Gli anarchici e le anarchiche sono stati/e complici e solidali con le soggettività queer sin dalle origini del movimento di liberazione omosessuale. Non serve certo scomodare Emma Goldman per ricordare che l’anarchismo, ponendo in primo piano l’eguaglianza e la libertà da ogni forma di oppressione, è stato il primo storico nemico di ogni ordine patriarcale ed etero-normativo.
Per questo, nella serata di venerdì 25 Maggio, la Federazione Anarchica Milanese, insieme a diverse realtà cittadine, ha risposto alla chiamata della Marciona.
Le strade della città-vetrina di Milano sono state travolte da un indecoroso corteo queer e trans-femminista, partecipato da un migliaio di corpi fuori dalla Norma che non vogliono più essere merce – di partiti, multinazionali o influencer – ma in marcia contro l’etero-cis-patriarcato.
L’iniziativa è sorta a partire da un processo di riflessione orizzontale avviato da gruppi e soggettività cittadine LGBTQIA+ provenienti da diversi percorsi di lotta, ma mossi dalla medesima volontà di costruire un Pride autentico, cioè alternativo a quello “ufficiale”, il quale, ormai da anni, è divenuto palcoscenico di padroni e istituzioni. Gli incontri preparatori della Marciona, ai quali alcuni di noi hanno partecipato attivamente, hanno mostrato, nel numero dei partecipanti e nella qualità dei tanti interventi succedutesi, che fare questo era ed è stato possibile.
Se l’intento voleva essere quello di porsi in continuità rispetto alla storica rivolta dello Stonewall Inn a New York – uno scontro tra polizia e frequentatori dei bar queer del West Village durato sei giorni – non sarebbe stato accettabile condividere la piazza con personaggi che, nascondendosi dietro a subdole operazioni di rainbow-washing, rivendicano inclusività per gli stessi corpi che emarginano attraverso la gentrificazione dei quartieri e l’internamento nelle prigioni e nei CPR.
Liberazione non significa diventare modello o ispirazione per la prossima campagna di marketing. Sulla base di questa consapevolezza, attraverso assemblee, tavoli tematici e percorsi di cura reciproca, siamo riusciti/e a realizzare un Pride intersezionale, nonché capace di lottare per una liberazione totale.
Per prevenire la violenza di matrice culturale che subiamo sistemicamente, abbiamo optato innanzitutto per pratiche formative libertarie che educhino all’autodeterminazione e che, quindi, siano libere dall’ingerenza ecclesiastica.
In quanto studenti e studentesse, abbiamo sperimentato in prima persona come la scuola pubblica sia ancorata ad una retrograda narrazione catto-patriarcale che, ad esempio, continua a definire la donna in funzione dell’uomo e che non tiene conto dell’esistenza di identità non binarie.
É fresco di questi giorni il dibattito pubblico circa il legame fra uno Stato che si professa laico ed una Chiesa che continua ad essere invadente. Ora più che mai l’istituzione ecclesiastica teme di perdere la scuola come strumento di conservazione e riproduzione di una cultura che vede la “sacra” famiglia biologica come unico e autentico motore della società umana.
La delirante caccia fascio-cattolica al “gender nelle scuole” esprime una nuova forma di omofobia che, salvo qualche eccezione, non condanna più l’omosessualità come fatto privato. «Non sono omofobo, ma queste cose fatele a casa vostra»; «ognuno a letto fa ciò che vuole, ma la famiglia è mamma e papà»; «tra poco non esisteranno più gli etero, è tutto un business». Queste sono alcune delle formule pronunciate ossessivamente dalle destre e rivomitate dai loro seguaci. L’omofobia così espressa non si spiega come paura del mero atto sessuale perverso. L’omofobo di oggi teme che il discorso queer, con il suo radicamento nella sfera pubblica e pedagogica, giunga a sovvertire la cultura etero-cis-patriarcale dello Stato-Nazione.
Alla costruzione di una soluzione preventiva pedagogica segue il successivo obiettivo della Marciona: smontare il discorso etero-cis-patriarcale sulla sicurezza, che pretende di contrastare l’omo-lesbo-bi-trans-fobia mediante una risposta penale. Con un intervento di fronte alle mura del Carcere di San Vittore, il corteo ha rivendicato la sua posizione anti-carceraria.
L’autorità statale giustifica l’istituzione totale sostenendo che la reclusione serve a proteggere il “bene comune” e gli individui più vulnerabili. La nostra risposta è stata che la prigione mira esclusivamente a tutelare un sistema autoritario, razzista, sessista e machista che esclude, invisibilizza e manipola i corpi di chi non risponde ai suoi interessi. Non troviamo protezione nell’autorità che muove guerra a chi occupa una casa, a chi difende la propria terra dalla devastazione ambientale, a chi attraversa una frontiera senza il giusto pezzo di carta, a chi si ribella in un lager di Stato. Pertanto, abbiamo scelto di prendere le distanze da qualsiasi retorica giustizialista.
Noi rispondiamo alle violenze dell’etero-cis-patriarcato con la solidarietà attiva, l’azione diretta, la riappropriazione della dimensione pubblica a partire dalle periferie. Costruiamo discorsi dal basso e li materializziamo sviluppando reti e spazi di autogestione trans-femminista e queer. Siamo noi gay, lesbiche, bi, agender, trans + e complici a lottare in prima persona per le nostre vite e le nostre libertà.
Abbiamo quindi espresso solidarietà a tutti i detenuti che, nelle prigioni come nei CPR, hanno avuto il coraggio di insorgere e di dare visibilità al degrado al quale sono condannati: esiguo accesso al sistema sanitario e strutture sovraffollate, sporche e scarsamente ventilate. A queste pessime condizioni igienico-sanitarie, che hanno favorito la diffusione del virus COVID-19 all’interno delle carceri, si possono aggiungere ulteriori supplizi, quali l’isolamento, il razionamento alimentare e le percosse delle guardie. Episodi simili sono ricorrenti e avvengono sotto gli occhi omertosi e complici del personale sanitario.
In un’occasione simile, è stato doveroso dedicare un pensiero alle detenute trans che, in Italia, vivono una doppia reclusione. Le nostre sorelle vengono trattenute in condizioni di semi-isolamento all’interno delle carceri maschili, solitamente in sezioni “protette” dove sono internati anche i condannati per violenze sessuali e abusi su minori.
Se sosteniamo che la prigione riproduce e alimenta la violenza omo-lesbo-bi-trans-fobica è perché ricordiamo che, molto spesso, l’istituzione totale nega alla persona l’autodeterminazione del proprio genere: la detenuta trans ha difficoltà nell’accedere alle terapie ormonali e al giusto vestiario, ed è costante oggetto di offese e di molestie sessuali da parte delle guardie carcerarie e degli altri reclusi.
La maggior parte delle persone trans recluse nelle prigioni italiane proviene da situazioni di precarietà e di emarginazione sociale che aprono quasi inevitabilmente la strada verso la “piccola criminalità” (spaccio, furti, prostituzione…). Proprio per questo, il discorso della Marciona non scinde la dimensione politica da quella economico-sociale: «Marciona vuole riprendersi le strade, le piazze e i dibattiti per ricordare a tuttx che la “lotta per i diritti” esclude più spesso che includere. Marciona nasce a Milano, città che si propone come avanguardia di apertura, ma che in realtà, come nel peggio del mondo capitalista, si apre solo a chi se la può permettere» – citando il manifesto.
In un’Italia dove, nel corso di dieci anni, lo 0,1% della popolazione ha raddoppiato il proprio patrimonio sulle spalle della classe lavoratrice, la lotta per la liberazione sessuale ed affettiva non può che assumere una decisa posizione anticapitalistica. In quanto lontane dal vertice nella gerarchia dei privilegi, le persone LGBTQIA+, come quelle non-bianche, sono le prime a pretendere migliori condizioni materiali, necessarie, tanto per iniziare, per sottrarsi alla violenza domestica, alla dipendenza da famiglie opprimenti e da un assistenzialismo statale lento e da fame.
Ricordiamo poi che il 23% delle persone queer dichiara di aver subìto discriminazioni sul posto di lavoro e che il 33% afferma di non arrivare a fine mese. Le lavoratrici più oppresse risultano essere quelle transgender e intersessuali, le quali riferiscono quasi il doppio delle violenze subite rispetto ad altre soggettività della nostra comunità. L’11% di noi denuncia di aver più difficoltà nella ricerca di una casa, il 16% nell’accesso alle cure private e il 19% nell’accesso all’istruzione.
Quali prospettive, allora, per una lotta queer e anticapitalista?
Certamente rifiutiamo la visione neoliberale e imprenditoriale che vuole esaurire la nostra battaglia politica nella conquista di posizioni prestigiose in grandi aziende o nei palazzi del potere, al pari dei maschi bianchi, etero e proprietari.
Sentiamo invece l’esigenza di riappropriarci del tempo di cui il lavoro salariato ci priva, e di spenderlo per amare chi vogliamo e come vogliamo. Già la messa al centro dell’emozione e della relazione con l’Altro è un atto che sovverte il presente, in quanto incompatibile con l’ordine del Capitale che ci vuole produttivi e consumatori.
Ci mobilitiamo per la costruzione di una comunità mutualistica che cerca nell’autoproduzione, nello scambio e nell’empatia – non nel profitto e nella competizione – la cura del sé e dell’Altro. L’anticapitalismo de-genere ha il coraggio di mettere in discussione la norma della famiglia tradizionale, poiché questa è funzionale alla riproduzione sociale capitalistica e frena la libera ricerca di nuove relazioni che collettivizzino la responsabilità della cura.
Lavoratori e lavoratrici di tutto il mondo, unitevi, rivendicate forme dissidenti di piacere e nuove forme di cura! I nostri corpi non conformi vi aspettano.
Cristian e Alessandro della F.A.M.