Il pressing della Confindustria sul governo, volto ad anticipare la scadenza stabilita per il blocco dei licenziamenti, previsto per il 28 agosto, ha avuto buoni risultati, portando la scadenza non oltre il 30 giugno. Ma questo è nella logica delle cose, perché è la convinzione da sempre del capo del governo Draghi, propria del sistema liberista, quella che sbarazzarsi della mano d’opera sia alla base dello sviluppo del sistema. Un terreno già predisposto da tempo da tutto l’arco delle forze istituzionali con la cancellazione dell’ultimo, pur parziale, baluardo della difesa dai licenziamenti con l’eliminazione dell’articolo 18, con il consenso silente delle confederazioni sindacali. I settori maggiormente colpiti dalla decimazione saranno quelli dell’industria e della edilizia. Per le piccole aziende il blocco dei licenziamenti è fino al 31 ottobre, mentre la rivendicazione dell’intero arco sindacale era quella di mantenere il blocco di tutti i licenziamenti almeno fino alla fine dell’anno, cioè una data che al momento si poteva prevedere come la fine dell’emergenza pandemica.
Fra l’altro era anche la stessa proposta avanzata dai “5 stelle” ma che si è persa per strada, forse perché si è deciso di non contrastare seriamente il governo di Draghi, malgrado la loro presente rilevanza numerica all’interno della coalizione. Nessuna obiezione nemmeno sui tanti fondi destinati alle imprese da parte del governo.
I licenziamenti non sono mai cessati
È importante rimarcare che i licenziamenti reali non sono mai cessati perché, malgrado il blocco durante la pandemia, da febbraio 2020 si sono comunque persi quasi un milione di posti di lavoro, di cui a farne le spese in stragrande maggioranza sono state le donne, in conseguenza delle leggi colabrodo presenti, dovuti soprattutto alla scadenza dei contratti a termine e delle partite IVA, oltre alle dimissioni non sostituite dovute ai pensionamenti.
Anche se sono previsti l’utilizzo di ammortizzatori sociali, quale la cassa integrazione ordinaria e straordinaria fino al 31 dicembre 2021 per le aziende che non licenziano, la volontà delle aziende a liberarsi della forza lavoro è così forte che, una volta cessati i vincoli dell’obbligatorietà, è troppo allettante l’idea di approfittarne.
Quindi questa opportunità è come una bomba ad orologeria, per cui tra le aziende arrivate a situazioni fallimentari per effetti prolungati dalla pandemia e le aziende pronte al rilancio che non vedono l’ora di sbarazzarsi di pesi per loro fastidiosi, sarà una ecatombe con centinaia di migliaia di licenziamenti, senza neanche una adeguata predisposizione di ammortizzatori sociali.
I sindacati confederali Cgil, Cisl, Uil prontamente, come altre volte, hanno tuonato contro tali provvedimenti, minacciando azioni sindacali di contrasto, con mobilitazioni e scioperi; sappiamo bene però che cane che abbaia non morde ed è troppo facile scommettere che non faranno nulla del genere. Sono troppo preoccupati che il governo gli tolga l’osso di quelle finte contrattazioni che non approdano mai a niente.
Un attacco esteso anche ai lavoratori degli appalti
In contemporanea all’attacco che riduce di 60 giorni la fine del blocco dei licenziamenti il governo Draghi, non contento dei danni che ne deriveranno per i lavoratori, sta portando anche il suo attacco, con il codazzo del coro plaudente della Lega, di Forza Italia e il silenzio delle altre componenti, a una ulteriore restrizione di regole penalizzanti verso i lavoratori degli appalti. Con il pretesto della sburocratizzazione si interviene in un settore già pesantemente sotto ricatto nella riduzione dei diritti dei lavoratori, allargando le maglie delle regole di gare di appalto e subappalto, secondo il principio di fatto del massimo ribasso.
Se ci fosse la reale volontà dei governi di eliminare queste situazioni di mafiosità, basterebbe sottoporre a controlli le aziende attraverso gli ispettori del lavoro per verificare le reali condizioni delle cooperative – gran parte false cooperative – e di come operano gli appalti e i subappalti, per determinarne la chiusura nella maggior parte dei casi, con la relativa assunzione di quei lavoratori presso le rispettive aziende committenti.
Su chi contare oggi per una adeguata risposta
I sindacati di base sono già sul piede di guerra nella mobilitazione contro tali provvedimenti, come a Bologna dove USI CIT assieme a SGB, Cobas, Unione Inquilini, si sono mobilizzati in piazza, nel presidio sotto la sede della Confindustria nella giornata del 5 giugno. A Milano sono in corso le assemblee per una iniziativa unitaria del sindacato di base e delle organizzazioni dell’opposizione sociale, a seguito del corteo del Primo Maggio, per una manifestazione contro tali provvedimenti del governo nella giornata del 26 giugno, con eventuali presìdi anche nei giorni precedenti. Sicuramente USI CIT in questa fase, in tutte le sue sezioni, sarà impegnata a contrastare questa deriva, assieme ai sindacati di base e conflittuali con cui condivide gli obbiettivi.
Quella della riduzione dell’orario di lavoro resta una prospettiva strategica importante e irrinunciabile. C’è un problema contingente sempre più drammatico cui dare delle risposte non più rimandabili. Di fronte a giovani sempre più tecnicamente preparati che escono dalle scuole, addestrati alle nuove tecnologie in un mondo in continua evoluzione ma che per la maggior parte non trovano una collocazione dignitosa nei processi produttivi; di fronte a lavoratori e lavoratrici che con la loro capacità hanno costruito processi tecnologici molto avanzati che come conseguenza li sostituiscono in questi stessi processi produttivi; di fronte a lavoratori e lavoratrici che hanno fatto la fortuna di aziende che sono diventate leader nel loro campo, assicurando guadagni strepitosi ai loro proprietari ma che, per guadagnare ancora di più, delocalizzano dove la mano d’opera costa meno, lasciando in mezzo alla strada intere famiglie, il tempo dell’attesa è ormai finito.
Per una prospettiva irrinunciabile
Prendiamo le parole ora dal documento del Congresso provinciale dell’Unione Sindacale Italiana a Milano (2015) in preparazione del XXI Congresso nazionale, oggi più valido che mai: “Non si può neanche essere rassegnati al fatto che vengano quotidianamente distrutti sul territorio migliaia di posti di lavoro per delocalizzare aziende dove il costo del lavoro è più basso e più alto il profitto o semplicemente conviene chiudere un’attività produttiva per motivi speculativi di guadagno sulla vendita del terreno stesso. La riappropriazione deve essere la nostra indicazione sempre più ferma quando ciò si verifica. Riappropriazione dei terreni, immobili, macchinari e delle finanze accumulate, perché tutte le ricchezze prodotte sono il frutto dello sfruttamento della classe lavoratrice. Riproponiamo il metodo ‘argentino’ dell’autogestione e se necessario della riconversione a produzioni socialmente utili. Contro la disoccupazione dilagante non ci si può rassegnare. Pur senza negare la rivendicazione di un salario garantito per i senza lavoro, non possiamo farci mettere fuori gioco, soprattutto avallare un modello di sviluppo in cui c’è chi è costretto ad ammazzarsi di fatica da una parte e dall’altra un esercito di riserva senza lavoro. Rivendichiamo con la lotta un lavoro necessario e socialmente utile, costringendo padroni e istituzioni a farsene carico”.
È più che mai di attualità quanto scriveva Louise Michel in un suo documento scritto alla fine del 1889, in occasione del centenario della Rivoluzione Francese, dal titolo significativo “Presa di possesso” – in una situazione che ha delle analogie con quella attuale – ispirandosi ai principi del sindacalismo rivoluzionario: “Questa situazione non potrà durare una volta iniziata, tutto il proletariato vi si ritrova con le spalle al muro. Esso diventa più numeroso, i piccoli commercianti, e addirittura qualcuno dei grossi, rovinati dalle grandi aziende; i piccoli impiegati, un numero incalcolabile di quelli che celano la propria miseria trascinandosi alla ricerca di un impiego, sempre in fuga dagli abiti logori; tutte queste vite, tutte queste intelligenze che non ne vogliono sapere di morire, si metteranno in sciopero generale. L’energia della disperazione non è mai sconfitta.” (…) ”diventerà uno sciopero generale e sarà senza risorse, senza casse di sostegno, nulla, perché il beneficio non è mai stato dalla parte dei lavoratori – dovremo considerare quindi come bottino di guerra il cibo, i vestiti, il riparo indispensabile per vivere.”
Enrico Moroni