non è d’accordo per niente, altrimenti ce le diciamo solo fra di noi le cose. Il mio mestiere mi ha portato tante volte a cantare per un pubblico che presumibilmente era di anarchici ma tante volte mi è capitato di cantare per un pubblico che si potrebbe definire genericamente di sinistra e a volte di cantare anche per un pubblico che era del tutto generalista. Sarebbe una fatica enorme e anche un atto tutto sommato di presunzione e di opportunismo pensare ogni volta di fare un repertorio adatto a un pubblico diverso. Alla fin fine penso che se uno è bravo, possa bypassare il problema ed essere percepito da tutti, poi tutto sommato stimolare delle reazioni negative è a volte anche più utile che non stimolarne solo di positive. È chiaro che un pubblico del tutto ostile a queste idee si sente insultato dalla prima parola e quindi non si mette in nessuna relazione. Un minimo tenti sempre almeno di capire dove sei, non siamo i Rolling Stone che arrivano proiettati dall’aereo direttamente sul palco quindi cerchi di capire dove sei. Ma aldilà di questo minimo misurarsi al contesto, che mi trovi a cantare per pubblico di tutti anarchici in un festival di musica popolare come a Saint-Imier, o che mi capiti un pubblico invece generalista come quello che tu hai sentito a Napoli (Bella Ciao), è un bell’esperimento. Cioè è interessante in tutti i casi e bisogna tentare nei limiti di essere fedele a se stessi oltre che a Pietro Gori.
Ti volevo fare una domanda collegata con l’attualità perché nel 2013 hai partecipato a questo concerto per l’indipendenza della Catalogna “Concert per la Llibertat” cantando la canzone di Luis Llach, Abril 74, e poi lo chiami pure Llach il catalano nel libro “Canta che non ti passa”. Allora siamo a qualche giorno di questo referendum del 1 ottobre che sfida lo Stato spagnolo, una faccenda che conosco abbastanza bene perché il mio cognome è catalano, ti va di dirci cosa ne pensi?
Mi fai entrare in un ginepraio dove tra l’altro le mie opinioni si stanno, non dico mutando, ma si stanno evolvendo. Io, proprio da anarchico e anti statalista, ho sempre visto le lotte indipendentiste forse fin con un’eccessiva simpatia nel senso che tradizionalmente molte di queste lotte mi sono sempre sembrate delle lotte contro uno Stato centrale più oppressivo, poi noi anarchici siamo federalisti – però il problema è che federalista è anche la Lega Nord [ride e ridiamo]. Siamo perfettamente d’accordo, però, siccome penso che l’anarchico debba per sua natura mettere dei dubbi più che risolvere, almeno in certe situazioni, ecco: quel concerto in particolare giustamente si chiamava Concerto per la libertà e non per la Catalogna, nemmeno per la libertà catalana, ma è pur vero che c’erano tante, per mio gusto troppe, bandiere identitarie e che non ho visto bandiere anarchiche. Da una parte c’era Paco Ibañez, che per me è un grande riferimento culturale, quindi non è che avevo timori, però il fatto che Luis Llach dopo sia diventato un parlamentare, rispetto a quello che era la mia fascinazione per un personaggio che si definiva anarcocomunista, un po’ mi ha inquietato col tempo ma è è avvenuto dopo. Quindi io continuo a pensare che nell’identità catalana ci siano tanti elementi, e forse più che altrove elementi libertari, che per loro natura sono antifascisti perché l’antifranchismo è stato un elemento connotativo talmente forte che probabilmente qualcosa ne resta, ma in molti movimenti indipendentisti attuali io vedo anche molti grossi padronati che vedono una nuova condizione di cui profittare. Trovo ancora che il nazionalismo sia la più pericolosa peste dal punto di vista politico e che forse noi italiani, che siamo campanilisti e non nazionalisti per tradizione, tutto sommato tendiamo a sottovalutarlo un pochino nel senso che appunto non ne siamo tanto toccati, anche perché un italiano appena si sente nazionalista, appena si sente patriota, è subito un fascista. Invece altrove esiste un patriottismo che non è necessariamente troppo di destra, penso soprattutto agli Stati del Sudamerica dove questo patriottismo è legato all’anticolonialismo, quindi non puoi ovviamente dire che sia fascista, non lo è stato, ma invece l’attuale vicenda ucraina… insomma ci sono molti elementi che mi fanno ancora ritenere che il nazionalismo sia una peste pericolosissima. Insomma, evidentemente, con tutta la simpatia originaria che si ha per dei movimenti che si sono sviluppati come antifranchismo e che rivendicano l’autodeterminazione dei popoli e poi se vogliamo possiamo farci entrare il Kurdistan che è un altro discorso, le cose non sono semplici, e vanno tenute in tutta la loro complessità. Se però posso comunque continuare a portare un punto di vista libertario, anarchico, in cui io mi riconosco, per me resta la vecchia definizione che il proletariato non ha nazione. Mi va benissimo i movimenti che disgregano gli Stati, mi vanno molto male quelli che vogliono costruirne.
Sei anche alla Vetrina dell’editoria libertaria e anarchica nelle veste di studioso. A me è piaciuto molto “Bakunin, il demone della rivolta” che ci presenta un Bakunin nella sua dimensione umana e non solo i testi. È anche una cosa importante per te?
Certo. Sappi che questo libro è stato pubblicato da un editore esplicitamente libertario ma tanti libertari si sono incazzati. Per me è un libro dove è percepibile il mio amore per il personaggio, non viene nascosto, ma anche il fatto che Bakunin non fosse soltanto un personaggio, un gigante, ma fosse anche un gigante negli errori che faceva, nella sua dimensione grottesca perché l’aveva, ho imparato a conoscere un po’ i russi, era molto caratteristicamente un russo in questo senso. Non ti nascondo che il mio sogno – lo dico sperando che questa cosa crei per me stesso una specie di precedente – sarebbe riuscire a costruire un romanzo storico sulla vicenda della banda del Matese. Però è ancora una chimera, non ho cominciato a scrivere nulla !
Noi siamo il gruppo Errico Malatesta, ti invitiamo subito!
Questo processo di ricerca è troppo, diciamo divulgazione, narrativa sempre perché è sempre un libro di narrazione, all’interno delle storie degli anarchici. Trovo siano bellissime anche perché, sarò di parte, ma mi sembra che la storia di certi nostri miti come appunto Bakunin, come Malatesta, come Carlo Cafiero, siano non solo delle storie interessanti storicamente. Cioè alla fine io faccio il cantautore anarchico – cioè il cantautore di tematica anarchica – perché continuo a pensare che, oltre tutto, le storie che a me commuovono di più sono le più belle da raccontare, in questo non si disgiunge l’etica dall’estetica.
Parlando di etica, ho acquistato l’ultimo disco (Mare Nero – ritratto di un inferno bello mosso) tuo sul sito, in versione scaricabile, a un prezzo popolare. Poi proponi pure brani ascoltabili a costo zero?
Tutti i nostri dischi sono sempre scaricabili dai mezzi, con questo non ci illudiamo di aver superato la macchina infernale che è il capitalismo anche in ambito culturale. Diciamo che facciamo il nostro meglio per renderli fruibili il più facilmente possibile, ovviamente devi sempre avere internet, sempre avere un computer, sempre avere degli strumenti che comunque ti propone il capitalismo però bene o male tentiamo, all’interno di questo quadro che non siamo in grado di superare, di renderli fruibili. Poi ovviamente siccome costa qualcosa farli, in tutta onestà diciamo anche che se ci date una mano, riusciamo a fare il prossimo! Poi è sicuramente tutto fruibile su You Tube.
Quel disco “Compagnia cantante“, in allegato a un libro, “Canta che non ti passa”, è bellissimo perché ci sono tutte le traduzioni di canzoni di artisti francofoni, ispanici, slavi. Vorrei un commento sul titolo Canta che non ti passa per l’ultima domanda.
Non voglio sottrarmi a questa domanda perché non è mia abitudine fare a scaricabarile, ma fu un titolo scelto dall’editore, peraltro un “pazzo” molto vicino a tante tematiche libertarie, per altri versi invece assolutamente non condivisibile ma è così perché è un grande provocatore che si chiama Marcello Baraghini, l’editore di Stampa Alternativa, È stato vicino anche agli anarchici in molti casi, per altri versi invece era dell’ambito radicale ma quanto di più vicino al pensiero libertario ci fosse in quella tradizione radicale. Io non lo amavo molto questo titolo perché lo trovo un po’ troppo facile, però devo riconoscere che è un titolo che buca, che si ricorda. Avrei voluto che si chiamasse “Compagnia cantante” tutta l’operazione, d’altronde il libro veniva fuori da una riscrittura di una rubrica che io tengo per Rivista Anarchica che si chiama appunto “Compagnia cantante”.
“Compagnia cantante” ha più senso per te?
Giustamente sono gli editori a scegliere i titoli, hanno delle esigenze, quelle delle collane, ecc. Non me ne lamento ma se me lo chiedi, ti rispondo quello che è la verità, non è un titolo mio. Ma ti dirò di più, per esempio “Bakunin…” nella mia idea si doveva chiamare “Il diavolo”, perché il “demone” per me era troppo il daimon, invece il diavolo è qualcuno di totalmente negativo. “Canta che non ti passa” mi sembra una battuta, “Compagnia cantante” è un gioco, fra lo scherzo e il gioco, c’è una nuance interessante…
Monica Jornet
Gruppo Errico Malatesta – FAI e Groupe Commune de Paris – FA