PROLOGO
Quando riceviamo notizie della resistenza kurda a Kobane e negli altri due cantoni autonomi nella regione del Rojava, in un angolo della memoria e della coscienza esse ci riportano alla guerra ed alla rivoluzione spagnola. Le comuni egualitarie dell’Aragona, le dignitose barricate e l’autogestione a Barcellona, il grido di Buenaventura Durruti nella difesa di Madrid: “Portiamo dentro di noi un mondo nuovo; e quel mondo sta crescendo in questo stesso istante”.
Ritrovo varie similitudini, che sono il nucleo di molti processi di cambiamento: il popolo in armi, organizzato in battaglioni popolari; il ruolo di spicco delle donne in tutti gli ambiti e a tutti i livelli dell’azione collettiva; l’autogoverno con ampia partecipazione; il fatto che questi cambiamenti emergano durante una guerra, ovvero in una situazione estremamente critica per la sopravvivenza.
Verso luglio-agosto del 2012 nel Rojava, la regione a fianco della Turchia, il regime siriano crolla quando la primavera araba iniziata nel 2011 è duramente repressa dal governo di Bachar al Assad, originando un conflitto interno con appoggi regionali e globali. Le grandi potenze sostengono diversi gruppi armati (generalmente integrati da mercenari) che combattono contro il regime siriano, appoggiato a sua volta da altre potenze, come l’Iran.
Il popolo kurdo è la più grande nazione del mondo senza stato. I quasi 40 milioni di kurdi vivono in quattro paesi: Siria, Irak, Iran e Turchia. Occupano un’area di circa 400.000 chilometri quadrati: quasi la metà di quest’area è nel Kurdistan turco per circa quindici milioni di abitanti, 125.000 chilometri quadrati sono in Iran per tredici milioni di abitanti, 60.000 chilometri quadrati si trovano in Iraq per otto milioni di abitanti e circa 12.000 chilometri quadrati in Siria con più di due milioni di abitanti.
I kurdi furono vittime delle potenze coloniali che all’inizio del XX secolo firmarono un accordo segreto per dividersi l’Impero Ottomano. Il 16 maggio 1916, nella fase finale della Prima Guerra Mondiale, sir Mark Sykes come rappresentante della Gran Bretagna e Françoise Georges-Picot come rappresentante della Francia, si accordarono sulla divisione del Medio Oriente una volta terminata la guerra. Ciò che oggi è Siria, Libano e il sud della Turchia restarono sotto il dominio francese, mentre quello che ora è Giordania e Iraq fu affidato alla tutela britannica.
Nello stesso periodo, si emanò il 2 novembre 1917 la Dichiarazione di Balfour nella quale il Regno Unito decideva di sostenere la creazione di “un territorio nazionale ebreo” in Palestina. Si trattò di una lettera del Ministro degli esteri britannico, Arthur Balfour, al banchiere Lionel Walter Rothschild, un leader della comunità ebrea in Gran Bretagna, allo scopo di ottenere l’appoggio della Federazione Sionista di Regno Unito e Irlanda. Fino ad oggi le vecchie potenze, alle quali si unirono dopo il 1945 gli Stati Uniti e, in minor misura, l’Unione Sovietica, svolgono un ruolo dominante nel Medio Oriente dove hanno la precedenza per intervenire nelle loro antiche colonie.
Anche se l’accordo Sykes-Picot fallì per quanto riguarda la sua applicazione in Turchia, dove Kemal Atatürk guidò la guerra d’indipendenza, il resto del trattato si applicò nella forma prevista dagli imperi coloniali, assicurò il dominio francese e britannico, ma procurò altresì le condizioni degli attuali conflitti. Lo stato kemalista proibì l’uso del vocabolo Kurdistan e della sua lingua. I kurdi si dispersero in tutta la Turchia perché la loro terra fu espropriata attraverso il “Trattato di Residenza Forzata” del 1930. Il popolo kurdo fu considerato da Ankara come “turchi di montagna”, ossia turchi con tratti particolari dati dal loro habitat montuoso.
Nel nord della Siria, durante la guerra civile scoppiata nel 2011, si formarono le milizie armate dette Unità di Protezione del Popolo (YPG), sotto il comando del Comitato Supremo Kurdo per controllare le zone abitate dai kurdi. Nel luglio 2012, le YPG conquistarono la città di Kobane e una decina di altre città dove il Partito dell’Unione Democratica (PYD) e il Consiglio Nazionale Kurdo (KNC) diedero avvio ad un’amministrazione congiunta. Solo due città importanti a maggioranza kurda, Hasaka e Qamishli, continuarono ad essere controllate dal governo di Damasco.
Alcuni mesi dopo, nel gennaio del 2013, i cantoni di Jazira, Kobane e Efrin proclamano la loro autonomia. Si tratta di tre piccole unità territoriali alla frontiera con la Turchia, in totale alcune decine di migliaia di abitanti, dove convivono diversi gruppi etnici e religiosi, circondati dall’esercito turco e dallo Stato Islamico. Sono tre enclave non contigue, separate da centinaia di chilometri e da migliaia di uomini armati che vogliono distruggerle.
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I movimenti ed i partiti di sinistra in Turchia nacquero negli anni Settanta in risposta ai crimini dello Stato turco contro le sue trenta nazionalità. I turchi infatti sono una minoranza in Turchia: un paese di settanta milioni di abitanti di cui circa quindici milioni di kurdi oltre a siriani, greci, armeni, gitani… Ma la sinistra ancora non aveva una risposta per queste “minoranze”.
Nel 1978, si fonda il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), di orientamento marxista-leninista, con l’obiettivo di formare un Kurdistan indipendente. La lotta del popolo kurdo stava crescendo dal 1973 e la formazione del Partito fu la conseguenza di questo lungo processo di autoaffermazione delle comunità del Kurdistan. Il colpo di stato del 1980 ad Ankara (con l’appoggio della NATO e degli Stati Uniti, suo alleato strategico che dispone di varie basi militari contro la Russia) si proponeva di frenare questo processo, di reprimere sia i kurdi sia le altre “minoranze”, così come di attaccare la sinistra e i nuovi movimenti.
La maggioranza dei dirigenti del PKK si rifugiarono nei campi palestinesi in Libano, nella valle della Bekaa, stringendo alleanze con il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina diretto da George Habash. Qui ricevettero addestramento militare e parteciparono alla lotta del popolo palestinese nella quale rimasero vittime più di trecento militanti kurdi, che furono uccisi o incarcerati.
Nel 1984, il PKK lanciò la lotta armata in Kurdistan perché considerava che sotto la dittatura non ci fosse altra forma possibile di azione. Il PKK raccoglie la lunga resistenza kurda: tra il 1920 e il 1940 ci furono ben 27 rivolte contro il potere turco. Con la sconfitta dell’insurrezione di Dersim, nel 1938, si completò l’occupazione turca del Kurdistan e iniziò un lungo periodo di assimilazione attraverso le scuole e la proibizione di usare la lingua kurda.
Durante la guerra, iniziata dal PKK, ci furono circa 5000 assassini extragiudiziali, varie migliaia di kurdi furono incarcerati e centinaia di villaggi rurali distrutti. Il partito guadagnò appoggi molto ampi, non solamente tra i kurdi, bensì anche tra gli altri popoli colpiti dal potere turco, come gli armeni.
La svolta del PKK cominciò all’inizio degli anni Novanta, quando cadde il socialismo reale. Questo fatto innescò un confronto interno sulle strade da seguire nella nuova situazione internazionale e il dibattito interno si radicalizzò nella preparazione del Sesto Congresso, che portò il PKK ad adottare nel 1998 una nuova strategia chiamata “Confederalismo Democratico”, che spinse l’organizzazione ad abbandonare il marxismo-leninismo e l’obiettivo di creare uno Stato-nazione kurdo.
Per lo Stato turco, per gli Stati Uniti e per Israele (oltre che per le burocrazie arabe dominanti) la trasformazione del PKK è una sconfitta inedita. Fino a quel momento si trattava di una guerriglia nazionalista che si scontrava con l’esercito in montagne remote, ma, a partire dall’adozione del Confederalismo Democratico, il PKK inizia ad avere un progetto assai più ampio che coinvolge molteplici attori e riflette i cambiamenti delle società nel Medio Oriente. All’inizio di questa svolta il Partito cominciò ad intrattenere relazioni con le lotte dei popoli oppressi di tutta la regione.
La proposta del Confederalismo Democratico raccoglie, da un lato, i cambiamenti demografici della popolazione kurda: sei milioni di kurdi abitano ad Istanbul, quattro sono emigrati in Europa e, perciò, buona parte dei kurdi non vivono in Kurdistan. Pertanto la lotta principale non è più nazionale, bensì sociale.
Numerosi giornalisti e militanti occidentali attribuiscono l’adozione del Confederalismo Democratico alla prigionia di Abdullah Ocalan e all’influenza del pensatore e militante statunitense Murray Bookchin, storico fondatore dell’Ecologia Sociale. Non serve dire che si tratti, in fin dei conti, di una visione colonialista. Altri ancora parlano della “svolta libertaria” del PKK. E sono moltissimi coloro che credono che sia in realtà un trucco del partito stalinista per raccogliere appoggi più ampi in Occidente.
Al contrario, la popolazione kurda, come gli indigeni latinoamericani, si costituisce attorno a comunità contadine che determinano la sua identità e la sua cultura. Ha difatti una lunga e feconda storia, che è la sua principale referenza culturale e politica. L’attuale proposta del Confederalismo Democratico è ancorata al recupero delle tradizioni della Mesopotamia perché si considera che la civilizzazione non iniziò con i greci, così come la rivoluzione francese non è il punto di partenza delle lotte per l’emancipazione.
Il nuovo orientamento del PKK provocò la furibonda reazione degli Stati Uniti e dei suoi alleati che decisero di definirlo come “terrorista” e di perseguire il suo dirigente, Abdullah Ocalan, che si trovava in Siria e che fu espulso in Russia per pressioni della Turchia. Nemmeno il governo russo lo tollerò e lo espulse verso l’Italia. Quando, allontanato anche dall’Italia, si dirigeva verso il Sudafrica, Ocalan fu sequestrato in Kenia dal Servizio segreto israeliano (Mossad) e consegnato alla Turchia. Alla fine, il presidente del PKK fu condannato alla pena di morte, poi commutata in ergastolo ed è tuttora rinchiuso da solo in un’isola nel mar di Marmara.
Il PKK costituisce un problema per l’imperialismo perché ora possiede una proposta per tutti i popoli del Medioriente. Il Confederalismo Democratico esprime quattro critiche allo Stato-nazione. La prima è che qualsiasi Stato, sia capitalista che socialista, si fonda sul dominio di una classe minoritaria sulle classi popolari. Inoltre lo Stato-nazione suppone il dominio di un gruppo etnico religioso sopra gli altri, come d’altronde succede in altra forma in tutti gli Stati. La terza questione è che tutti gli Stati si appoggiano sul patriarcato, cioè sulla dominazione degli uomini sulle donne. In quarto luogo, lo Stato ha necessità per sostenersi di una società produttivista che distrugga la madre terra. I kurdi autonomisti affermano che non si può farla finita con il capitalismo senza eliminare lo Stato e che non possiamo liberarci dello Stato senza liberarci dal patriarcato.
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Quando il conflitto tra l’opposizione e il governo di Damasco si trasformò in guerra aperta, la popolazione kurda non appoggiò nessuna delle due parti e cercò la propria strada, attraverso l’autogoverno. In quel momento scoprì che il Confederalismo Democratico era la miglior forma di convivenza in una regione dove l’80% sono kurdi ed il 20% appartiene ad altri gruppi etnici.
I tre cantoni della zona del Rojava, che si autodefiniscono delle comunità autonome democratiche – Efrin, Jazira e Kobane – sono una Confederazione di kurdi, arabi, aramaici, turcomanni, armeni e ceceni. Redassero una Costituzione, diffusa nell’ottobre del 2014, denominata Carta Costituzionale del Rojava. Il preambolo “proclama un nuovo contratto sociale, basato sulla convivenza, l’intesa reciproca e la pace tra tutti i fili della società. Protegge i diritti umani e le libertà fondamentali, riafferma il diritto dei popoli alla libera autodeterminazione”.
Le Unità di Protezione del Popolo (YPC) sono l’unica forza militare dei tre cantoni e hanno il compito di proteggere e difendere la sicurezza delle comunità autonome e delle loro popolazioni. Le YPC formarono il Movimento per una Società Democratica (Tevgera Civaka Demokratik, conosciuto con la sigla Tev-Dem), che è il vero promotore dei cambiamenti in atto. Tra questi le Unità di Protezione delle Donne (YPJ) che dispongono di 10.000 combattenti e svolgono un ruolo decisivo nella difesa del Rojava. Così come l’Asayish, una forza di polizia per il controllo delle zone autonome con circa 4.000 agenti, un quarto dei quali sono donne. Questa “polizia” non vuole essere chiamata così perché afferma di servire la società e non lo Stato.
I capi di quei corpi armati vengono eletti e, oltre l’uso delle armi e la disciplina militare, imparano la storia del Kurdistan, l’etica, la meditazione e la cultura popolare. La nuova amministrazione (quella precedente crollò nel 2012) è governata dai comuni o dai municipi sulla base di assemblee rionali aperte e settimanali, che dispongono di unità proprie di autodifesa, oltre che di consigli dedicati all’economia, all’educazione, alla salute, ai servizi pubblici, ai giovani e alle donne. Sono dotate inoltre di un consiglio al quale partecipano i delegati eletti in ogni rione.
La costruzione di questa struttura di potere fu possibile grazie al lavoro del Tev-Dem, una grande coalizione di entità tra le quali figurano partiti come il PYD (Partito dell’Unione Democratica), cooperative, gruppi di giovani e di donne, centri culturali e accademici. In base ai principi dell’autogoverno, la nuova amministrazione espropriò le terre statali (pianure dedicate alla monocultura del grano) e le consegnò alle cooperative già create che stanno tentando di diversificare la produzione di alimenti. Inoltre continuano ad estrarre un po’ di petrolio che raffinano per le necessità locali.
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La creazione di comunità autogestite avviene nel pieno della guerra, creando un certo sconcerto tra chi si interroga, come si apprende dai reportage pubblicati in Europa, sui seguenti punti: perché non iniziarono un processo così interessante in condizioni normali di pace e lo cominciano quando vengono assassinati a centinaia da guerriglieri di vario genere ed in particolare da quelli del genocida Stato Islamico?
Come succede di solito, la domanda svela il modo di pensare di chi la formula. La risposta è che non sarebbe potuto succedere in un altro momento: la storia delle rivoluzioni ci insegna proprio questo. Tutte nacquero all’interno di una guerra quando la sopravvivenza dell’umanità era a rischio, quando era necessario organizzarsi assieme ad altri e altre per dar loro una certa continuità di vita. Le rivoluzioni nascono dalla necessità, non dalle bibbie (e poco importa se quelle bibbie sono marxiste, anarchiche, cristiane o socialdemocratiche).
La rivoluzione spagnola, quella russa e quella cinese, oltre alle molte che ci sono state, cioè la creatività umana collettiva che chiamiamo rivoluzione, non sono scelte filosofiche ma frutto della necessità.
Inoltre c’è un altro dato fondamentale. Se il potere dello Stato siriano non fosse collassato nel Rojava, lasciando ampi territori rurali e urbani alla mercé dei guerriglieri dello Stato Islamico (degli eserciti turco e siriano e delle milizie che guerreggiano tra di loro per appropriarsi del petrolio), l’autogestione sarebbe stata un sogno da filosofi impegnati. Crollando lo Stato, il capitalismo e il patriarcato rimasero senza protezione alcuna. Lo Stato è il difensore armato dello sfruttamento e dell’oppressione che, senza il suo appoggio, hanno molta difficoltà a replicarsi.
Non esiste impero, non esiste quindi determinismo. I kurdi del nord della Siria non incontrarono le tesi del Confederalismo Democratico del PKK per caso. C’è una pratica precedente, molto più importante delle tesi di Ocalan, anche se queste sono di grande valore, perché ne sono ispirate. Le idee non sono ciò che cambia il mondo, bensì l’azione umana collettiva spesso pregna di frammenti di quelle idee.
Non dovremmo cadere nella trappola colonialista di credere che il testo e la parola, come quelle che imposero i coloni spagnoli in America, siano la chiave di un qualsiasi cambiamento. Al contrario di ciò che ritengono alcuni, le ideologie sono molto meno decisive dell’attività sociale collettiva. Molto prima dell’esperienza autonomista del Rojava, i militanti del PKK e quelli del Tev-Dem intrapresero un’ampia strutturazione conosciuta come Congresso della Società Democratica, dove si articolavano più di 500 organizzazioni sociali, sindacati e partiti.
Quando sopraggiungono catastrofi naturali e sociali e la routine quotidiana si spezza, le persone attingono alla memoria delle loro esperienze collettive accumulate nelle proprie vite, qualcosa che potremmo chiamare come cultura politica o modi di codificare abitudini e stili di vita. Se conoscono solamente una cultura, quella egemonizzante, gerarchica, patriarcale, golpista, statal/capitalista, non potranno mai uscire dall’eteronomia. Se invece hanno mantenuto vive le proprie tradizioni comunitarie, autonomiste, non capitaliste e non patriarcali, per ridotti che siano stati quelli spazi e i tempi nei quali si praticavano, la storia può cambiare.
Per questo, l’importante nei periodi “normali” non è quanta gente sia coinvolta in queste modalità di azione che chiamiamo “alternative”. Ciò che è decisivo è che esistano, che un settore attivo e dinamico, anche se minoritario, le pratichi e le diffonda. Nella nostra società tutti sanno che ci sono forme più sane di alimentarsi, metodi non allopatici né mercificati di prendersi cura della salute, spazi non di mercato come lo shopping e i supermercati, modi di vita diversi e piccole organizzazioni che li sostengono. Quando sopraggiungano situazioni drammatiche, alcune di quelle esperienze si moltiplicano, com’è successo tante volte.
Rojava è la doppia conseguenza della guerra civile siriana e dell’esteso lavoro del PKK e di altre organizzazioni kurde. Degno di nota è il fatto che si tratta di un partito di origine marxista-leninista che è stato capace di promuovere un distacco da quei valori. Non trovò ispirazione nelle tesi anarchiche, bensì nelle tradizioni libertarie del popolo kurdo. Ispirarsi alle tradizioni comunitarie e libertarie, che risiedono in tutti i popoli, è un buon antidoto contro i dogmatismi di ogni tipo.
È evidente che ci sono delle similitudini tra la rivoluzione zapatista e kurda. Ci sarà stato un incontro segreto tra Marcos e Ocalan? Tra i comandanti dell’EZLN e quelli del PKK? Esiste una bibliografia che presenta le cospirazioni come filo conduttore delle lotte sociali e che ha una forza simile alle letture ideologiche. Entrambe non comprendono il dato fondamentale: la storia è fatta dai popoli, con le loro lotte, ma anche con il loro accordo. Il conflitto cambia il mondo così come la conciliazione, anche se la nostra iconografia militante è solita occuparsi delle azioni eroiche, pure se sono state sporadiche e casuali nella storia.
Penso che di comune tra l’una e l’altra esperienza siano le radici, ciò che si trova di più profondo nei popoli. Il subcomandante Marcos giunse, con un piccolo gruppo di militanti guevaristi sconfitti, nella selva Lacandona e lì non ebbe altra scelta che “arrendersi” alla logica delle comunità. Un noto resoconto spiega che l’impianto della sua teoria politica risultò ammaccato dal contatto con gli esseri umani reali e che, grazie a queste ammaccature, poté cominciare a girare per le comunità fino a diventare un cerchio. O qualcosa di simile.
Il punto in comune fra i due processi è l’impegno nel cambiare il mondo e comprendere che le modalità ereditate non sono le più adeguate. La gente sa, e possiamo avere fiducia in lei. Noi non sappiamo molto e dobbiamo imparare dagli altri e dalle altre del popolo: loro sono i nostri maestri. Dobbiamo seguire un’etica dell’umiltà, della disponibilità a fare insieme e di non imporre ciò che portiamo negli zaini.
Non è importante se in un luogo si chiamino “giunte del buon governo” e in un altro siano “consigli locali o di cantone”. In entrambi i casi si può apprezzare un passaggio del centro di gravità ai popoli organizzati e la fiducia che questi popoli siano i soggetti capaci di fare ciò che occorre fare. Ma cosa fare? Quello che i popoli decidano, in ogni momento, secondo le loro convinzioni.
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È impossibile conoscere in anticipo il futuro della rivoluzione kurda. Nel mezzo di una guerra atroce, nella quale sono implicate grandi potenze, feroci dittature e gruppi terroristici, sarà molto difficile che la rivoluzione sopravviva a una distruzione così enorme. I recenti attacchi della Turchia e dello Stato Islamico possono essere degli esempi di ciò che riserva il futuro immediato. In ogni caso, ciò che hanno fatto finora è sufficiente per provocare il migliore entusiasmo, la più grande ammirazione, la più ampia solidarietà in ogni angolo del mondo degli oppressi.
I grandi processi storici devono essere considerati per le intenzioni dei protagonisti, non per una pragmatica misura dei risultati. Per questi motivi, Rojava merita tutta la nostra attenzione, tutto il nostro appoggio e la disposizione d’animo ad imparare. È il poco che possiamo fare, alla distanza dove siamo. Stiamo attraversando una fase particolare della storia, molto simile a quella delle due guerre mondiali, quando vari imperi furono distrutti, quando giunsero le grandi rivoluzioni, ma pure la ripartizione di questi imperi tra le potenze coloniali.
Con lo sguardo rivolto al passato, Eric Hobsbawn metteva in evidenza l’importanza della rivoluzione spagnola, diventata un fronte cruciale della battaglia contro il fascismo. Secondo la sua opinione, fu la causa più nobile del secolo trascorso, come scrisse nella sua Storia del secolo breve.
Egli affermò: “A molti di noi che siamo sopravvissuti, la lotta del 1936 è l’unica causa politica che, anche vista retrospettivamente, ci sembra così pura e convincente”. È ciò che di meglio si possa dire di una rivoluzione.
Raúl Zibechi, Luglio 2015.