Incuriosita dal titolo – Santa Anarchia! Demolire il dominio, dare corpo alla comunità, amare lo straniero – ho acquistato e letto il volume di Graham Adams (Bologna, EDB, 2025). Mi sento in dovere di sconsigliarlo caldamente e di mettere in guardia compagni e compagne affinché non commettano lo stesso duplice errore che ho fatto io. O, per lo meno, scelgano di farlo con piena consapevolezza. Il libro si è rivelato una lettura oggettivamente faticosa, appesantita tra l’altro da uno sviluppo delle riflessioni discontinuo, frammentario, poco sistematico e, nel contempo, ridondante. Ogni capitolo – otto in tutto – si apre con un passo biblico (a volte anche due, per non farsi mancare nulla). Ma è l’intero testo che trabocca di linguaggio biblico, rimandi scritturali e immagini da catechismo illustrato. È questo il monocorde mondo concettuale in cui l’autore si muove, pensa e si esprime: un universo teologico in cui l’anarchia promessa nel titolo si dissolve tra salmi e invocazioni. A intervallare il tutto ci sono infatti ben 17 inni – sì, proprio inni: preghiere, canti di lode, suppliche – tutti rigorosamente composti dall’autore. Il risultato? Un libro profondamente religioso, teologico e biblico. Ma ben poco anarchico.
Non viene citato neanche uno dei classici teorici dell’anarchismo: niente Bakunin, Proudhon, Malatesta, Goldmann, Kropotkin, Reclus. Nessuno. Nemmeno Tolstoj! Zero. L’unico a fare una fugace comparsa – relegato in ben quattro note a piè di pagina – è Jacques Ellul. I veri riferimenti teorici dell’autore? Due teologi contemporanei: il suo diretto maestro, l’anglicano britannico Andrew Shanks, e John Caputo, statunitense di formazione cattolica e fondatore della cosiddetta “teologia debole”. Manca, insomma, qualunque confronto con la tradizione filosofica anarchica: durante la faticosa lettura ho avuto l’impressione di essere stata ingannata e sequestrata, costretta a seguire controvoglia un seminario di teologia postmoderna. Nelle quasi trecento pagine non vi è il minimo tentativo di dialogo con il pensiero libertario. Solo il titolo è, purtroppo, un’efficace esca. Per altro l’espressione “Santa Anarchia!”, con la specificità del punto esclamativo, si ispira, come espressamente dichiarato dall’autore, a Robin, l’assistente di Batman (a p. 19 del libro). Questi sono i solidi riferimenti teorici dell’autore.
L’autore compie un’operazione di makeover teologico, appropriandosi del termine anarchia per trovare un linguaggio migliore e dare una rinfrescata all’espressione “Regno di Dio”. Evidentemente, “re”, “regno”, termini con chiara accezione di genere e verticista, non hanno un grande appeal oggi, così si parte alla caccia di sinonimi più accattivanti e di maggiore presa. Del resto, “il linguaggio della sovranità, del controllo e del governo è completamente inadeguato”, scrive Adams (p. 32).
Il cuore della proposta è, sostanzialmente, un rebranding: via “Regno di Dio”, avanti “Santa Anarchia!” – perché anche l’anteriore proposta di sostituire “Regno di Dio” con “famiglia di Dio” suona ormai un po’ troppo da bollettino parrocchiale. L’importante è, quindi, aggiornare il packaging. Ma la sostanza resta quella: si parla ancora di adesione e obbedienza a Dio. Altro che anarchia. (cfr. “Che sia sacra o santa, il punto è che la vera anarchia è divina: è una condizione, uno stato di cose o una realtà in cui si compie la volontà di Dio”, p. 32). A un certo punto l’autore arriva perfino a identificare la “Santa Anarchia” con la resurrezione di Gesù (pp. 257-258).
L’autore tenta poi di riformulare anche l’immagine di Dio, descrivendolo come divinità che agisce attraverso una “straordinaria debolezza” (capitolo IV). Adams cerca inoltre di conciliare questa visione con l’evoluzionismo darwinista, presentando Dio come un essere incompiuto, in continuo divenire e dinamico. Allo stesso tempo, si impegna a districarsi tra le diverse esperienze – tanto storiche quanto contemporanee – in cui il cristianesimo non è stato soltanto complice o collaboratore, ma componente fondamentale e attiva nelle strutture di potere, dominio e oppressione (ad esempio, il colonialismo). Come se non bastasse, nel volume, il termine anarchia viene nel contempo spesso usato come sinonimo, seppur in senso positivo, di disordine, incompiutezza, mescolanza, confusione e persino impurità (p. 25). Tuttavia, si trascura il fatto che, secondo Proudhon, “l’anarchia è l’ordine senza potere”, e per Reclus “l’assenza di governo, l’anarchia, è la più alta espressione dell’ordine”. Ma ho il forte sospetto che l’autore ignori anche queste formulazioni, che pur rappresentano l’abc del pensiero anarchico.
Adams, che spesso indugia su dettagli biografici ed episodi quotidiani da cui pretende di poter trarre grandi rivelazioni teologiche, è pastore di una chiesa cristiana congregazionalista inglese. Nel volume egli parla di solidarietà, di reciproca ospitalità, di “bambinità”, di vicinanza empatica, sollecita l’apertura verso le esperienze, il dolore e le potenzialità degli altri (p. 185). Invoca uno “spazio in cui si possano ascoltare i lamenti delle persone” (p. 182). Tutto condivisibile. Il problema è però che evita completamente di affrontare nella prassi le soluzioni e, nello specifico, il tema della proprietà: e della gestione delle risorse e dei mezzi di produzione. Propone genericamente concetti come “il palmo aperto”, “la verità in divenire”, “la scelta della debolezza”, ma mai sostiene l’opzione nitida della lotta o del conflitto. Anzi, si invita all’amore per i nemici (p. 242). Non sorprende, quindi, che l’autore, in modo coerente ma forse poco efficace, si affidi alla preghiera con la speranza che si realizzino i suoi auspici sul mondo presente e sul mondo futuro (p. 208).
FT