Nelle assemblee Non Una Di Meno verso il 26-27 novembre a Roma, si è subito pensato a l’indomani del 25 Novembre. La Giornata Internazionale Per L’eliminazione Della Violenza Contro Le Donne non doveva essere il traguardo bensì la nostra linea di partenza. La rinascita del femminismo è stata vissuta con entusiasmo durante questo percorso, venendo poi confermata dall’immenso successo della manifestazione nazionale del 26: una marea di voci di donne si fanno sentire malgrado la censura dei media.
Migliaia di donne sono scese in piazza e hanno sfilato con orgoglio attraverso Roma per rivendicare l’autodeterminazione, centinaia di loro hanno partecipato ai tavoli tematici del 27 per stabilire un Piano Femminista contro la violenza maschile. Per tante era la prima manifestazione femminista: essere insieme come donne poiché discriminate in quanto donne. In mezzo al corteo, strada facendo, ci siamo confidate le une con le altre: percorsi dolorosi, molestie e discriminazioni sul posto di lavoro, dipendenza e controllo a casa, sessismo, stalking, ricatto, tanta fatica, tanta rassegnazione forzata, tante frustrazioni, tante violenze.
Bandiere e slogan sia istituzionali, sia di partiti e sindacati erano stati vietati dal corteo quindi gli striscioni diffondevano le parole d’ordine decise in assemblee locale o dal social Non Una di Meno. Unite aldilà di qualsiasi differenza di classe sociale o ideologia, ci ascoltavamo, ci parlavamo, ci consigliavamo. Condivisione di rabbia e sogni e, contemporaneamente, un’esplosione di allegria, di liberazione della parola, di sorellanza.
Le iniziative cittadine si sono moltiplicate. Nel quartiere Sanità (Napoli) ho partecipato il 28 novembre a una lettura pubblica davanti a un negozio: i commercianti avevano appeso alle loro vetrine una locandina in ricordo delle donne vittime di femminicidio dell’anno in corso. Ogni partecipante al flashmob contro il femminicidio leggeva a voce alta in mezzo alla strada il nome di una donna uccisa, con la data e le circostanze dell’uccisione per mano maschile.
Le assemblee del coordinamento Non Una di Meno hanno preparato la seconda tappa, cioè le giornate del 4 e 5 febbraio a Bologna verso lo Sciopero Internazionale Delle Donne. I tavoli tematici costituiti a Roma continuavano a lavorare via mailing list per sintetizzare il lavoro compiuto e fare ulteriori proposte ma anche per definire le rivendicazioni e le varie modalità di azione da proporre a Bologna per l’8 marzo. A Napoli, ci preparammo per questa seconda tappa con tante assemblee.
Non penso di poter portare nelle pagine di UN un contributo utile sul piano informativo al report fatto da Non Una di Meno sul tavolo Lavoro e Welfare cui ho partecipato. Nemmeno servirebbe un granché ribadire che condivido e concordo pienamente con il report dalla compagna della FAI presente a Bologna. Condividerò dunque con voi i miei pensieri critici mentre ascoltavo gli interventi, senza sminuire pur minimamente la portata storica dell’assemblea del 4-5 febbraio a Bologna, augurandomi che sia solo il primo passo verso l’autodeterminazione delle donne. Firmo 8 volte per l’8 marzo, ovviamente la priorità è il successo dello sciopero delle donne, fare sentire la nostra volontà comune e immensa di rifiutare di essere vittime del sistema patriarcale capitalistico.
Non dobbiamo sottolineare le nostre differenze, dicevo, ma nemmeno tacerle. C’era un’urgenza a Bologna, definire 8 punti per l’8 marzo. Il reddito di autodeterminazione ne farebbe parte, era stata una proposta, poi uno slogan fino a diventare una parola d’ordine. Non mi è però piaciuto il metodo. C’erano partecipanti in assemblea contro il reddito di autodeterminazione e non hanno potuto esprimersi completamente e liberamente perché erano in minoranza… È chiaro che si doveva andare avanti: pure nelle comuni dell’Aragona nel 36-37, che compirono il “sogno egualitario”, se qualcuno non era d’accordo e la decisione era vitale per la comunità, questa si prendeva lo stesso; dopo un dibattito però. Da anarchici, il concetto di maggioranza non ci appartiene, bensì quello del comune accordo.
Mi rendo anche conto che c’è un’opposizione tra una generazione che, pure sfruttata, disoccupata, indebitata, con un sovraccarico di impegni, ruoli, responsabilità familiari, è inserita nel mondo del lavoro e il consumo e, invece, la generazione successiva rimasta fuori. Da una parte, capisco le donne della mia generazione (e ancora di più a Napoli dove “campare” è la preoccupazione numero uno, dove i figli sono costretti a cambiare città o paese dopo studi lunghi per iniziare una loro vita indipendente): non riescono a capire che si chieda un reddito di autodeterminazione per le donne, si deve assolutamente chiedere lavoro. Dall’altra, capisco anche le donne ventenni e trentenni che chiedono questo reddito e dicono di non avere questa massima aspirazione che avevamo di lavorare e, alle volte, nemmeno la minima intenzione e che cercano spesso un modo di produzione e di consumo alternativo. Si inseriscono tardi nel mercato del lavoro, senza speranza di andare un giorno in pensione, con un posto di lavoro precario oppure con un contratto minimo per dopo esigere di loro il massimo, un lavoro senza quasi ferie, senza orario, sottopagato e con straordinarie gratis, eccetera … Non sono d’accordo (ho avuto su questo una discussione con un’operaia comunista milanese) sul dire che sono una generazione pigra e egoista, ci sono tanti giovani impegnati e generosi in tanti centri sociali che ne sono la dimostrazione, ma magari non più, fortunatamente, presenti in partiti e sindacati tradizionali, non più disposti ad accettare senza batter ciglio la servitù volontaria. C’è un rifiuto del sistema, come lo dice bene il punto 4 dell’appello a scioperare, vogliono “resistere al ricatto della precarietà” e non accettano “che ogni momento della nostra vita sia messo al lavoro”. Noi anarchici siamo per la fine del salariato e la rivoluzione sociale, certe cose le possiamo capire. Ho notato anche confusione tra reddito di autodeterminazione per le donne (o per tutti ?), reddito di cittadinanza (esclusi quindi i migranti?) e salario minimo europeo (universale). Insomma, un problema di questa assemblea è stato segnare una parola d’ordine prima ancora di definirla bene e darle un contenuto condiviso.
Sono contro il reddito di autodeterminazione per le donne. Mi sembra contraddittorio, assistenzialistico, pure statalista. Poi secondo loro (Stato, Regione, Comune), i soldi non ci sono, figuriamoci se ci sono per noi donne! Ci saranno solo se a loro fa più comodo che rimaniamo a casa a stirare anziché creare posti di lavoro. Il reddito di autodeterminazione va bene, secondo me, come in Spagna, e ci vuole, per una donna vittima di violenza che non ha autonomia finanziaria. Per tutte le altre, vedo questo reddito di autodeterminazione come un tranello del sistema. Noi dobbiamo dire che il lavoro domestico non è il compito, il ruolo della donna, non vogliamo che diventi pure il suo lavoro stipendiato, che poi non sarebbe altro che un sussidio della casalinga. Altrimenti avremmo rafforzato la dipendenza della donna, altro che autodeterminazione. La donna deve uscire di casa, avere un posto suo nella società, ispirandomi alla Woolf, “un lavoro tutto per sé”.
Roma. Bologna. Un po’ mi sono stufata di tanti elogi a Zapatero, l’ex presidente del governo spagnolo. La legge contro la violenza di genere (2004) è stato un grande passo avanti. Ma c’era bisogno di rafforzare la condanna quando la vittima di violenza è la donna uccisa da un uomo in una relazione di coppia? Visto che le vittime comunque sono al 95% donne, magari no, attente a non fare noi stesse apologia della discriminazione nei nostri confronti, sia pure positiva. Per questo ritengo che si debba sempre chiedere diritti universali anche se particolarmente rivolti a una situazione della donna. Seconda critica, la legge di Zapatero ha ormai più di dieci anni, avete visto le statistiche? Non si è abbassato il femminicidio, 57 donne uccise nel 2005, primo anno di applicazione della legge, sembrava una svolta dopo le 71 vittime del 2004 ma poi 69 nel 2006, 71 nel 2007 e il luttuoso record di 76 nel 2008 e di 73 nel 2010, e la cifra non varia notevolmente : 53 nel 2016. Non ci dobbiamo chiedere perché? Tra l’altro perché sono indubbiamente fondamentali l’educazione e la formazione contro il maschilismo ma puoi andare a parlare nelle scuole quanto vuoi tu, fare corsi nelle ditte, vietare la pubblicità maschilista, complimentarti perché ci sono già più laureate che laureati… non è soltanto una questione morale per cui ci dobbiamo trovare sempre a discutere del bene e del male, è una questione di potere! Dappertutto, il potere rimane maschile e le relazioni di potere sono quelle del patriarcato. Quindi, pur convincendo tanti singoli, non si cambia mai fondamentalmente nulla: fatto sta che non conviene assumere una donna, che la donna non fa carriera, che il suo stipendio è inferiore, che occupa meno posti di responsabilità e decisione, che la femminilizzazione di un mestiere significa che ci si guadagna di meno. Invece i gradini più alti della gerarchia sono occupato dagli uomini.
Infine, il femminicidio è la violenza più estrema ma dobbiamo lottare contro tutte le violenze, discriminazioni e condizionamenti. Vorrei denunciarne una che non si mette abbastanza in risalto: l’assenza di libertà di circolazione per le donne. Come ci si organizza per non essere aggredita o derubata? Come si fa a tornare a casa se si vuole uscire di sera in maniera autonoma? Stiamo sempre a dover valutare tutto e a fare il conto con il rischio della libertà che osiamo prendere per non rinunciare a una vita piena.
Monica Jornet dell’OACN-FAI
* “Inno delle donne d’Italia” (Canzone partigiana)