La campagna elettorale per le presidenziali statunitensi di questo anno è caratterizzata dall’essere sicuramente una delle più squallide di sempre. Mentre ci si concentra sui dati estetici – come lo squallore di molte dichiarazioni di Trump – si perdono di vista alcuni punti che invece, ad un’analisi meno superficiale, risaltano.
Il dato che emerge con più forza è la profonda crisi delle strutture partitiche dell’Unione. Il processo delle primarie ha visto Trump vincere sugli altri candidati repubblicani alleandosi con il Tea Party e attivizzando fasce di elettorato allontanatesi dal Great Old Party, quelle legate all’alternative right, o rendendosi appetibile per nuovi gruppi, quelli legati alla confusionaria ideologia del dark enlightment. Hillary Clinton ha vinto le primarie del Democratic Party sconfiggendo il rooseveltiano di sinistra, unico senatore statunitense a dichiararsi socialista, Bernie Sanders, fin dalle prime fasi impostosi come unico altro candidato alternativo credibile alla Clinton. In questo processo le strutture dei due partiti sono entrate in crisi. Il Republican Party si sta ancora chiedendo come è possibile che suoi esponenti di punta siano stati spazzati via da Trump, che al GOP non è mai stato organico, il Democratic Party è a prima vista più coeso ma le sue strutture sanno che la redde rationem è dietro l’angolo. I leaks delle mail del il comitato elettorale del Partito Democratico hanno dimostrato quello che già si sapeva: la burocrazia del partito ha fatto di tutto per sconfiggere Sanders dicendo apertamente che se c’era da brogliare e falsificare il processo delle primarie questa era l’unica cosa da fare. Il partito dei Clinton vince le primarie ma il Democratic Party ne esce destrutturato: probabilmente con le elezioni dell’otto novembre il processo andrà ulteriormente avanti.
Bernie Sanders aveva avvicinato al Democratic Party fasce di elettorato giovanile, sostanzialmente era riuscito a recuperare una buona parte di coloro che parteciparono ad Occupy Wall Street ed a stabilire saldi legami con i sindacati. Inoltre il suo nome è stato appetibile per tutti i leftist-liberals che non amano la Clinton a causa della sua politica fortemente guerrafondaia. Difficilmente molti di quelli che avevano appoggiato Sanders faranno convergere il loro voto su Clinton: troppo differenti le proposte politiche, troppo differente l’immaginario di riferimento.
La frammentazione ed il sostanziale collasso delle due burocrazie di partito porteranno ad un probabile aumento di sfiducia dell’elettorato statunitense. Se già il tasso di astensione è storicamente tra i più alti nel mondo occidentale, è probabile che a novembre crescerà ulteriormente e che vi sarà un ulteriore tracollo dei votanti nelle prossime elezioni di middle-term nel 2018.
Altro dato che emerge è il livello di competitività tra i due candidati. D’altra parte i loro programmi sono assai distanti: isolazionista, disposto ad un accordo con la Russia, teso al rilancio della manifattura made in USA quello di Trump; fortemente interventista, teso al contenimento attivo della Russia, tecnocratico-finanziario quello di Hillary Clinton. Appunto sulla questione tecnocrazia e burocrazia si sta giocando un’importante partita.
I due “candidati rivelazione” di queste elezioni, Bernie Sanders e Donald Trump, hanno fatto entrambi riferimento ad un immaginario che critica la burocrazia tecnocratica che è stata l’asse portante degli ultimi decenni negli USA. Questo tema è presente sottotraccia dagli anni quaranta, ovvero da quando James Burnham pubblicò The Managerial Revolution. In questo libro, che prende le mosse dalla seminale opera di Rizzi sul collettivismo burocratico, l’autore, esponente di spicco della quarta internazionale migrato su posizioni conservative, traccia le basi per la critica dei conservatori statunitensi alle strutture socio-politiche contemporanee, ovvero lo stato social-democratico emerso dal New Deal. Lo stato social-democratico negli USA è morente da decenni ma è stato sostituito non da un mondo modellato sulle bieche fantasie di Ayn Rand ma bensì da un sistema economico-politico dominato da grande industria manageriale e dalla tecnoburocrazia delle agenzie federali. La cosa buffa è che Trump è fondamentalmente un palazzinaro-finanziere che in questo mondo criticato dall’alternative right ha aumentato le già cospicue ricchezze familiari. Ora strizza l’occhio all’alt-right fondata sul pensiero di Burnham. Bernie Sanders, d’altra parte, è un politico di lungo corso che vuole il rilancio pacifico dello stato sociale rooseveltiano e critica l’evoluzione tecnoburocratica del complesso militar-industriale. Come se fossero state solo dighe, inflazione e ponti e non anche il volano economico della Seconda Guerra Mondiale a togliere definitivamente dal pantano l’economia statunitense dopo la crisi del ’29.
Quello che ci dimostrano l’inaspettato successo di Sanders, che ha quasi vinto le primarie democratiche, e di Trump, che ha sbaragliato i candidati più interni all’estabilishment repubblicano, è che vi è una profonda scollatura tra le istituzioni statunitensi e i cittadini.
Altra questione largamente ignorata ma fondamentale: l’alleanza tra tecnocrati dell’apparato militare-industriale e le chiese evangeliche della Bible Belt non ha retto. Se questa alleanza aveva espresso la dinastia Bush e supportato con molte energie Reagan, ora è entrata in crisi. D’altra parte in crisi è andato proprio il progetto geopolitico su cui questa alleanza puntava: il Nuovo Secolo Americano non si è avverato. Le Guerre del Golfo e l’intervento in Afghanistan si sono arenati in quasi tre lustri di guerriglia, la posizione nel Pacifico è stata messa in discussione dalla Cina, la Russia ha ripreso forza, la crisi del 2008 ha fatto il resto. Tanti saluti al mondo unipolare immaginato dai Cheney e dai Rumsfield: chi porta avanti questa visione è ormai più hillary Clinton che l’attuale Republican Party.
Donald Trump pensa di poter riportare gli USA ad una politica isolazionista che permetta un disimpegno dal teatro mediorientale: gli idrocarburi possono arrivare dai prodotti di scisto statunitensi e canadesi e dal cortile di casa centro-sud americano, alla peggio si possono riaprire le miniere di carbone. La sfida vera per lui è il rilancio della manifattura statunitense nonché il conseguente contenimento della Cina e dei paesi a rapido sviluppo industriale del sud-est asiatico. In questa ottica un accordo con il Cremlino è possibile ed auspicabile.
Hillary Clinton invece, come dicevamo, è profondamente anti-russa e questo avrà ripercussioni sull’Europa. Per quanto tempo ancora i paesi principali dell’Unione Europea, Germania, Italia, Francia, che hanno tutti e tre interessi a rilanciare accordi accordi commerciali, energetici e politici con Putin reggeranno il bordone alla politica statunitense in Siria ed Europa Orientale? In un articolo su Limes (agosto-settembre 2016) ci si chiedeva se davanti alla proposta statunitense a guida Clinton di ulteriori pesanti sanzioni alla Russia per le questioni Ucraina e Siria le classi dominanti europee saranno disposte a piegare ulteriormente il capo per “doveri di alleanza”. Di più: nell’articolo si paventava direttamente una crisi euro-atlantica che nei fatti rimetterebbe in discussione la NATO nella sua forma attuale. Questioni interessanti e fondamentali che dovrebbero occupare il dibattito molto più delle dichiarazioni pro-Clinton di qualche star dello spettacolo.
Il quadro che emerge da questa tornata elettorale è quello di una società divisa. Se Trump gioca la carta del razzismo e strizza soventemente l’occhio al suprematismo bianco, la Clinton ed il blocco di potere mediatico aggregato intorno a lei utilizza i più classici topoi dell’èlitismo liberal per screditare i supporter del suo avversario. L’elettorato di Trump viene rappresentato come composto da burini razzisti illetterati ed impoveriti, un esercito di desperados bianchi che minaccia l’utopia multiculturale – ovviamente il fatto che negli USA il razzismo sia un fenomeno strutturale viene taciuto – che secondo alcuni sarebbe stata costruita in questi otto anni di presidenza Obama. Non è così: la base elettorale di Trump è interclassista ed eterogenea. Vi sono frazioni di classe dominante, industriali che vedono come una manna le possibilità di eliminare vincoli ambientali, pezzi del settore dell’Information Technology che afferiscono all’ideologia del dark enlightment, ceto medio in via di impoverimento e membri della working class attirati dal programma di rilancio dell’economia proposto dal miliardario. Come collante un diffuso sentimento di diffidenza e di aperta ostilità nei confronti dell’ideologia liberal del politically correct che nasconde i problemi sotto il tappeto. Come ha efficacemente scritto qualcuno se si volesse utilizzare una metafora clinica Trump è un sintomo mentre la Clinton rappresenta la patologia. Una campagna elettorale quindi che si gioca tutta sul filo delle politiche identitarie.
Vinca la Clinton, come probabile, o vinca Trump il quadro rimarrà fosco: entrambi i candidati rappresentano gli interessi della classe dominante, seppur di due frazioni differenti. Per inciso, sono stati amici di famiglia per anni. La decomposizione del corpo sociale avanza: il gap di reddito si ampia costantemente, la violenza poliziesca è aumentata progressivamente negli ultimi anni, la sorveglianza di massa è sempre più capillare, la crisi ambientale è dietro l’angolo.
Lorcon
Post Scriptum: su questi temi in http://tinyurl.com/zjwewlj è possibile ascoltare il podcast dell’intervento all’autore del presente articolo su Anarres, trasmissione di approfondimento informativo di Radio Blackout.