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Venti

Venti

Eccomi alle prese con Venti di Giorgio Canali (ed. La Tempesta Dischi, link: www.latempesta.org), il suo lavoro più recente. Si può spiegare in fretta il titolo del disco, perché sono venti le canzoni e (duemila e) venti l’anno in cui le ha registrate e – a dicembre – pubblicate. La fretta invece non aiuta nel mettersi ad ascoltarle, e che ci si appresti ad un ascolto non facile è cosa a cui l’autore ha ruvidamente addomesticato chi lo segue per le sue strade di sassi in salita.

Trovo che questo nuovo disco tenda a discostarsi da quanto di Canali già si è visto sentito e discusso: forse un ciclo di canzoni meno immediato e più ragionato ma non per questo meno d’assalto. Penso che nel realizzarlo ci si sia dovuti adattare alle circostanze – la pandemia in questo caso potrebbe aver portato a una rivalutazione della lentezza, a un prolungarsi dell’introspezione e della stratificazione dei pensieri, cosa che oltre alla costrizione a lavorare a distanza senza contatto fisico e di aura fra i musicisti si percepisce in sottofondo. Con Giorgio i Rossofuoco di sempre – irruenti, pestoni ed incendiari ma con quelle loro spine strette intorno al cuore.

Tira aria strana e movimentata qui dentro: dal primo ascolto si innesca una specie di gioco in forma di tela di ragno, così che ci si ritrova a godere nel farsi prendere all’amo da ciascuna frase, che sembra buttata lì ma dev’essere costata malessere quando non disperazione, dolore che ci schizza addosso al di qua degli altoparlanti, e macchia, e contagia. Ogni tanto ci si ritrova con un pezzetto di musica o di strofa che rimane dentro in testa e non trova buchi da cui uscire.

Giorgio Canali, dunque, lui ed io siamo quasi coetanei. Ci si è incontrati il millennio scorso a Venezia al Meeting Internazionale Anarchico del 1984, abbiamo fatto amicizia e un po’ di cose insieme, poi ci si è persi e ritrovati – la vita, si sa, prende direzioni strane. Una delle cose che mi hanno colpito e che mi piacciono di Giorgio è la gente che va ad assistere ai suoi concerti: ci sono parecchie ragazze e ragazzi giovani – sanno tutti i testi a memoria e cantano con lo sguardo dritto come se non ci fosse un domani, faccia seria tirando fuori il fiato dall’anima oltre che dai polmoni, sputando fuori dalla gola col grido i desideri morti piccoli e le speranze frantumate. Vanno ad ascoltare uno che gli racconta le cose come anche loro le vedono: senza filtro, senza fari. Strana ‘sta cosa: Canali è uno che se ci si pensa ha grossomodo l’età anagrafica dei genitori, gente con cui magari si parla poco o niente e con cui di solito ci si ritrova a scontrarsi per conquistare il proprio futuro centimetro dopo centimetro di libertà e indipendenza. Hanno ragione i ragazzi a lottare, a conquistare il diritto a scriversi il futuro, a sentirsi spaesati in questo mondo di nebbia e miseria.

Torniamo al disco: vi dicevo, anzi volevo dirvelo prima, che dentro ci sono io. Io adesso, io ieri, io a vent’anni, io triste a un funerale, io che mi cago addosso agitatissimo a sfondare con gli autoriduttori, io partito in guerra per un amore finito male, io in lockdown a litigare con me stesso per non attaccarmi alla bottiglia, io ammazzato per strada. Ogni canzone è un sasso scagliato contro quegli altri durante una manifestazione, è una mela e una birra e una canna condivise in povertà seduti su un muretto fregandosene di tutto e di tutti, è una fuga col cuore in gola dopo aver spaccato una vetrina, è un volantino ciclostilato la notte prima ma che ancora ti sporca le dita dato via davanti a scuola, è una fanzine o una cassetta copiata dentro cui a vent’anni abbiamo strizzato tutto l’amore e il disastro emotivo di cui eravamo capaci.

Ogni canzone è una notte passata in spiaggia a guardare la luna aspettando l’alba. Ogni canzone è una bottiglia di whiskey bevuta a canna o di grappa rubata al supermercato ma va bene qualsiasi superalcolico anche sottomarche anche discount anche roba di merda. Ogni canzone è una bastonata, è una rissa con gente che neanche conosci, è un casino in cui ti ritrovi in mezzo, è un pugno che dai e un pugno che ti arriva addosso. Ogni canzone è una manganellata restituita, un lacrimogeno che vola all’indietro, una pallottola che ritorna al mittente.

Eccomi dentro a “Eravamo noi”, quello sono io quando strofa dopo strofa ho venti trenta quaranta cinquanta sessant’anni senza davvero rendermi conto di questo peso che mi sforma le spalle e il respiro. Io che dentro in testa da qualche parte ho ancora e sempre vent’anni, io lì perso senza capire perché provo una pena enorme e distanze stellari per i miei coetanei. Dentro ciascuna delle altre canzoni che seguono c’è sul serio un pezzo di me, un pezzo che si dimena e non si rassegna, come se avessi contribuito con le mie lacrime e coi denti a scriverne una riga, o anche solo una parola rimasta incastrata a sanguinare, sporca.

Marco Pandin

Per contatti stella_nera@tin.it

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