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Verso i punti di non ritorno?

Verso i punti di non ritorno?

Ogni conferenza delle Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (COP) è preceduta da un incontro preparatorio che si tiene qualche settimana prima ed è per questo chiamato Pre-COP. L’Italia ha ospitato l’evento presso il Centro Congressi di Milano, MiCO, dal 30 settembre al 2 ottobre 2021.

La Pre-COP riunisce i ministri di una cinquantina di paesi, i rappresentanti del Segretariato dell’UNFCCC, i presidenti degli Organi Sussidiari della Convenzione e una serie di “attori” della società civile impegnati nelle questioni legate al cambiamento climatico e alla transizione verso lo sviluppo sostenibile. I convenuti, in questo contesto, hanno discusso di quei temi negoziali che sono considerati punti chiave da affrontare nella COP vera e propria che si terrà a Glasgow, dove proporranno agli altri stati il documento sottoscritto.

Il Ministero della Transizione Ecologica italiano ha deciso di ospitare una serie di eventi a latere chiamati All4Climate che si sono svolti nell’ambito dell’evento Youth4Climate che, per la prima volta, ha radunato 400 giovani delegati provenienti da molti paesi del mondo per partecipare al dibattito sul clima. Un’iniziativa istituzionale, una furba operazione di facciata. Se n’è accorta anche Greta Thunberg che lo ha sottolineato in un passaggio del suo discorso che sarà ricordato come del “bla, bla, bla”.

Certamente “fa bello” dare spazio ai giovani in un contesto ufficiale, quei giovani che rappresentano una nutrita componente delle proteste dei movimenti ambientalisti impegnati da anni a denunciare la necessità dell’azione di contrasto ai cambiamenti climatici e l’inefficacia dei trattati firmati dai governi che si sono succeduti nell’arco di un trentennio. Utile sempre ricordare che l’avvio degli incontri internazionali si ebbe con la Conferenza sull’Ambiente e lo Sviluppo organizzata dall’ONU a Rio nel 1992, cui seguì la prima COP a Berlino nel 1995 e poi tutte le altre. Tra le più famose, quelle di Kyoto del 1997 dove si definì il famoso “protocollo” e quella di Parigi 2015 “madre” di quegli accordi che, dopo essere stati celebrati come una svolta fondamentale nella lotta al riscaldamento globale, ancora non sono stati tradotti in azioni concrete.

A Glasgow (COP 26) si dovrebbe, infatti, definire come i singoli stati applicheranno il cosiddetto “Libro delle Regole” approvato alla COP24 di Katowice del 2018. Intanto gli anni passano e la situazione peggiora. Non ho mai creduto che attraverso queste conferenze internazionali si potesse giungere a significativi passi in avanti ma un punto a favore lo possiamo riconoscere, se non altro perché i centri di ricerca che partecipano alla stesura dei report dell’IPCC hanno raccolto una grande quantità di dati, affinato i metodi di analisi e migliorato i modelli predittivi permettendo una migliore comprensione dell’influenza umana sull’ampio spettro delle variabili climatiche, compresi i fenomeni meteo estremi.

La situazione attuale

Secondo quanto ricavato dal sesto report dell’IPCC:

  • Gli aumenti osservati nelle concentrazioni di gas serra (GHG= Green House Gases) dal 1750 circa sono inequivocabilmente causati da attività umane. Dal 2011 le concentrazioni in atmosfera hanno continuato ad aumentare, raggiungendo nel 2019 medie annuali di 410 ppm per l’anidride carbonica (CO2), 1.866 ppb per il metano (CH4), e 332 ppb per il protossido di azoto (N2O). Per inciso, come termine di paragone la presenza di CO2 nel 1750 ammontava a 278 ppm.

  • La temperatura superficiale globale è stata più alta di 1,09°C nel periodo 2011-2020 rispetto al periodo 1850-1900, con aumenti maggiori sulla terraferma (1,59°C) rispetto all’oceano (0,88°C).

  • Le precipitazioni globali medie sulla terraferma sono aumentate dal 1950 e più rapidamente a partire dagli anni ’80 contribuendo al cambiamento della salinità dell’oceano superficiale.

  • Le attività umane hanno contribuito alla diminuzione della copertura nevosa primaverile dell’emisfero settentrionale dal 1950 ed alla fusione superficiale della calotta glaciale della Groenlandia negli ultimi due decenni, oltre che al ritiro dei ghiacciai a livello globale dagli anni ’90.

  • Lo strato superficiale dell’oceano (0-700 m) si è riscaldato a partire dagli anni ’70 e le emissioni di CO2 causate dall’uomo sono la causa dell’attuale acidificazione globale dell’oceano superficiale.

  • Il riscaldamento del sistema climatico ha causato l’aumento del livello medio del mare, su scala globale, attraverso la perdita di ghiaccio terrestre e l’espansione termica dovuta al riscaldamento degli oceani. Il livello medio del mare globale è aumentato di 0,20 m tra il 1901 e il 2018 con un tasso medio di innalzamento che, recentemente, ha raggiunto i 3,7 mm per anno.

  • Le zone climatiche si sono spostate verso i poli in entrambi gli emisferi ed il periodo vegetativo si è allungato, in media, fino a due giorni per decennio dagli anni ’50 alle medie latitudini.

La portata dei recenti cambiamenti nel sistema climatico è senza precedenti. Le concentrazioni atmosferiche di CO2, nel 2019, erano le più alte degli ultimi 2 milioni di anni e le concentrazioni di CH4 e N2O erano le più alte degli ultimi 800.000 anni.

Alcuni fenomeni estremi si susseguono in numero sempre maggiore. In particolare, le ondate di calore sia terrestri che marine sono raddoppiate dagli anni ’80. In alcune regioni, è aumentata la siccità agricola ed ecologica per via dell’aumento dell’evapotraspirazione dei terreni, mentre le precipitazioni monsoniche terrestri hanno un andamento sempre più irregolare.

La tendenza globale vede un aumento dei forti cicloni tropicali (categoria 3-5) negli ultimi quattro decenni, con un picco d’intensità nel Pacifico settentrionale occidentale che si è spostato verso nord.

Si prevede che un ulteriore riscaldamento amplificherà la fusione del permafrost, la perdita della copertura nevosa stagionale, del ghiaccio terrestre e del ghiaccio marino artico. È probabile che l’Artico sarà, almeno una volta nella stagione più calda, praticamente privo di ghiaccio marino prima del 2050, con episodi via via più frequenti per livelli di riscaldamento più elevati.

È atteso che la temperatura superficiale globale continuerà ad aumentare almeno fino alla metà del secolo in tutti gli scenari di emissioni considerati (sono ipotizzati 5 scenari differenti a seconda dell’entità dell’aumento medio delle temperature). Il riscaldamento globale di 1,5°C e 2°C sarà superato durante il corso del XXI secolo salvo che non occorrano nei prossimi decenni profonde riduzioni delle emissioni di CO2 e di altri gas serra.

Uno sguardo nel futuro: i punti di non ritorno

Il rischio di scatenare cambiamenti irreversibili è stato sottovalutato? Anche se si parla genericamente di riscaldamento globale il fenomeno della variazione climatica si declina in forma più complessa di quanto si possa prevedere esaminando i singoli fattori, perché in alcuni casi si può generare una sorta di effetto domino. Infatti, se da un lato si assiste all’aumento delle inondazioni, dall’altro si estendono le aree aride e gli incendi trasformano le foreste, naturali serbatoi di CO2, in ulteriori fonti di gas serra.

Il pericolo, perciò, non consiste solo nel progressivo alterarsi dei singoli parametri; gli studi più recenti hanno individuato i cosiddetti Punti di Non Ritorno (Tipping Points) che costituiscono delle soglie oltre le quali il peggioramento di un singolo fattore potrebbe determinare conseguenze molto più gravi di quelle fino ad ora ipotizzate.

Il paragone può essere quello di una fune composta dall’intreccio di più fili che regge una certa massa. Sottoposti a una continua sollecitazione, alcuni di questi fili si usurano e poi si spezzano, la fune nel suo complesso continua però a reggere il corpo: ciò non toglie che si possa arrivare ad un punto in cui è sufficiente che si verifichi il cedimento di un solo filo per far spezzare improvvisamente tutti gli altri – a quel punto il corpo ad essa vincolato sarà in caduta libera senza possibilità di ritornare all’equilibrio precedente. Ma cosa sono i punti di non ritorno? Quelli considerati già attivi riguardano:

1) Il ghiaccio marino artico

2) La calotta glaciale della Groenlandia

3) Le foreste boreali

4) Il permafrost

5) L’AMOC o Capovolgimento Meridionale della Circolazione Atlantica

6) La foresta pluviale amazzonica

7) La barriera corallina

8) La copertura di ghiaccio antartica occidentale

9) Parti dell’Antartide orientale.

La perdita di banchisa artica durante le estati degli ultimi 40 anni, ad esempio, ha portato a una maggior quantità di acque che assorbono calore e a una diminuzione del 40% del ghiaccio che è, invece, in grado di rifletterlo. Il che amplifica il riscaldamento a livello regionale nell’Artico e porta a un’ulteriore perdita di permafrost, con conseguente rilascio di anidride carbonica e metano in atmosfera, contribuendo all’incremento dei gas serra in atmosfera e a un ulteriore riscaldamento (retroazione positiva).

Parallelamente, il riscaldamento dell’Artico che, insieme alla fusione dei ghiacci della Groenlandia, sta portando acqua dolce nell’Atlantico del Nord potrebbe aver contribuito al recente rallentamento (circa il 15%) del Capovolgimento Meridionale della Circolazione Atlantica (AMOC). Queste correnti spostano il calore dai tropici e giocano un ruolo importante nelle temperature dell’emisfero settentrionale.

Sebbene non sia facile prevedere lo sviluppo dei punti di non ritorno e l’interazione tra di essi “se dovessero verificarsi stravolgimenti a cascata, non è possibile escludere un tipping point globale”: in questo caso nessuna analisi costi-benefici avrebbe più senso, neppure per gli strateghi del sistema capitalista.

Non è un problema del pianeta ma delle società umane

Cambiamenti su scala locale possono quindi determinare riflessi su scala globale ma il pianeta Terra per qualche miliardo di anni continuerà comunque a esistere: quello che si deve considerare è che nuovi equilibri ambientali, provocano direttamente o indirettamente conseguenze a livello sociale ed economico.

In un rapporto delle Nazioni Unite di qualche anno fa si leggeva che Stati Uniti, Cina, Russia, Arabia Saudita, India, Canada, Australia e altri pianificavano di aumentare la produzione di combustibili fossili del 120% entro il 2030. Cioè, gli stessi governi che firmavano gli accordi di Parigi (attualmente USA ancora fuori), con l’impegno a non superare l’aumento di 1,5 °C a beneficio dell’opinione pubblica, appena “girato l’angolo” pianificavano programmi di sviluppo indirizzati in senso opposto sempre più preoccupati della crescita economica a tutela dei margini di profitto.

Quello cui stiamo assistendo, osservato da un punto di vista politico-economico, è l’ennesimo tentativo del sistema prevalente di sfuggire alle proprie responsabilità, alle proprie contraddizioni. Il tentativo, già ben avviato, utilizza la cortina di “fumo verde” per riciclare i capitali investiti nell’economia dei combustibili fossili verso quella che genericamente possiamo definire economia green. La transizione ecologica è, prima di tutto, quella di capitali che si spostano da un settore maturo dell’economia a uno in crescita che solo indirettamente determinerà una ricaduta sull’ambiente ecologicamente inteso. Per non essere traumatico questo passaggio ha bisogno di tempo, soprattutto perché i potentati legati all’energia fossile esercitano un’ovvia resistenza tentando di prolungare la transizione oltre i suoi limiti fisiologici. Dall’altra parte (green economy) c’è chi scalpita per guadagnare spazi di mercato.

Non deve interessare più di tanto la competizione tra le imprese di questo sistema perché la loro prima ragione di esistenza è quella di garantirsi un profitto, per il quale sono sempre state disposte a sfruttare tanto l’uomo quanto l’ambiente senza nessuna remora etica. Certamente il prevalere degli uni o degli altri potrebbe attenuare o amplificare le problematiche ambientali ma non risolverà le questioni essenziali. Quello che abbiamo verificato fino a oggi è che questo sistema economico è stato in grado di sopravvivere alle proprie crisi scaricando sulle classi subalterne e sull’ambiente le “voci di bilancio in negativo”. Attenzione: c’è chi sta già pagando a caro prezzo le conseguenze dei cambiamenti climatici senza che si debba aspettare di arrivare al collasso planetario. L’Africa, ad esempio, rapinata di esseri umani e di risorse a partire dall’epoca del colonialismo, pur contribuendo in minima parte alle emissioni di GHG ne subisce pesantemente le conseguenze.

Rispetto al passato, però, c’è una differenza sostanziale che dobbiamo tenere in considerazione. Mentre la conflittualità con la forza lavoro o con i movimenti sociali si è giocata, di volta in volta e a seconda dei rapporti di forza, usando le carte della repressione o del riformismo, della dittatura o della democrazia, cercando di riassorbire o snaturare le spinte più radicali al cambiamento, per quanto riguarda gli equilibri ecologici del pianeta non si può agire nell’ottica del breve termine e non ci si può spingere oltre i limiti. La violenza del potere, che grazie ai governi di turno ha tante volte tolto d’impaccio i “padroni del vapore”, in quest’occasione si confronta con quelle che banalmente definiamo le “forze della natura”: insomma il pianeta troverà comunque un nuovo equilibrio senza problemi di compatibilità con questo o quel sistema economico.

Chi muove le leve nella sala di comando ha supposto di potersela comunque cavare e, nel breve termine, tale convincimento è pure plausibile, indirizzando flussi di capitali ed emanando leggi emergenziali. Per quanto scritto in precedenza però, superati i punti di non ritorno, spezzati troppi fili della fune, il rischio della caduta libera diverrà “interclassista”.

Non si tratta di definire scenari catastrofisti per diffondere la paura che sempre più spesso è usata per spingere l’umanità là dove è più facile tenerla soggiogata ma, invece, di avere consapevolezza delle possibili conseguenze che l’agire nel presente potrà avere sul futuro. Nella prospettiva di chi auspica una società fondata sulla giustizia sociale e liberata da ogni forma di sfruttamento è necessario invertire la rotta qui ed ora: questa opzione deve essere chiara se si vuole evitare il rischio di trovarsi a fronteggiare il “debito ecologico” alimentato dal profitto a qualunque costo.

MarTa

RIFERIMENTI

https://ipccitalia.cmcc.it/climate-change-2021-le-basi-fisico-scientifiche/

https://ipccitalia.cmcc.it/messaggi-chiave-ar6-wg1/

https://ipccitalia.cmcc.it/climate- change-2021-le-basi-fisico-scientifiche-i-cambiamenti-climatici-sono-diffusi-rapidi-e-si-stanno-intensificando/

https://ipccitalia.cmcc.it/climate-change-2021-il-rapporto-spiegato-dagli-scienziati-italiani/

https://ipccitalia.cmcc.it/cosa-e-ar6/

https://www.youtube.com/watch?v=KYsCHxPl6QQ https://www.youtube.com/watch?v=_lGGkRIpvHM https://www.youtube.com/watch?v=pM9JBsDRUgY

https://www.nature.com/articles/d41586-019-03595-0

https://www.rinnovabili.it/ambiente/punti-di-non-ritorno/

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