Un mondo di guerre. Contro un immaginario di rassegnazione al militarismo

Da poco l’ennesima tregua israelo-palestinese ha rimesso a tacere le cronache mediatiche in una delle guerre più asimmetriche che si conoscano da almeno 70 anni. Eppure l’apartheid dello stato israeliano prosegue senza soste significative e le autorità palestinesi, ufficiali o autonominatesi, proseguono sia negli interessi della borghesia nazionale sia nell’arruolamente integralista della disperazione di molte e molti. In realtà altri conflitti nel mondo appaiono occasionalmente, raggiungono una certa visibilità per poi tornare nella loro “utile” e ordinaria dimensione silenziata.

Generalmente a rintuzzare i media sono scandali, coinvolgimenti rovinosi o drammi che riguardano l’occidente, o ancora seguono le dinamiche della tattica propagandistica buona alla potenza e loro alleati di turno nell’accaparramento di risorse o luoghi geo-strategici sul piano economico o politico. Questa condizione tanto imperialistica quanto interimperialista non ha distinzioni nella geopolitica delle grandi potenze, dagli USA alla Cina, dai molti stati europei alla Russia: i luoghi della riproduzione dello sfruttamento e del profitto cambiano solo per motivi contingenti ma immaginario e militarismo rimangono uguali.

Uscire fuori dalle dinamiche di informazione-comunicazione interessata con cui le guerre e i conflitti vengono appunto tirati fuori a caso e veicolati secondo le utili propagande dei rispettivi stati è la precondizione per avere ben chiaro e con una visione realistica il quadro entro cui noi sfruttati stiamo nel teatro globale del dominio capitalistico. La pandemia ha distorto moltissimo il piano, anzi i piani, del discorso militarista. Che è e rimane il discorso principale nonostante sembra invece non ci riguardi e soprattutto per il modo con cui viene trattato nei media e da questi recepito dai più. Cerchiamo quindi di rimettere in ordine i ragionamenti che dovrebbero interessarci a partire dai numeri e dalle conoscenze che si hanno.

Il militarismo: l’unica lente con cui guardare i conflitti

Le guerre, più o meno a bassa intensità, riguardano tutti e cinque i continenti, sicuramente concentrati in Africa e Medio Oriente ma anche in America Latina e molte più vicino a noi. Va però prima precisato, nella lettura delle elencazioni di dati e numeri, il modo mai neutrale con cui vengono significati.

Ufficialmente viene data una certa risonanza all’idea di guerra dichiarata o riconosciuta in ambito internazionale rispetto a conflitti armati che invece vengono relegati a scontri intra nazionali e che quindi vengono assunti invece in categorie quali terrorismo, operazioni di polizia, scontri interetnici, ecc. Chiariamo subito l’ambiguità: che un SIPRI o l’International Crisis Group (per citarne alcuni dei più accreditati) utilizzino parametri e categorie che ufficializzano, distinguono e rappresentano un insieme di dati all’interno di categorie riconosciute a livello istituzionale ha una sua spiegazione solo marginalmente tecnica.

È a mio avviso invece un problema soprattutto politico. Il fatto che una guerra, tutte le guerre, non siano considerate ad esempio terrorismo a tutti gli effetti, anzi il più alto grado di terrorismo possibile, nasconde la cosiddetta nudità del re: ammettere la natura criminale dello stato, di tutti gli stati. Che si basano sul monopolio assoluto della violenza. Che su questo monopolio hanno ereditato la loro legittimità e che di conseguenza possono esercitarla “democraticamente”.

Questo inganno, tanto enorme quanto impronunciabile, sottende tutta la storia moderna, incalzando la nostra storia contemporanea su cui i governanti basano il privilegio di stare dalla parte del bene e porre invece di volta in volta il male di là dei nostri confini ma anche internamente tracciando la frontiera della legalità e quella della clandestinità, o tra l’incontrovertibile “senso dello stato” e quello sempreverde della sovversione o appunto del terrorismo.
Un conflitto armato così come una guerra sono sempre tali, al di là degli attori e dalla loro riconoscibilità nel cosiddetto diritto internazionale, cambiano contesti, condizioni, intensità non certamente ciò che li caratterizza e cioè il livello di militarismo adottato.

Quando l’Italia, capofila NATO attacca e bombarda la Libia o col lasciapassare ONU occupa e spara in Iraq è guerra ed è terrorismo, dal momento che la popolazione subirà il terrore della distruzione, della perdita delle proprie infrastrutture vitali come strade, ospedali e case e dovrà contare poi centinaia, migliaia di feriti e morti, quasi tutti civili. Alla pari di chi, gruppo o avanguardia, decide di mettere una bomba in piazza o tentare un colpo di stato, ciò che cambia è la capacità e la quantità, è il livello di “potenza” espressa o esprimibile, non certo il fine.

Antimilitarismo o barbarie

La lente utile con cui leggere quindi tutti i conflitti armati è sempre la categoria del militarismo, la distizione tra guerre e altri conflitti, tra operazioni di controterrorismo o di repressione di tumulti e rivolte, è un modo per deformare l’immaginario stesso nella percezione generale. Rafforzando l’idea, ad esempio, che laddove lo stato interviene, entro i propri confini, non sia di per sé una sorta di guerra a bassa intensità ma una forma legittima di “polizia”.

Peccato che in molte occasioni le forme e i mezzi adottati siano sovrapponibili a tattiche militari e le conseguenze siano abusi, feriti e anche morti. Esattamente come nelle guerre esterne, che siano operazioni di peacekeeping (magari come nei casi di caschi blu implicati in stupri, sfruttamento della prostituzione e pedofilia) o di respingimento dei migranti come nel finanziamento della guardia costiera libica, bande di torturatori assunti a pieno titolo dai governanti italiani.

Già in altri articoli e approfondimenti su questo settimanale è emerso come la condizione pandemica non solo non ha acquietato la smania di import ed export di armi in tutto il mondo e di come l’Italia stessa in questi due anni abbia addirittura aumentato il proprio investimento di risorse economiche verso il comparto Difesa, in barba ad una sanità sempre più devastata dalle politiche di privatizzazione e aziendalistiche dei vari governi. Quello che emerge con sempre più veemenza è l’utilizzo massiccio del militarismo nelle repressioni sociali, dai picchetti di lavoratori e lavoratrici, dalle vertenze antisfratto, dalle manifestazioni di piazza alle occupazioni di scuole; il sistematico uso della forza poliziesca o dello stesso esercito è ormai condizione di assoluta normalità da diversi anni ma oggi appare ancora più eclatante a causa della mancanza di conflitto sociale di massa. Un conflitto che c’è ma che è parcellizzato, diffuso ma debole e atomizzato.

Così, mentre le guerre nel mondo pullulano e gli stati le foraggiano, allo stesso tempo un’attenzione esagerata viene messa dai servizi di sicurezza nazionali nel “prevenire” possibili focolai di ribellione interni. Aumenta la criminalizzazione dei rivoltosi, i sistemi di controllo e la repressione a ogni livello. Mai come oggi la necessità di una mobilitazione antimilitarista risulta urgente.

Disarticolare il monopolio della violenza dall’interno non è solo un modo per dare fiato alle lotte ma anche per rimettere l’emancipazione degli sfruttati nel giusto alveo dell’internazionalismo. Disinnescare la produzione bellica, sabotare le basi militari, rompere l’egemonia militaresca e del buon soldato a partire dall’ostacolare la propaganda militare nelle scuole e università, osteggiare la ricerca militare, sono solo alcune delle possibili e necessarie battaglie. La prima e più importante rimane il coinvolgimento verso le nostre istanze di chi da questa storia non può che perderci e basta, cioè le sfruttate e i senzapotere.

Obi Uan

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