Iniziano i rilasci di acqua radioattiva dalla centrale di Fukushima
Anni fa, quando lessi per la prima volta che TEPCO, la società giapponese che tuttora gestisce la centrale nucleare di Fukushima, prendeva in considerazione la possibilità di scaricare, sistematicamente, le acque contaminate nell’oceano, prendevo atto di quanto la stessa non fosse in grado di fronteggiare le conseguenze del disastro. Allo stesso tempo, consideravo quell’ipotesi come possibile strumento di pressione nei confronti del governo giapponese, magari per ottenere nuovi finanziamenti o normative meno restrittive nella conduzione delle operazioni di messa in sicurezza di quello che rimaneva dell’impianto. Confidavo, comunque, in qualche opzione alternativa e con un minor impatto ambientale.
Invece, nell’aprile 2021 il governo del Giappone ufficializzava la sua politica concernente lo smaltimento delle cosiddette ALPS Treated Water (Advanced Liquid Processing System) vale a dire delle acque che, seppur dopo un trattamento, risultano ancora radioattive. Le speranze di una diversa soluzione sono, quindi, andate deluse e dal 24 agosto ‘23 sono iniziati gli sversamenti nell’oceano Pacifico proprio di fronte alla centrale nucleare di Fukushima Daiichi.
Ma da dove arriva quest’acqua che ora deve essere smaltita?
Da che l’impianto è andato fuori controllo con le esplosioni che hanno danneggiato i contenitori dei reattori e messo fuori uso i circuiti di raffreddamento delle quattro unità che costituivano la centrale, è stata costantemente immessa acqua per raffreddare il “combustibile” radioattivo, i detriti e le strutture contaminate.
All’acqua volontariamente introdotta si deve aggiungere quella che scorre naturalmente nel sottosuolo oltre a quella che cade sulla centrale attraverso le precipitazioni atmosferiche. Si tratta di acqua che, dopo il contatto con materiali radioattivi, si contamina a sua volta e per questo deve essere raccolta e trattata o, comunque, immagazzinata per evitare che si disperda nell’ambiente. Tra l’altro, anche se negli anni sono state costruite delle barriere, non si può escludere che il sistema di contenimento dei fluidi radioattivi presenti delle falle per cui è possibile che, attraverso una seppur lenta infiltrazione, acqua non trattata abbia raggiunto quotidianamente il mare già a partire dai giorni immediatamente successivi allo tsunami dell’11 marzo 2011.
L’acqua recuperata attraverso sistemi di pompaggio (nei primi tempi si quantificava una produzione intorno ai 540 m3/giorno oggi sono scesi a 92 m3/giorno) è inviata in appositi serbatoi prima di subire il trattamento di parziale decontaminazione. Nel report dell’IAEA (1) si legge che, grazie a un sistema di “filtraggio”, vengono prima rimossi Cesio e Stronzio e poi altre 62 diverse tipologie di radionuclidi. Per loro stessa dichiarazione, piccole quantità di questi radionuclidi non vengono “catturati” ed insieme a loro rimane tutto il Trizio. Il Trizio è un atomo d’idrogeno radioattivo con un’emivita di 12.32 anni (vale a dire che dopo 12.32 anni la quantità d’isotopi radioattivi si dimezza e così ancora nei successivi periodi). Può entrare nel corpo umano attraverso ingestione o inalazione, dove può persistere per un paio di settimane esercitando, potenzialmente, la sua azione mutagena attraverso l’emissione di particelle beta. Essendo l’idrogeno un componente della molecola di acqua diventa tecnologicamente complesso eliminare i suoi isotopi radioattivi (esistono tecniche che vengono applicate quando ci sono elevate concentrazioni di Trizio in piccole quantità di acqua, ma questo non è il caso di Fukushima).
Dopo il trattamento l’acqua deve essere trasferita in un’altra serie di contenitori in cui, fino ad ora, è stata immagazzinata (al giugno 2022 se ne contavano circa 1000 con una capacità di stoccaggio di 1,3 milioni di m3).
Ovviamente, le superfici disponibili all’interno del perimetro dell’impianto di Daiichi per l’accumulo delle acque trattate, ma ancora radioattive, non sono infinite, come non sono illimitate le disponibilità di capitali da impegnare in questo “pozzo senza fondo”. E’ per questo che, nell’aprile 2021, il governo giapponese ha assunto la decisione di scaricarle in oceano attraverso i cosiddetti rilasci controllati.
Una piccola parentesi per ricordare che gli isotopi radioattivi “estratti” dalle acque non spariscono ma dovranno essere a loro volta messi in sicurezza, per il momento vengono stoccati negli High Integrity Containers adatti a conservare rifiuti radioattivi per 300 anni.
Il governo giapponese ha richiesto una sorta di supervisione da parte della IAEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica), lo scopo, a mio parere, è quello di avere una “copertura” nei confronti di possibili contestazioni conseguenti a questi rilasci, sia per quanto riguarda la tutela dell’ambiente e della salute delle persone, sia per anticipare possibili tensioni internazionali visto che quella di scaricare nell’oceano è una decisione unilaterale del governo nipponico. Non a caso Cina e Corea del Sud hanno già espresso la loro contrarietà. La Cina richiede un controllo indipendente sulle analisi delle acque, una richiesta quasi banale, direi, vista l’attenzione con cui più volte tanto la TEPCO che la IAEA hanno sottolineato la necessità di garantire informazione e trasparenza. “Se quest’acqua radioattiva è sicura, non c’è bisogno di scaricarla in mare. Se non è sicura, non si deve scaricarla”, ha detto il portavoce del ministro degli Esteri Wang Wenbin. Certo si tratta di una semplificazione, ma la dichiarazione ha una sua logica. Teniamo presente che queste operazioni di “rilascio controllato” proseguiranno per decenni e non si possono prevedere effetti a lungo termine soprattutto nel caso di eventuali fenomeni di amplificazione biologica che causerebbero la concentrazione di radionuclidi all’interno delle catene alimentari.
Allo scopo di ridurre l’impatto che questa operazione potrebbe avere sull’opinione pubblica, sul sito della IAEA nelle FAQ’S si legge che: “Most nuclear power plants around the world routinely and safely release treated water, containing low level concentrations of tritium and other radionuclides to the environment as part of normal operations” Vale a dire che: “La maggior parte degli impianti nucleari sparsi per il mondo rilascia in ambiente, regolarmente e in sicurezza, acque trattate che contengono basse concentrazioni di Trizio ed altri radionuclidi come parte delle normali operazioni”. Della serie…fanno emergere un po’ di verità sulle pratiche che regolarmente sono adottate nella normale gestione di un impianto nucleare allo scopo di minimizzare gli effetti di un’ulteriore porcheria.
Ci si può accontentare di questa “magra consolazione”?
Allo stesso modo non si possono considerare come tranquillizzanti le dichiarazioni del direttore generale IAEA Rafael Mariano Grossi che ha ricordato come da tempo sia al lavoro una task force formata da undici esperti internazionali che, tra gli altri compiti, avrà quello di condurre accertamenti per corroborare i dati pubblicati dal governo del Giappone/TEPCO agendo come fonte indipendente poiché si appoggerà a laboratori di terze parti.
Non possiamo certo considerare la IAEA come ente indipendente, non solo perché è un’organizzazione che nasce a supporto dell’utilizzo dell’energia nucleare, ma anche perché nel report rilasciato il 4 luglio scorso azzardava già una conclusione sostenendo che lo scarico delle ALP treated water, programmato dalla TEPCO, avrà un trascurabile impatto radiologico sulle persone e sull’ambiente. Senza speculare su cosa si debba intendere con l’aggettivo “trascurabile”, dobbiamo chiederci che valore scientifico può avere una tale affermazione senza disporre di alcun dato, in relazione ad un’operazione pianificata su due o tre decenni.
Il fatto è che non possono dire diversamente, altrimenti dovrebbero ammettere che il nucleare cosiddetto civile, una tecnologia molto costosa e rischiosa di per sé, in caso d’incidente diventa assolutamente insostenibile da tutti i punti di vista.
MarTa
Note: (1) https://www.iaea.org/sites/default/files/iaea_comprehensive_alps_report.pdf