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La pipì di Dio

La pipì di Dio

Ho comprato al buio “F#A#∞” – il loro primo album nel 1998 – spinto all’acquisto da alcuni compagni solitamente ben informati che me li avevano descritti come “un gruppo anarchico” canadese. Non li avevo mai sentiti ed era stata quella definizione ad avermi incuriosito: nel 1998 avevo quarantun’anni, mi ritrovavo in spalla un carico di famiglia e di brutti pensieri che si era venuto a sostituire al mio mondo precedente fatto per buona parte di concerti viaggi e autoproduzioni e cazzeggi. Insomma avevo cambiato vita e nell’inciampare in un disco di “un gruppo anarchico” mi sorprendeva piacevolmente ci fosse ancora in giro qualcuno che continuasse a mandare avanti quelle belle vecchie cose anarcopunk di una volta, che anch’io avevo in qualche modo vissuto, sostenuto ed amato nella mia vita precedente.

Ho comprato il disco prevedendo che dai solchi saltasse fuori tutt’altra cosa tipo che so dei D.o.A. più giovani, scoprendo ben presto che mi ero sbagliato. Anzi no. Anzi sì. All’impatto del primo ascolto, anzi dei primi ripetuti ascolti, i Godspeed You! Black Emperor mi avevano davvero disorientato. Non mi sembravano affatto “un gruppo anarchico”, perché ero rimasto inchiodato appunto a quella versione anni Ottanta che mi abitava in testa. Nel pensare a un disco di “un gruppo anarchico” ero abituato a suoni organizzati in maniera completamente diversa ed a diverse strategie di comunicazione – mi riferisco in particolare ai testi delle canzoni e alle copertine dei dischi.

Le canzoni, intanto, che dentro a quel disco non c’erano e che nemmeno ho trovato nei dischi successivi – canzoni nel senso di composizioni musicali più o meno melodiche e ritmiche disposte tutt’intorno a delle parole cantate. Al loro posto dei monoliti nebbiosi in uscita tentacolare e insidiosa dagli altoparlanti che ho fatto fatica a dosare a basso volume, roba senza un preciso inizio né una precisa fine collocata fisicamente tra il bordo del disco e un’etichetta interna, strati sopra strati di rumore e suono anzi meglio un alternarsi di ansia e speranza, di luce e buio pesto tradotti in onde sonore. Sembrava Stravinsky, altro che i D.o.A.: musica dal potere magnetico e suggestivo, che allora mi ha spiazzato ed emozionato profondamente. Non solo: musica che ancora oggi mi agita e mi trasmette un fortissimo senso di appartenenza.

Da allora il gruppo ha pubblicato una decina di album, tutti grossomodo simili come impatto e consistenza eppure diversissimi fra loro, tutti decisamente spinti verso la zona rossa nella scala della difficoltà all’approccio eppure tutti da correre a riascoltare daccapo subito appena terminano, opere stilisticamente distanti da qualsiasi altra cosa rock sia successa. Formazione elastica e multipla e variabile tre chitarre due bassi due batterie più archi ed altro ancora, tutti occupati a creare strati di tensione stupore meraviglia incanto suggestione lo so mi ripeto ma quando ascolto i Godspeed mi tremano le mani e faccio fatica a trovare le parole.

Col tempo, e grazie ad alcuni incontri ravvicinati successivi nel corso di loro concerti italiani, mi sono accorto che su grande parte delle mie speranze non mi ero sbagliato: c’è parecchio ragionamento che tiene in piedi le loro opere, oltre che parecchia anarchia immaginata e praticata e condivisibile, addirittura nonostante un oceano e quasi un’ondata generazionale di mezzo ci ritrovo dentro frammenti di me stesso nelle mie versioni di ventenne e delle mie decadi successive.
Il gruppo si è sempre mosso rivendicando ferocemente la propria indipendenza, il loro un chiamarsi fuori dal sistema totale e radicale – i Godspeed stampano da sé i propri lavori e li diffondono a un prezzo accessibile, gestiscono in proprio tutta la loro attività dalle registrazioni ai concerti alla distribuzione dei dischi, sono molto attenti a scegliersi i palchi e ritrosi, a dir poco, nel concedersi alla stampa. Un atteggiamento che chi ha la memoria lunga per certi versi troverà accostabile a quello di certo anarcopunk europeo più intransigente: tracce evidenti se ne possono ritrovare anche nella vena polemica di alcune uscite scritte del gruppo, nonché nelle scelte grafiche delle copertine – a titolo di esempio, sul retro di “Yanqui UXO” campeggia lo schema di relazioni che connettono l’industria bellica all’industria dello spettacolo, giusto per non dimenticare che i padroni della musica sono gli stessi delle fabbriche di bombe e fucili.
Per annunciare l’uscita del loro nuovo album “G_d’s pee at state’s end”, in uscita ad aprile 2021, hanno organizzato un concerto in streaming audiovisivo: le telecamere ovviamente non erano puntate sui musicisti ma indietro, al fondo del palco, sul lavoro cinematografico di Karl Lemieux e Philippe Leonard che accompagna abitualmente le loro performance (vengono proiettati in tempo reale degli spezzoni di pellicola – un po’ come facevano i Crass con i loro frenetici montaggi video, giusto per ritornare al discorso di prima su certe analogie strategiche delle band anarchiche). Un monumento sonoro in un cinema deserto: un’esperienza profonda, più che un concerto via internet di quelli soliti. A proposito del disco ho solo qualche commento veloce: è musica che mi trivella in profondità, mi turba e mi lascia segni addosso, musica di cui faccio fatica a fare senza. Ho fame di ascoltarli dal vivo.
Svuotare le prigioni. Togliere il potere alla polizia ed affidarlo ai territori che essa terrorizza. Cessare le guerre eterne e tutte le altre forme d’imperialismo. Tassare i ricchi fino a impoverirli – per queste ultime tre righe sto traducendo dalle note di copertina. Se non li conoscete, cercateli.

Marco Pandin

Per contatti: stella_nera@tin.it

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