Quello che lo Stato italiano spenderà nel comparto militare, anno per anno, è più dei 4 miliardi che sono stati tagliati al Servizio Sanitario Nazionale con il nuovo budget deciso dal governo Renzi. Ciò in un paese dove ormai sono milioni le persone a basso reddito che rinunciano a curarsi perché non possono permettersi di pagare i ticket. Basterebbe questo per giustificare uno sciopero generale contro la guerra e contro la politica “economico-antisociale” dell’enfant prodige fiorentino. Ma c’è molto di più.
C’è l’orrore infinito per tutti i focolai di guerra che a poche centinaia di chilometri da noi martoriano carni, fanno scorrere il sangue a fiumi, a cominciare dall’inferno siriano, dove le forze imperiali del mondo e altre ancor più feroci forze sub-imperiali giocano la loro partita a scacchi per il dominio. C’è la necessità di sostenere, in quel contesto buio, la piccola luce rappresentata dalle popolazioni curde, che, mentre resistono e combattono nemici potentissimi e ferocissimi, si sforzano disperatamente di “restare umani”. Sto parlando sia delle popolazioni della Rojava, in territorio siriano, che in condizioni di guerra stanno provando a sviluppare un sistema di relazioni sociali non fondato sulla gerarchia, il machismo e lo sfruttamento, sia delle popolazioni del Bakur (la zona curda in territorio turco), che subiscono una guerra di sterminio da parte dell’esercito del macellaio Erdogan e che resistono dichiarando, dove possono, l’autogoverno dei villaggi e delle comunità. Sto parlando degli anarchici e della sinistra rivoluzionaria turca che con coraggio sta conducendo una lotta a viso aperto contro un regime brutale e fascista, appoggiato da tutte le forze della NATO. In questo senso è un dato politico non indifferente che la Comunità curda di Milano abbia aderito allo sciopero generale del 18 marzo promosso da CUB, USI-AIT e SI Cobas.
Ma al centro dello sciopero c’è anche un’altra cosa fondamentale, che è la libertà sindacale. Gli accordi sulla rappresentanza firmati da Confindustria, CGIL, CISL e UiL nel 2013 e 2014 e poi dopo, sciaguratamente, anche da Confederazione Cobas, USB e ORSA, vogliono imporre a tutti i soggetti sindacali la scelta tra la possibilità di far eleggere propri delegati nei luoghi di lavoro e la libertà di promuovere scioperi. O l’uno o l’altro, questa è la logica! Cioè come dire: o vi tagliamo un braccio (eleggere i delegati), oppure, a vostra scelta, entrambe le gambe (promuovere gli scioperi). Noi – e ci sembrerebbe ovvio – abbiamo scelto di tenerci le due gambe (lo sciopero) perché senza di quelle la parola sindacato è completamente priva di significato. Purtroppo quel che sembrerebbe ovvio non lo è. Il fatto che Confederazione Cobas del Lavoro Privato e la USB abbiano scelto di firmare l’accordo sulla rappresentanza, la dice lunga sui rapporti di forza, anche culturali, che le classi dominanti sono riusciti ad imporre nella società. Non è superfluo far notare che chi ha firmato l’accordo sulla rappresentanza sindacale del gennaio 2014, ha espressamente aderito anche ai contenuti dell’accordo del 28 giugno 2011, perché i due accordi sono espressamente collegati. E quando si parla di accordo del 2011 non si parla più di diritti delle organizzazioni sindacali, ma si parla di nuovo sistema contrattuale dove è prevista la possibilità di derogare in peggio ai contratti nazionali di categoria. Cioè, chi ha firmato sulla rappresentanza si è preso anche la ancor più grave responsabilità di mettere la propria firma sul ridimensionamento di una delle conquiste storiche del movimento dei lavoratori: il contratto nazionale di lavoro.
Un altro punto centrale dello sciopero è la richiesta di cancellare il Jobs Act, ovvero la legge del governo Renzi che ha sancito la piena licenziabilità del lavoratore da parte del padrone. Una ferita aperta, una vecchia trincea che la classe lavoratrice era riuscita a tenere nel 2002 contro Berlusconi e che invece è stata “asfaltata” dal “mostro di Rignano”. Con il Jobs Act tendenzialmente non esisterà più lavoro precario e lavoro stabile, perché tutti saranno precari.
Molto importante è la battaglia contro quella micidiale miscela di autoritarismo militaresco, di nuova selezione di classe e mercantilizzazione del sapere che è la legge della Buona Scuola.
Molto importante per noi anarcosindacalisti dell’USI è rilanciare, anche solo simbolicamente, la riduzione dell’orario di lavoro come risposta al problema occupazionale, proprio perché la tendenza è invece quella a tornare indietro di almeno un secolo, cioè ad ad una giornata lavorativa superiore alle 8 ore.
E poi vi sono tutte le altre ragioni, per niente secondarie: dal salario, alle pensioni, alla lotta contro le opere inutili e dannose, come TAV, Muos, eccetera.
E’ inutile nasconderlo, il 18 marzo si mobiliterà una minoranza di lavoratori, di disoccupati e di studenti. Ed è inutile nascondersi che questo sciopero tenta una difficile risalita della china dopo un anno e mezzo di vuoto nelle mobilitazioni generali. Quando nell’autunno del 2014 era in discussione in parlamento il Jobs Act, il sindacalismo alternativo, insieme con i movimenti per l’abitare, a molte realtà studentesche organizzate e ai Centri Sociali riuscì a costruire una significativa giornata di sciopero e mobilitazione che prese il nome di Sciopero Sociale. La definizione di Sciopero Sociale traeva spunto dalla consapevolezza della difficoltà nel far male all’avversario tramite le sole forme tradizionali di sciopero, in un contesto in cui la produzione vera e propria si è significativamente spostata altrove e in cui molte attività non subiscono alcun danno da una semplice fermata di un giorno. Da qui la necessità di sperimentare forme integrate di blocco della vita economica delle città, con – accanto allo sciopero vero e proprio – blocchi del traffico, occupazioni di centri direzionali ed altro ancora. Si trattava dunque di provare a ripensare la forma dello sciopero, facendone diventare protagonisti una pluralità di soggetti, non tutti immediatamente riconducibili alle figure classiche del movimento operaio tradizionale. Non si può certo dire che il 14 novembre del 2014 questo tentativo riuscì pienamente, ma fu comunque un momento importante di sperimentazione del percorso immaginato. Il 14 novembre 2014 sarebbe stato cioè un buon punto di partenza, ma purtroppo rappresentò invece un momento isolato che non riuscì a riprodurre molto altro se non lodevoli, ma sporadiche mobilitazioni locali.
Con il 18 marzo si riparte quindi in salita, ma si riparte anche da una forte motivazione in più che è il brutto vento di guerra che spira in Italia ed in Europa, contro cui fortunatamente qualche cosa comincia a muoversi. E fondamentale tornare a scioperare ed è fondamentale riprendersi le piazze, stare nelle piazze, dare il senso del protagonismo collettivo e diretto dei soggetti subalterni. Spesso si è portati a pensare che nell’era solipsistica e spersonalizzante di Facebook, stare in piazza sia un inutile auto-rappresentazione retrò. Ma poi quando lo si fa anche in pochi ci si accorge che non è così, che ancora forte è la sua capacità evocativa. Lo abbiamo toccato con mano proprio questo sabato a Pisa nel riuscito presidio degli Anarchici Toscani (con la presenza dell’USI-AIT), promosso in sostegno e preparazione allo sciopero generale del 18 marzo, contro la guerra e a fianco dell’autogoverno delle popolazioni curde.
Claudio Strambi