Non è la prima volta che si arriva ai ferri corti attorno a Taiwan, o isola di Formosa o Repubblica di Cina. Chiamate quell’isola come meglio vi piace ma, qualunque appellativo si voglia usare, si finisce sempre col riferirsi ad una situazione in perenne equilibrio precario. Taiwan ha una storia abbastanza complessa che si snoda fin dal crollo dell’ultima dinastia cinese, nel 1895: grazie ad un trattato di pace tra Cina e Giappone, la pace di Shimonoseki, l’isola fu ceduta all’Impero Giapponese per poi tornare sotto il controllo cinese dopo la Seconda Guerra Mondiale. Dopo la rovinosa guerra civile fra i comunisti di Mao e i nazionalisti di Chiang Kai-shek, questi ultimi ripararono a Taiwan costituendo la Repubblica di Cina. Subito giunse il riconoscimento ufficiale del nuovo Stato d parte degli Stati Uniti e, con il riconoscimento, giunse anche un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
A quel tempo la Guerra Fredda stava già riscrivendo accordi ed equilibri fra amici, nemici ed elementi neutrali. Pechino veniva quindi ad essere un elemento scomodo per l’alleanza con l’Unione sovietica: quale modo migliore se non piazzargli un protettorato occidentale davanti la porta di casa? La linea cambierà e negli anni ’70 gli Stati Uniti “smisero” di riconoscere ufficialmente il governo Taipei, senza per questo rinnegare l’alleanza e continuare a fornire appoggio. Con un contorcimento diplomatico degno di un acrobata, lo zio Sam accontentò Pechino senza abbandonare Taipei. Affermò la dottrina politica di “una sola Cina” e, legittimando formalmente soltanto la Repubblica Popolare Cinese, Taiwan verrà inglobata nell’“ambiguità strategica”. Uno dei tanti compromessi infausti disseminati per il globo dal governo USA: una soluzione che contempla un unico soggetto sul piano internazionale, pur prevedendo al suo interno due entità differenti amministrate con due distinti sistemi istituzionali. Queste “soluzioni” hanno avuto finora solo esiti deliranti e infausti, tanto per ricordarne qualcuna tipo le due Berlino, la “spartizione” della Palestina e tutte quelle invenzioni geografiche degli ultimi settant’anni e forse la stessa fine farà la Crimea.
Come si può facilmente comprendere queste soluzioni funzionano fintanto che si mantiene una bilaterale volontà di farle funzionare. Per cui, fintanto che la Cina fosse rimasta un territorio arretrato in perenne domanda di tecnologia, con la bilancia commerciale sempre in rosso, con un esercito di disperati, armati male e organizzati peggio, non ci sarebbe stato motivo di preoccuparsi. Negli ultimi 40 anni però, dopo la morte del “timoniere”, le strategie di Deng Xiaoping hanno proiettato la Cina nel nascente mercato globale (per inciso la globalizzazione di cui si cianciava all’inizio degli anni 2000 era bella che realizzata da almeno vent’anni), il che ha cambiato non di poco il suo peso in quella parte di mondo.
Qui il primo grossolano svarione da parte delle economie occidentali, cioè puntare pesantemente sull’offshoring, assecondando la strategia delle ZES cinesi, anzi dandole forza e concretezza con massicci investimenti. In questo scenario di smantellamento di interi comparti produttivi in Occidente e il relativo trasferimento della manifattura pesante e a bassa specializzazione in Oriente, la posizione di Taiwan e il suo status ambiguo ha favorito il fiorire di una sorta di paradiso ultraliberista formalmente all’interno dell’area di interesse cinese. Nel frattempo la storia corre e la tecnologia comincia ad essere un asset industriale a sé. L’ambito di Ricerca e Sviluppo diventa un prodotto come tanti e ciò che poi immette nel mercato non solo crea un comparto multimiliardario l’ICT (Information and Communication Tecnology) ma crea un divario globale fra potenze economiche che gestiscono la new technology e i gregari che producono all’interno della manifattura tradizionale. Come si pone Taiwan in questa catena produttiva che si dipana in lungo e in largo per il globo? L’isoletta finisce per essere il principale hub di produzione di semiconduttori, arrivando da sola a soddisfare oltre il 50% della domanda mondiale di microchip.
A questo punto abbiamo da un lato la Cina che in quegli anni sta diventando il cluster manifatturiero del pianeta e la vicina isoletta che invece è la centrale produttiva della componentistica base della tecnologia digitale. Formalmente un’unica entità, nei fatti due sistemi differenti, da un lato l’evoluzione dell’economia cinese grazie al Boluan Fanzheng e al relativo “Socialismo con caratteristiche cinesi” che ha di fatto realizzato un capitalismo a trazione statale incapsulato in un ordine gerarchico molto rigido. Dall’altro una comoda ed elastica democrazia liberale di stampo occidentale che vive degli accordi commerciali con il resto del mondo e vende qualcosa che nel giro di vent’anni è diventato più prezioso dell’oro, del petrolio e dell’uranio. La tecnologia sulla quale a ritmo sempre più crescente il mondo stava costruendo il proprio futuro digitale, ovviamente a velocità differenti ma tutti con lo stesso pungolo di digitalizzare, innovare e smaterializzare. È oltremodo chiaro che l’avvento del digitale ha coinvolto in primis la ricerca bellica, da qui la spinta di investimenti senza economie in questa direzione.
Chi era però che nel frattempo aveva scommesso tutto sul digitale dismettendo buon parte della produzione di beni di uso comune e implementando la produzione di servizi? Esattamente lo zio Sam che ora si ritrova a dipendere da pochissimi produttori di componentistica elettronica, che per giunta non sono neanche in suolo Statunitense. A questa corsa partecipa in maniera scomposta anche l’Europa, prima come singoli Stati, poi in maniera più strutturata come UE. Da qui l’importanza strategica di Taiwan per USA e UE m,a mentre l’Europa cerca di smarcarsi investendo in ricerca e negoziando brevetti o avviando accordi bilaterali per tentare di non guastarsi i rapporti con il mastodonte cinese, gli USA adottano le loro solite strategie assai poco ufficiali. Da un lato negli anni hanno investito pesantemente su Taiwan e hanno cominciato a portare l’assalto alla TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company) cercando di scalarla “alla chetichella”, rastrellando le azioni e cercando di avere un certo peso nel consiglio di amministrazione. Tutto questo gran da farsi semplicemente perché, se Taiwan produce più del 50% di tutti i semiconduttori a livello mondiale, l’azienda che detiene il know-how e i brevetti più avveniristici è la TSMC. Va da sé che chi controlla o ha un certo ascendente su chi in pratica agisce da pseudo monopolista ha un asso nella manica rispetto alla concorrenza.
Queste in estrema sintesi le motivazioni strettamente legate al suprematismo produttivo e tecnologico di una parte del mondo rispetto all’altra. Purtroppo per quanto già complessa non è la sola spiegazione all’interesse su Taiwan: alla fine chiunque la andasse a controllare non si sognerebbe mai di chiudere gli stabilimenti della TSMC in quanto ne trarrebbe indubbi vantaggi, ma non è solo questo che rende Taiwan tanto importante. C’è da considerare la sua posizione strategica in senso geografico. Se l’isola fosse effettivamente suolo cinese vorrebbe dire far fare un balzo in avanti nel Pacifico di un migliaio di miglia al confine internazionale della Cina, che arriverebbe a lambire altro territorio giapponese. Ciò si aggiunge a tutto quello che la Cina ha arraffato negli ultimi anni, appropriandosi di atolli, scogli e micro isolette dimenticate forse anche dai cartografi ed espandendo le acque nazionali ben oltre i limiti di una ventina d’anni fa.
Qui entrano in gioco le ZEE (Zona Economica Esclusiva).[1][2] Zone che danno diritti esclusivi di analisi, perforazione, ricerca, sfruttamento ittico e minerario, transito commerciale ecc. Ora nell’ottica della realizzazione delle silk roads (il plurale è d’obbligo, non si pensi che la via della seta sia una) e dell’intensificarsi delle rotte commerciali, la Cina vuole spazio e mano libera per il transito. Non solo: la Cina è uno dei paesi più energivori in assoluto ed è sempre alla ricerca di nuove fonti per tenere alta la sua produzione. Alcuni studi hanno riscontrato la presenza di alcuni grossi giacimenti di metano proprio nei pressi di Taiwan, praticamente sotto costa cioè nella ZEE dell’isola e non si parla di piccoli giacimenti ma di qualcosa di particolarmente appetibile.[3][4]
Non è quindi peregrina l’idea che, vista l’incertezza sul fronte occidentale, la Cina voglia preservare la sua catena di approvvigionamento energetico e stia puntando su qualcosa che, dal suo punto di vista, gli appartiene per gentile concessione fatta dallo Zio Sam in un momento in cui aveva altri nemici a turbargli il sonno. Quindi Taiwan in questo preciso momento è un punto di interesse strategico nel quale convergono le attenzioni di due grossi contendenti che negli ultimi dieci anni si stanno stuzzicando parecchio. Da un lato gli USA che stanno perdendo terreno in termini di egemonia globale e stanno utilizzando la strategia bellica (tanto per cambiare) per determinare nuovi equilibri tanto in Europa quanto in territorio asiatico. Le infauste uscite del Presidente Biden vanno ovviamente in questa direzione. Dall’altro lato abbiamo la Cina che non solo sta determinando da sola la crescita del PIL mondiale ma sta scalzando il potere economico degli Stati Uniti, imponendo un modello di globalizzazione differente da quello delle GVC (Global Value Chains) di stampo statunitense. Energia, tecnologia e dominio commerciale di uno dei punti più trafficati del pianeta: questa è la posta in gioco in questo momento. Nel mezzo un’isola contesa che se dovesse rimanere scottata da un ipotetico conflitto ridurrebbe al minimo la capacità di implementazione (ma anche manutenzione) tecnologica del pianeta.
Il solo ritardo nella produzione di chip destinati ai sub-componenti per auto ha mandato a pallino il mercato dell’automotive nel 2021-2022, con perdite dell’ordine di 1,95 milioni di veicoli non prodotti per il solo ambito Nord-americano. Ora non che io mi stia strappando i capelli per queste perdite ma sono cifre che in grado di smuovere un intero Congresso e il Pentagono, se solo si sospetta che qualcuno possa voler mettere le mani su questo cruciale asset produttivo. Unito alle performances cinesi ed al fatto non trascurabile che Pechino detiene quasi un terzo del debito estero degli Stati Uniti, è più che sensato pensare che non staranno a guardare mentre si allungano le mani su qualcosa che potrebbe, in un colpo solo, far calare il sipario sui progetti a stelle e strisce. Gioca a favore del buonsenso (o almeno c’è da augurarselo) il fatto che più danni si faranno a Taiwan peggio sarà per tutti. Purtroppo è anche vero il detto Muoia Sansone con tutti i filistei…
J. R.
NOTE
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Una zona economica esclusiva (ZEE) è un’area che si trova al di là e adiacente ai mari territoriali di un determinato Paese e si estende per non più di 200 miglia nautiche (370 chilometri) dalle coste del Paese stesso. L’area che rientra nella ZEE di uno Stato conferisce a quest’ultimo il pieno diritto di esplorare e sfruttare le risorse marine nella piattaforma continentale adiacente.
- Cfr. JR, “La Zee Italiana nella Complessità del Mare Nostrum”, url: https://umanitanova.org/la-zee-italiana-nella-complessita-del-mare-nostrum/
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Cfr. Taipei Times, “Expert urges continued research of methane hydrates” url: https://www.taipeitimes.com/News/taiwan/archives/2018/07/24/2003697279
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Huang, YS., Hsu, SK., Su, CC. et al. Shallow gas hydrates off southwest Taiwan and their mechanisms. Mar Geophys Res 42, 7 (2021). https://doi.org/10.1007/s11001-021-09429-x