Nel 1997 la Federazione Anarchica Italiana ha scommesso sul sindacalismo di base e conflittuale.
Negli anni precedenti CGIL, CISL e UIL avevano firmato accordi intercategoriali che svendevano gran parte delle conquiste ottenute dalle classi lavoratrici negli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso. Quegli accordi sono alla base del peggioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari che oggi sono sotto gli occhi di ogni persona.
In cambio di quelle rinunce, i sindacati ottenevano una sicura fonte di finanziamento con i CAF. La burocrazia sindacale svolge una funzione sussidiaria nell’esazione delle tasse, ricevendo per questo un compenso dallo Stato.
In pratica, con gli accordi del 1992 la burocrazia sindacale svendeva i diritti delle classi lavoratrici in cambio di un beneficio diretto, e soprattutto ottenendo la cancellazione dei consigli di fabbrica, sostituiti dalle Rappresentanze Sindacali Unitarie, in gran parte controllate dalla stessa burocrazia.
Questi accordi avevano visto la protesta della parte più combattiva della classe operaia e degli altri settori lavorativi, con la formazione e la crescita che appariva impetuosa di diverse sigle del sindacalismo di base e conflittuale.
Al congresso di Spezzano Albanese, tenutosi nell’aprile del 1997, la Federazione Anarchica denunciò il ruolo di collaborazione di classe del sindacalismo di Stato (CGIL, CISL e UIL) e l’impossibilità di coinvolgere questi apparati in un’azione concreta in difesa delle lavoratrici e dei lavoratori e di trasformazione sociale; per queste ragioni ci si impegnava a sostenere le esperienze del sindacalismo di base.
Da quel momento, l’attenzione della Federazione verso quel mondo non è mai venuta meno, dando vita a momenti importanti di confronto, di agitazione, di organizzazione.
Se ci volgiamo a considerare la strada percorsa, possiamo considerare che molte delle speranze che in quel congresso si ponevano nello sviluppo di un movimento operaio autonomo e combattivo sono rimaste insoddisfatte.
La ristrutturazione capitalistica, la delocalizzazione e la globalizzazione hanno distrutto le concentrazioni operaie protagoniste delle lotte dall’autunno caldo in poi. Il comando dei dirigenti sui posti di lavoro è cresciuto, mentre la conflittualità è scesa a zero, sostituita da un vertenzialismo gestito in gran parte sul piano legale. Le grandi lotte, come quelle nella logistica, non sono state capaci di avviare una significativa ripresa del movimento di classe, segnato da un prevalere di rapporti di lavoro discontinui e parziali, quando non addirittura del lavoro nero.
Il sindacalismo conflittuale si trova oggi di fronte ad una crisi, proprio nel momento in cui uno strumento di lotta delle classi sfruttate sarebbe più necessario; crisi che è segnalata anche da molti dei suoi protagonisti. Al di là della crescita di questa o quella organizzazione, il sindacalismo di base nel suo complesso è ritornato ad una situazione di divisione, dopo la spinta unitaria del 2021 e del 2022. Le organizzazioni più grosse tendono a riprodurre in piccolo i difetti del sindacalismo di Stato, sgomitando per un riconoscimento ufficiale e cercando una sponda politica in questa o quella lista elettorale di sinistra.
Questa crisi ha avuto una ripercussione anche all’interno della Federazione. Per valutare il senso di questa crisi credo debbano essere fatte delle considerazioni di carattere teorico e di analisi generale, piuttosto che limitarsi a singoli episodi del sindacalismo conflittuale italiano.
La prima considerazione da fare è che la storia ci consegna esempi di insurrezione popolare vittoriosa, come il 19 luglio 1936 in Spagna o il 25 aprile 1945 in Italia. L’elemento che mi preme sottolineare comune a questi due eventi è il forte legame tra avanguardie rivoluzionarie, minoranze combattenti e movimento operaio. Se siamo convinti che l’emancipazione delle classi sfruttate comincia riuscendo a sconfiggere nelle piazze la violenza organizzata della reazione e della conservazione sociale, dobbiamo essere altresì convinti che questa affermazione non diventa definitiva senza l’azione spontanea delle classi sfruttate che si impadroniscono dei mezzi di produzione e di scambio e li mettono a disposizione di ognuno, ponendo fine allo sfruttamento capitalistico. La condizione necessaria per questo automovimento, per questo movimento spontaneo, è l’esistenza dell’organizzazione di massa capace di intervenire all’interno del processo di produzione. Di questa organizzazione di massa il sindacato è parte fondamentale.
Il primo punto della nostra riflessione è quindi che il sindacato è uno strumento importante della trasformazione sociale, anche se non l’unico. Non possiamo quindi rispondere alla crisi del sindacato semplicemente rinunciando ad esso, considerarlo uno strumento superato. La crisi del sindacato ci riguarda direttamente e non possiamo ignorarla.
D’altra parte, lo strumento in quanto tale, se si limita a conquistare successi parziali nella lotta fra capitale e lavoro salariato, è destinato alla sconfitta. Sappiamo bene, e ce lo confermano le dinamiche di questi ultimi anni, che la prosperità capitalistica si basa sul continuo impoverimento delle classi sfruttate. Che si tratti del salario o dell’orario di lavoro, delle pensioni o della salute, della scuola o della casa, le condizioni delle classi sfruttate sono costantemente peggiorate negli ultimi decenni, al punto che gran parte delle lavoratrici e dei lavoratori sono a rischio povertà.
Certo, si può dire che un sindacato efficiente avrebbe saputo difendere meglio le conquiste del movimento operaio, e magari estenderle; resta il fatto che a lungo andare, e nemmeno tanto lungo, la lotta non paga se non si trasforma il movimento radicale di cambiamento dei rapporti di classe. In realtà quello che possiamo fare è condurre una lotta intransigente in difesa delle condizioni di vita e di lavoro che porti all’organizzazione delle forze proletarie in vista del momento decisivo. Questo è il compito del sindacato, e oltre a questo diffondere tra i propri attivisti la coscienza di essere dei produttori, di avere diritto a impadronirsi dei mezzi di produzione e di scambio e a gestirli a vantaggio di tutta la società. Un altro importante ruolo ha il sindacato: abituare le lavoratici e i lavoratori alla partecipazione. Come si diceva una volta: l’autogestione delle lotte prepara l’autogestione della società.
Ma, ancora una volta, esiste fra le classi sfruttate la forza per un’opposizione decisa ai piani del capitale?
L’anno che si è chiuso segna un andamento altalenante nel conflitto tra capitale e lavoro salariato nei principali stati capitalistici.
Balzano agli occhi i risultati ottenuti negli Stati Uniti, accompagnati da un mutamento nelle principali Unions. Il sindacato dei trasporti statunitense ha visto il proprio gruppo dirigente travolto dagli scandali, ed è stato sostituito da dirigenti espressione di un movimento dal basso. La combinazione fra dirigenti più decisi ed attivisti mobilitati per organizzare i lavoratori hanno portato i lavoratori UPS ad ottenere i più consistenti aumenti contrattuali, l’abolizione del secondo livello fra i conducenti e della sesta giornata lavorativa. A questo si aggiunge la più nota, anche se meno completa, vittoria dei lavoratori dell’auto; ma sono tante le categorie che quest’anno si sono mosse e hanno ottenuto vittorie contrattuali, come meccanici, lavoratori della scuola, infermieri, baristi…
Di qua dall’Atlantico i risultati non ci sono stati. L’ondata di scioperi nelle varie categorie che c’è stata nel Regno Unito non ha portato i risultati sperati, visto che i leaders del TUC (Trades Union Congress) si sono adoperati per dividere e frenare le lotte. Gli unici ad aver ottenuto dei risultati sono stati i lavoratori delle piattaforme petrolifere, che si sono sbarazzati dei dirigenti ufficiali e si sono dati una propria organizzazione.
Negativo anche il risultato della mobilitazione contro la riforma delle pensioni in Francia. I dirigenti non hanno voluto premere sull’acceleratore quando i dimostranti avevano in mano il paese.
La crisi del sindacalismo di base è quindi parte di una crisi più generale che coinvolge tutto il sindacalismo e il movimento di classe.
La subordinazione del sindacato allo Stato fa sì che il sindacato si riduca a cinghia di trasmissione delle scelte di politica industriale fatte dal governo, scelte di cui i salari, l’orario di lavoro, la stessa sicurezza sul lavoro sono variabili rigidamente dipendenti. Il caso diverso degli Stati Uniti va messo in relazione alla vicina campagna presidenziale e all’esigenza, per l’amministrazione Biden, di conquistare il favore di potenti organizzazioni operaie. Il sindacalismo di base e conflittuale per superare questa crisi deve farla finita con l’imitazione del sindacalismo di Stato, assumendo un carattere apertamente antistituzionale. Ma le attuali dirigenze sono in grado di compiere questa rottura? Dirigenti diversi sarebbero in grado di compierla? Ecco che la questione delle scelte strategiche si intreccia con quella dell’organizzazione interna. Nonostante si autoproclamino di base, spesso questi sindacati sono controllati da vertici ristretti, inamovibili, con poca o nessuna partecipazione dal basso, nemmeno formale. Anche su questo terreno l’azione delle militanti e dei militanti libertari potrebbe essere più incisiva. Una struttura libertaria di coordinamento dedicata al mondo del sindacalismo di base potrebbe essere lo strumento efficace per un intervento positivo all’interno di questa crisi.
Tiziano Antonelli