La memoria dei tre giorni contro il G8 del 2001 a Genova fugge al rischio della ritualità e della celebrazione perché non è mai stata una memoria condivisa e, quindi, pacificata. In quegli anni come anarchic* ci sentivamo parte di un movimento di contestazione globale che alludeva alla possibilità di rinascita di un’internazionale delle lotte, che mettesse in difficoltà non solo i governi ma la stessa governance transnazionale che proprio allora stava consolidando strumenti e trattati. Dal WTO agli accordi sulla proprietà intellettuale, che rendevano commerciabile e brevettabile anche il vivente, la globalizzazione all’alba del terzo millennio andava oltre le relazioni mercantiliste dell’era degli imperi coloniali e postcoloniali, investendo il cuore del nord, ricco e predatore.
Allora parlavamo di globalizzazione dell’economia. Dopo vent’anni sappiamo che il processo che tentavamo di contrastare era la globalizzazione della povertà e dello sfruttamento. Una dinamica che si dispiega oggi in tutta la sua potenza.
Depredare e distruggere, senza alcuna tensione al futuro, senza alcun senso del limite è il segno distintivo della logica del dominio e degli affari che si è imposta ovunque. La violenza che investì i movimenti No Global diventa interpretabile solo con la cartina di tornasole rappresentata da movimenti, che, proprio perché sviluppati su scala planetaria, facevano paura ai signori della Terra.
Nel luglio del 2001 quei movimenti avevano sfiorato da poco l’Italia, un paese in cui il secolo breve lambiva ancora l’alba di quello nuovo. I social forum, le reti cittadine, la spinta partecipativa dal basso nacquero poco prima di Genova. Avrebbero dovuto rappresentare un colpo di reni di un movimento che sapesse radicarsi nei territori ma furono solo la cassa di riassorbimento di relazioni e lotte che sarebbero potute nascere e svilupparsi intorno al vertice del G8 a Genova, ma ne vennero abortite. Con violenza.
Le cronache main stream di quelle giornate, preparate per mesi dai media in un crescendo di allarmismo, divennero quelle prevalenti. C’erano i buoni che non meritavano la repressione e c’erano i cattivi, infiltrati e manovrati dalla polizia. Poco importa che questa dicotomia fosse il frutto di una lettura mediatica di qualche foto il cui senso venne consapevolmente distorto. I buoni e i cattivi, le mani bianche ed i black bloc divennero l’asse portante di una narrazione, in cui le botte, le torture, l’omicidio erano i frutti di una democrazia malata, dove era considerato nevralgico il ruolo del ministro dell’interno. I fatti di Genova, dall’assassinio di Carlo Giuliani alle cariche sul lungomare sino alla Diaz e a Bolzaneto, venivano dipinti come fatti gravissimi ma correggibili, un’eccezione nella normale vita democratica.
La criminalità del potere che era emersa con potenza all’indomani della strage di piazza Fontana, contribuendo a formare una generazione consapevole che la democrazia non può essere tradita ma semmai tradisce la propria natura di sistema che tollera la critica solo quando è ineffettuale, a Genova trova un comodo alibi dietro cui celarsi. Eppure vi erano stati dei precedenti molto chiari, per chi avesse voluto leggerli: le giornate del giugno 2001 a Goteborg, quando un poliziotto piantò tre palle nella schiena di un manifestante di 19 anni che solo per fortuna sopravvisse, avevano dato un segnale che le regole di ingaggio delle polizie erano cambiate, e il marzo del 2001 quando le contestazioni al Global forum a Napoli finirono con una mattanza di polizia in piazza Plebiscito e con le torture dei fermati portati nella caserma Raniero. Un anticipo chiaro di quello che sarebbe successo a luglio. Con un’importante differenza: al governo c’erano i post comunisti.
L’alibi per la democrazia venne scritto dalle compagini della sinistra istituzionale, dell’associazionismo cattolico e non, delle reti che si illudevano bastasse un taglio delle tasse dei più ricchi per rivoluzionare il mondo.
Il Novecento, i cui assi fondanti erano ormai in crisi profonda ovunque, manteneva ancora un solido retaggio nel 2001. La consapevolezza che il mondo in cui eravamo forzati a vivere fosse intollerabile era comune a tutti ma troppi ritenevano che ci fosse un margine per le politiche riformiste, riducendo il ruolo dei movimenti a mero pungolo nei confronti delle istituzioni.
Oggi sappiamo che, al di là della facile ritualità dei numeri e degli anniversari, quel 2001 fu davvero la boa del secolo che veniva. Nel decennio successivo, nel bene e nel male, si consumerà la fine del secolo breve e l’inizio dell’epoca in cui siamo immersi.
La violenza del G8 e la guerra al terrorismo scatenata dagli Stati Uniti e dai loro alleati dopo l’11 settembre fecero evaporare la spinta intrinsecamente sovversiva dei No Global che, nel giro di pochi anni erano stati capaci di coordinarsi e agire in ogni dove in contemporanea, a volte anche al di là dei grandi vertici e della spettacolarizzazione del dissenso che li caratterizzava.
Per chi è nato dopo vale la pena ricordare che in quel luglio pochi avevano un telefono cellulare e quasi nessuno era dotato di telecamera o collegamento internet, non esistevano i social media, ma solo mailing list e la rete Indymedia.[1] Eppure ci sentivamo fortemente connessi, collegati, capaci di creare reti transnazionali.
La spettacolarizzazione del conflitto e la scommessa del radicamento
L’enorme attenzione mediatica che precedette le giornate del G8 indusse alcune componenti del movimento No Global a cercare di conquistarsi un ruolo nel grande spettacolo. In un modo o nell’altro. Le tute bianche, che credevano di poter continuare a mimare un conflitto radicale, con due spintoni e qualche metro in più concordato con la polizia, subirono una dura lezione di dottrina dello Stato. I Black Bloc vennero a Genova replicando le stesse pratiche delle mobilitazioni precedenti, ma non capirono che la situazione genovese era ben diversa, e alla fine recitarono – probabilmente senza accorgersene – il copione che gli era stato cucito addosso.
Non solo. La rivolta di strada agita da soggettività spurie come gli ultras delle curve o i ragazzi dei vicoli genovesi a cavallo di vespe e motorini diede un altro volto ad una rivolta di piazza rispetto alle azioni del Black Bloc, radicali ma simbolicamente mirate ai simboli e ai luoghi del lusso e del potere. Gli autonomi provarono senza successo a togliere il palcoscenico alle tute bianche e vennero colti alla sprovvista dalla radicalità del Black Bloc. Il blocco rosa imparò a proprie spese che la nonviolenza funziona solo se dall’altra parte c’e un avversario, perché quando l’avversario si rivela un nemico, non c’è spazio per la disobbedienza civile.
La vasta galassia dell’associazionismo pacifista e neo-riformista della “società civile” ricevette una dura lezione a suon di manganellate su cosa sia la democrazia reale ma non imparò nulla da questa esperienza, continuando negli anni a venire a parlare di democrazia tradita.
Gli anarchici contro il G8, cui facevano riferimento buona parte degli anarchici e delle anarchiche di lingua italiana che scelsero di andare a Genova, fecero una scelta diversa. Decidemmo di fuggire il circo mediatico, le dichiarazioni roboanti, la sfida alla zona rossa, dove si riunivano i capi di Stato del G8. Scegliemmo Sampierdarena, la Genova proletaria, quella delle grandi lotte operaie, molto distante sia fisicamente sia simbolicamente dalle recinzioni della zona rossa.
Puntammo sullo sciopero generale, costruendo faticose alleanze con settori del sindacalismo di base ed autogestionario, creammo comitati di sciopero in diverse città, che diedero vita ad assemblee territoriali. Puntavamo sulla radicalità degli obiettivi e sul radicamento sociale. Sul numero di Umanità Nova che venne diffuso a Genova scrivevamo:
“Le manifestazioni internazionali, come quella odierna di Genova, sono state e saranno importanti perché riescono a di mettere in luce il carattere distruttivo, violento, irriformabile dei vari organismi sovranazionali, ma non possono rappresentare il punto centrale di un percorso che deve, necessariamente, svilupparsi altrove. La forza di questo movimento è nella capacità di coniugare radicalità e radicamento, agire e pensare localmente ed agire e pensare globalmente e non deve inaridirsi nella mera contestazione dei vertici dei potenti. Altrimenti si rischia di diventare una sorta di “tour operator” della contro globalizzazione, specializzati in viaggi in paesi esotici. Una specie di Camel trophy della sovversione, con tanto di emozioni già programmate. O, peggio, di fare da sponda di movimento ad un’esangue sinistra istituzionale a caccia di poltrone e di volti nuovi. Al Genoa Social Forum hanno preso parte politicanti di ogni risma bisognosi di legittimazione. (…)
Questo è un mondo che corre, corre sempre più in fretta, ed altrettanto in fretta macina esperienze, percorsi ed anche i movimenti sociali che non sanno sottrarsi allo spettacolo, alla logica folle che, mimando insensatamente le regole imposte dal marketing, consuma rapidamente, rendendola improvvisamente desueta, persino la capacità di critica, oltrepassamento, negazione dell’istituito. È una trappola da schivare, spiazzando l’avversario, moltiplicando la propria capacità di dissodare terreni nuovi, zone autonome, spazi liberi. Per superare le numerose empasse in cui rischia di bloccarsi occorre che il movimento sappia spargersi sul territorio come polvere, costruendo rapporti conflittuali che si alimentino della capacità di costruzione intenzionale di mondi altri, di relazioni altre, di vite altre. Ogni giorno, ovunque. La tensione ad un’azione radicale che sappia trarre linfa da un radicamento profondo, da una progettualità capace di innervare profondamente il presente, può essere il segno di un movimento rivoluzionario capace di costruire il proprio futuro nell’oggi. Come anarchici abbiamo cominciato, non senza difficoltà, a muoverci in questa direzione, l’unica capace di raccogliere le istanze più feconde di questi movimenti. Ma si può e si deve fare di più.”
Vent’anni dopo, pensiamo che quelle parole siano più attuali che mai. La storia di questi due decenni ha infatti reso chiaro che, solo dove sono nati movimenti ampi che sono riusciti a coniugare una forte presenza territoriale con il metodo dell’azione diretta di massa (e non quindi solo delle minoranze di militanti), governi e padroni hanno avuto paura. In questo senso l’esempio del movimento No Tav in Val di Susa, senza volerne fare un mito, è paradigmatico.
La scelta di provare ad essere radicali e radicati è quindi per noi il lascito principale di quei giorni di luglio, una scommessa che si rinnova ogni giorno nelle lotte che promuoviamo ed attraversiamo. Un’azione costante di sottrazione conflittuale dall’istituito che si coniuga con la pratica dell’autogestione e della lotta quotidiana.
La strada è ancora in salita. Il movimento No Global perse la sua partita quell’estate. Da allora i movimenti sociali solo occasionalmente, a livello locale, sono riusciti a impensierire i potenti della Terra. Le ragioni di allora sono oggi però ancora più forti.
FD & MM
NOTE
[1] vedi gli articoli “Indymedia Italia” del 23 giugno 2020 umanitanova.org/?p=12381 e “20 anni di indymedia” del 10 dicembre 2019 umanitanova.org/?p=11207
Qui una diretta su Radio Black out.
Qui la ristampa dello speciale di Umanità Nova del 5 agosto 2001, Le tre giornate di genova.
Qui per scaricare la ristampa in formato PDF.