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STOPCASTELLER

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La notte del 24 luglio del 2020, M49, orso detenuto nella struttura Casteller a Trento, era fuggito dalla sua prigione rinforzata con una barriera elettrica. Castrato chimicamente e munito di radiocollare a seguito di una precedente fuga, ha superato la barriera di 4 metri, i recinti elettrificati, ha forzato l’ultima recinzione in diversi punti fuori dalla vista delle telecamere ed ha trovato la libertà. Catturato a settembre, è stato riportato in gabbia trionfalmente dopo essere stato narcotizzato. Era scappato la prima volta nel luglio 2019, un’ora dopo esser stato catturato a seguito delle denunce di danni degli allevatori della zona, senza essere rintracciato per 9 mesi.

Adesso è prigioniero insieme ad altri due orsi: DJ3 (figlia della più nota Daniza, ricercata e poi uccisa nel 2014) reclusa da 9 anni, e M57 che ha trascorso solo due anni della sua vita in libertà prima di essere imprigionato (un orso in natura vive 30-35 anni). Il 18 ottobre 2020 un corteo nazionale ha portato la solidarietà di 500 partecipanti davanti all’ingresso del Casteller. Lo slogan del corteo, “Smontiamo la gabbia” è stato più che un riferimento simbolico: diversi gruppi hanno distrutto decine di metri della recinzione esterna del centro di detenzione, dando il via alla campagna #StopCasteller per la chiusura della struttura, la liberazione degli orsi e la convivenza pacifica fra orsi e umani in Trentino. Dopo mesi di petizioni, interpellanze e cause legali, di vane promesse del ministro “ambientalista” Costa, l’azione diretta ha mostrato che è possibile una solidarietà attiva senza delega alle istituzioni.

La storia di questo conflitto interspecie è stata però ben più lunga. A fine anni novanta il Parco Naturale Adamello Brenta, in accordo con la Provincia Autonoma di Trento e l’ISPRA, ha varato il Progetto Life Ursus reinserendo sul territorio dieci orsi adulti e nel 2018, come previsto, si contavano 50 esemplari. Tutto questo fu stabilito per attrarre turisti e soprattutto soldi, i fondi LIFE dell’Unione Europea. Nel frattempo, però, 34 orsi sono stati uccisi, imprigionati, o sono scomparsi.

La gestione dei plantigradi è diventata negli anni sempre più ostile a questi esemplari, che inizialmente dovevano essere sembrati agli amministratori come dei simpatici orsi yoghi da inserire nelle brochure promozionali e che, invece, lentamente sono diventati invece una sorta di mostro che aggredisce e divora chiunque si trovi sui suoi passi: pecore, mucche, famigliole. Una narrazione infondata e deliberatamente allarmistica volta a giustificare un crescendo di misure che hanno raggiunto un climax di violenza antropocentrica animata dall’attuale giunta leghista ma che ha caratterizzato anche le precedenti amministrazioni di altro segno politico.

Parallelamente, le (spesso semplici) misure per facilitare una buona convivenza ed evitare il ricorso ad abbattimenti e catture sono state sostanzialmente ignorate, nonostante fossero previste dal “Piano d’Azione Interregionale per la Conservazione dell’Orso Bruno sulle Alpi Centro-orientali” (PACOBACE). Lo scorso settembre, dopo la seconda cattura di M49, è stato divulgato un report dettagliato della Commissione Scientifica CITES (Ministero dell’Ambiente) che ha reso pubbliche le condizioni di detenzioni dei tre orsi nel Casteller, creando un immediato moto di indignazione in una parte dell’opinione pubblica: spazi angusti, violazione dei bisogni etologici più elementari, ampio ricorso agli psicofarmaci. Tutto l’armamentario della galera, insomma. Nonostante questo, la Provincia di Trento ha continuato a sostenere che la gabbia è dorata: gli “ospiti” stanno bene, hanno spazio, e del resto ormai sono in letargo. All’inizio di febbraio, però, la campagna StopCasteller ha diffuso un video girato da alcun* attivist* che, tagliando le recinzioni esterne e scavalcando l’ultimo ostacolo, hanno potuto documentare le vere condizioni dei reclusi, smentendo clamorosamente i politicanti trentini, la cui reazione si è distinta per essere del tutto scomposta (“denunceremo i colpevoli”).

La campagna StopCasteller è frutto dell’incontro fra realtà antagoniste e l’Assemblea Antispecista, cioè un coordinamento di soggetti la cui storia è radicata nell’antispecismo e nell’attivismo per la liberazione animale ma anche del coinvolgimento della rete ecologista Rise Up for Climate Justice. Anche per questo, la contestazione – che a partire dal corteo di ottobre ha visto momenti di pressione “a distanza” (mailbombing), attacchinaggi, assemblee aperte e momenti di approfondimento su aspetti “tecnici” e politici – ha la potenzialità di allargare la critica ad altri temi di grande rilevanza. Anzitutto, la gestione del territorio all’insegna dell’antropocentrismo: l’umano – anzi, gli umani che comandano – che si erge a padrone assoluto dei boschi disponendone a proprio piacimento per trarne profitto. Poi, la resistenza degli individui che reclamano l’autodeterminazione violando i confini, quegli steccati che impediscono la libertà di movimento tanto dei/lle migranti quanto dei non umani.

Una resistenza che finalmente anche i movimenti antispecisti hanno cominciato ad osservare senza quel paternalismo che ha caratterizzato l’animalismo “classico”, in cui gli animali sono considerati delle vittime da salvare e “noi” gli umani di buona coscienza. Per questo, nella lotta contro la gabbia Casteller, gli umani si stanno ponendo al fianco e non al di sopra degli orsi ribelli. Infine, si è aperta la possibilità di ridefinire la convivenza fra specie e comunità sul territorio alpino, una coabitazione fatta di rispetto dei bisogni altrui, di conoscenza delle sue abitudini, di cura nella ricerca di soluzioni non conflittuali perché la montagna non è solo degli umani e, soprattutto, non è dei governanti che in essa non vedono altro che una fonte di consenso o di profitto.

Per info sulla prossima manifestazione nazionale a Trento e sulla campagna StopCasteller: assembleantispecista.noblogs.org.

Assemblea Antispecista

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