Sabato 24 settembre, in collegamento con la manifestazione nazionale di Roma, si è svolto a Udine il presidio indetto dal Coordinamento Libertario Regionale del Friuli-Venezia Giulia. Circa 70 le presenze di fronte alla stazione dei treni; un presidio molto comunicativo con esposizione di striscioni, mostra fotografica e video sulla situazione nelle regioni in cui è attiva l’alternativa curda ai nazionalismi. Durante il presidio è stato distribuito un dossier in 500 copie, l’articolo seguente è l’introduzione che apre il dossier.
Il 19 luglio del 2012 le regioni della Rojava, il Kurdistan siriano, proclamarono l’autonomia, dando vita ad una rivoluzione di segno chiaramente libertario, che è divenuta l’unico baluardo contro lo Stato Islamico, le formazioni quaediste e il regime del Baath, il partito della dinastia Assad. La resistenza all’assedio di Kobanê e la liberazione della città tra il settembre del 2014 e il gennaio del 2015 ha acceso i riflettori su quest’angolo di Siria. La Turchia dell’islamista Erdogan, ha sostenuto – sia pure non ufficialmente – l’ISIS in Siria ed ha poi scatenato una vera guerra civile in ampie zone del Bakur, il Kurdistan turco. Molte città a maggioranza curda sono state messe sotto coprifuoco, bombardate e rase al suolo, causando centinaia di morti, profughi, senza casa. Lo scorso luglio, il fallito colpo di stato, verosimilmente animato dai seguaci del ex alleato islamista Fethullah Gulen, ha dato mano libera al governo turco contro ogni forma di opposizione sociale. Sono decine di migliaia le persone licenziate, imprigionate, e torturate; sono decine le sedi politiche e i giornali chiusi. Nonostante tutto gli uomini e le donne in armi del YPG e YPJ (le milizie di autodifesa) hanno continuato a difendere il proprio progetto alternativo dalle truppe dell’ISIS, da quelle turche, di Al Nusra e dell’esercito fedele ad Assad e a liberare sempre maggior territorio siriano. Il mese di agosto poteva segnare una svolta: la liberazione di Manbij (Manbic), con gli uomini e le donne festanti, finalmente in grado di togliersi i simboli del dominio – barba e burka -, ha segnato un importante successo politico e militare delle YPG, componente maggioritaria delle Forze Democratiche Siriane (SDF). Mancava un ultimo tassello, quello a cui le milizie curde hanno sempre mirato dalla liberazione di Kobane in poi, quello che il governo statunitense ha sempre osteggiato: la liberazione di Jarablus. Basta un rapido sguardo sulle carte geografiche per rivelare la sua importanza strategica. Se questa città, al confine con la Turchia, fosse stata liberata dalle YPG e JPG, sarebbe stato chiuso il “corridoio meridionale”, fondamentale passaggio per i rifornimenti turchi all’ISIS e ad altri miliziani islamisti, e, in senso inverso, per il greggio dai campi petroliferi controllati da Daesh. Jarablus avrebbe portato a collegare il cantone di Afrin con quello di Kobanê, dando un continuum territoriale all’area in cui si sta sperimentando la rivoluzione. A quel punto i curdi in Turchia avrebbero sicuramente tentato di unirsi ai fratelli oltre-confine per creare la tanto ambita Federazione del Kurdistan unito e indipendente. Queste sono le reali minacce a cui Erdogan vuole dare una risposta, non certo andare contro al suo alleato “ombra” Daesh. Prova ne è che, finora, nessuna postazione dei jihadisti è stata davvero bombardata dall’esercito di Ankara oltreconfine, la stessa Jarablus è stata occupata senza nessun combattimento visto che l’esercito turco ha trovato una città deserta.
Secondo un comunicato del Consiglio Esecutivo del Congresso Nazionale Curdo: “Lo Stato turco sta operando in collaborazione con la milizia di Jabhat Fatah al-Sham (ex-Al Nusra) affiliata ad Al-Qaeda e con l’ISIS. Jarablus è stata presa grazie ad un accordo tra le parti.” Erdogan ha preparato bene l’invasione in Siria, è volato in Russia per assicurarsi che l’asse russo-siriano-iraniano non avrebbe appoggiato la creazione di una regione autonoma curda e non avrebbe interferito con l’azione turca contro le YPG e le SDF. È riuscito anche ad ottenere che gli statunitensi facessero una sorta di sgambetto ai loro temporanei alleati curdi, ponendo fine alla breve alleanza tattica. Gli Stati Uniti “hanno usato i curdi” e poi “li hanno abbandonati” come è già successo in passato, sono eventi “che si trascinano ormai da un secolo”, anche Saywan S. Barzani, ambasciatore irakeno in Olanda, parla di “guerre di procura” combattute in Medio oriente “fra diversi Paesi, dietro i quali vi sono americani e russi”. Serve “un accordo”, aggiunge, fra “le due potenze mondiali… Usano la religione e le ideologie per una guerra di economia e di influenza”. L’8 settembre il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu, presente il suo omologo saudita, ha dichiarato che: “La Turchia sta preparando la più grande operazione militare della sua storia contro le milizie curde.” Del resto sono due anni che Erdogan chiede la creazione di una ‘zona cuscinetto’ lungo il confine turco in cui poter sbattere i profughi siriani in fuga dai combattimenti, riuscendo così ad esaudire le richieste dell’Europa e di fatto procedendo ad una seconda arabizzazione dell’area. Una vera dichiarazione di guerra ad un popolo che vuole solo la pace e poter vivere in armonia con il territorio e con le comunità che già lo abitano. Una guerra senza confini. In patria dopo i coprifuoco, le distruzioni e gli eccidi commessi dall’esercito turco nelle città a maggioranza curda, ora Erdogan sta continuando una pulizia etnica più democraticamente accettabile fatta di incarcerazioni, torture, e, in questi ultimi giorni, il commissariamento di 38 municipi e la sospensione di 11.285 insegnanti curdi e chi sa quanti nella pubblica amministrazione. In contemporanea continuano gli attacchi ai villaggi siriani di confine, per la prima volta anche nel cantone di Afrin. L’apparente immobilismo occidentale continua in realtà a sostenere la dittatura di Erdogan, mantenendo il PKK (partito dei lavoratori del kurdistan) nella “lista nera” delle organizzazioni terroriste, fregandosene della prigionia di Öchalan, in barba a qualsiasi pretesa di rispetto dei diritti umani.
Chiaro è che nessuno vuole appoggiare l’alternativa curda. Una alternativa basata sull’autogestione e le decisioni prese dal basso in contrapposizione alla logica del dominio degli Stati nazione. Un’autonomia alternativa quindi anche alle politiche delle grandi potenze coinvolte che privilegia le cooperative e un’economia su piccola scala, i consigli di quartiere e di villaggio e soprattutto che mette al centro di ogni suo agire la lotta al patriarcato e il protagonismo delle donne nella vita politica e sociale. Il silenzio complice anche dell’Europa, non è dettato da considerazioni politiche di ampio respiro ma piuttosto, come sempre, dal vil denaro. Chi rende la Turchia affidabile e intoccabile sono gli interessi economici, non solo nel campo militare, vedi la collaudata partnership della Turchia con Finmeccanica. Il settore civile è un’altra gallina dalle uova d’oro, basti pensare alla nostra regione che se pur così piccola ha dei rapporti economici importanti con lo stato turco.
ll porto di Trieste è uno dei porti italiani maggiormente coinvolto nel traffico merci con la Turchia. L’Acciaieria Fonderia Cividale ha avuto ben due commesse milionarie proprio dalla Turchia, grazie alla joint venture composta dalla turca Ictas Insaat e dall’italiana Astaldi. Ancor più dopo il fallito golpe, il presidente turco Erdogan si sente di essere, e a ragione, in una situazione vincente. La distruzione della Siria ed il massacro di centinaia di migliaia di siriani è un sinistro avvertimento. Gli Stati faranno poco o nulla per impedire il massacro del popolo curdo e la Rojava potrebbe essere invasa se Erdogan dovesse scatenare la potenza militare del suo esercito. La necessità di solidarietà col popolo curdo, non è mai stata così urgente.
Ora più che mai dobbiamo far sentire la nostra voce: basta con questo macabro baratto tra vittime e posti di lavoro.
Coordinamento Libertario Regionale