A Roma, qualche tempo fa, è stato ristampato un bel manifesto femminista degli anni 70, dove si legge: “Non c’è rivoluzione senza liberazione della donna, non c’è liberazione della donna senza rivoluzione”.
Penso che andrebbe regalato a quanti, pure sulle pagine del settimanale Umanità Nova (11 febbraio 2016), continuano a rimanere impantanati nella palude patriarcale con mentalità vetero-leninista, senza neppure essere sfiorati dal dubbio che la discriminazione sessista riguarda (e quanto!) non solo la Chiesa cattolica e la borghesia più conservatrice, ma anche quel mitico ed asessuato movimento operaio che – in tale supponenza – dovrebbe farsi virilmente carico e magari anche dirigere le lotte di liberazione delle donne e delle soggettività LGBTQ, ovviamente ritenute “lotte parziali” nonché riformiste.
Un problema, la cui elusione viene da lontano, se anche ai tempi dell’Internazionale lo stesso Bakunin, credendo realmente all’uguaglianza totale tra donne e uomini, dovette denunciare il persistente potere patriarcale anche nel movimento rivoluzionario, a partire dai molti militanti maschi che erano per l’uguaglianza e per la libertà sul piano economico e sociale, mentre a casa agivano come dei padroni con le proprie compagne, negando loro persino di militare alla pari all’interno delle organizzazioni proletarie.
Senza tale consapevolezza, era la stessa questione sociale a perdere ogni senso, non sapendo vedere “le schiave degli schiavi” e riconoscere che solo attraverso la loro autodeterminazione, autonoma anche dal patriarcato socialista e sindacale, c’era la possibilità di trasformare coerentemente non solo da società in avvenire, ma da subito le relazioni tra donne e uomini impegnate per la liberazione da ogni sfruttamento e oppressione.
In seguito, fu Alessandra Kollontai a contestare i dirigenti socialdemocratici, compresa l’ala bolscevica e lo stesso Lenin, per l’ottusità mostrata di fronte alla questione dell’emancipazione femminile da loro ritenuta di natura borghese; tale critica venne poi ripresa anche da un’altra comunista, Clara Zetkin, sottolineando come “la questione femminile presenta diverse caratteristiche a seconda della situazione di classe dei diversi gruppi sociali”. Ammetteva quindi che l’oppressione delle donne era una contraddizione reale che coinvolgeva tutte le classi, compreso il proletariato, ma comunque anche per Zetkin l’organizzazione femminile rimase solo una “sezione” subordinata ai fini strategici del movimento operaio, nell’illusione che poi il socialismo sovietico risolvesse tutto.
Per evidenziare il legame che vedeva e vede intersecati dominio di classe/genere/etnia sarebbero stati necessari altri contributi, libertari, ma non solo: da Emma Goldman ad Angela Davis. In particolare negli Usa, le attiviste nere ebbero un ruolo cruciale mettendo in discussione anche la gerarchia dei sistemi di oppressione accettata dal femminismo radicale bianco, per sostenere che l’esperienza delle donne afroamericane, chicane, di origine asiatica o delle donne “working class” era semmai contrassegnata da una “intersezione” dei sistemi di oppressione. Per loro, combattere una comune battaglia contro il razzismo non poteva significare l’accettazione di un ruolo subalterno che non faceva parte della storia delle donne nere, né ignorare il sessismo all’interno della comunità e del mondo del lavoro. Da qui il concetto di una tripla oppressione – in quanto donne, nere e proletarie – che agiva simultaneamente e non poteva essere scissa privilegiando di combattere l’una a scapito dell’altra. Così come non poteva esserci sorellanza senza tener conto delle differenze di “razza” e di classe.
Un approccio che ormai dovrebbe essere accolto da tutti i movimenti antiautoritari, perché in una visione orizzontale ed antigerarchica, non ci sono lotte parziali o strategiche, dato che ogni libertà è parimenti necessaria e decisiva.
Invece, pur di non riconoscere la critica del femminismo radicale come parte di un conflitto su più fronti, si continua a volere includere “naturalmente” il tema patriarcale nella lotta di classe. Parlare di sessismo o razzismo “nella classe” continua ad essere un tabù e per alcune/i, basta dichiararsi anarchiche/i per legittimarsi come femministe/i.
Considerare ancora il patriarcato soltanto come un aspetto “sovrastrutturale” del capitalismo o delle religioni, è rifiutare di vedere la specificità di questo sistema fondato sulla discriminazione di genere, così come sul razzismo o il suprematismo animale.
Purtroppo, non basta sviluppare il movimento dei lavoratori per sconfiggere magicamente tutte le dominazioni di cui è ostaggio, anche internamente.
Se conseguente, l’opposizione al patriarcato tende all’eliminazione del potere statale e capitalista, ma nessuno può sostituirsi ai soggetti che ne sono prigionieri; tanto meno chi, culturalmente, è ancora dentro – e con ruoli predominanti – il sistema che lo perpetua, anche nei contesti che si definiscono libertari o antagonisti.
Ching Shih