Fascismo eterno?
I lemmi “fascismo” e, di conseguenza, “antifascismo” travalicano ormai, nel comune sentire come nella koinè quotidiana, i limiti spazio-temporali che sarebbero loro formalmente assegnati. Tuttavia si deve prendere atto della loro incommensurabile capacità evocativa che, potenza delle parole e del linguaggio che definisce la realtà che viviamo, ce li fa sentire sempre presenti. Nel 1993, intervistando Edera Sassi, figlia di un noto sindacalista anarchico dei minatori, le chiedevo notizie sulle origini della famiglia (che, a fine Ottocento, gestiva un’osteria in Romagna, ritrovo di sovversivi). La risposta fu che vantavano una grande “tradizione antifascista”, usando evidentemente in maniera impropria quel termine. “Sì – puntualizzava lei – il fascismo ancora non c’era, ma loro erano antifascisti lo stesso!”. A distanza di trent’anni sono sempre più propenso a pensare che, tutto sommato, quella inesatta dilatazione ex-post così estesa e innaturale dei tempi storici possa comunque essere utile a comprendere meglio le continuità istituzionali che sempre ci sono state nelle mutazioni di regime. E vale anche per i passaggi ne “L’Italia e i suoi tre stati”, così ben descritti da Massimo L. Salvadori in un suo fortunato saggio: lo Stato monarchico, lo Stato fascista e lo Stato democratico repubblicano. Ad esempio, la continuità nelle funzioni amministrative statuali nella transizione drammatica dal fascismo alla democrazia fu, in effetti, un dato innegabile, come ha documentato Claudio Pavone. Ne furono riprova le modalità di epurazione attuate nei corpi di polizia fino a dopo la Resistenza; mentre i funzionari già appartenenti ai vari ispettorati speciali furono riammessi in servizio e i prefetti fascisti rimanevano al loro posto.
Venendo all’oggi, è del tutto intellegibile, come ha sottolineato Andrea Rapini in “Piombo con piombo”, che “nel nostro paese esista una specie di grande archivio plastico, elastico, mobile, un grande archivio fascista, fatto di memorie, di miti e anche di riti, di immagini e di immaginario che, dalla fine del fascismo e della guerra, ha dimostrato una grande vitalità, una sua persistenza. Una persistenza e una capacità di riattivarsi, di trasmettersi di generazione in generazione, di rideclinarsi con una sua presa sul presente. Tale vitalità dimostra il radicamento, l’importanza storica del fenomeno fascista nel ventennio fra le due guerre mondiali e la profondità di quell’esperienza nella storia di questo paese”. E spesso succede quindi che anche eventi che non abbiano un’attinenza diretta con il fascismo storico peschino in realtà da questo ‘archivio’. Che poi si giustappone, e si intreccia, ad un altro archivio molto più ampio, quello coloniale, che precede quello del Ventennio e proseguirà ben oltre la Seconda guerra mondiale. Entrambi gli archivi si riverberano così sul presente. Nel medesimo volume Paul Corner: “Quando ero studente in Inghilterra, negli anni Sessanta, ciò che era successo ottant’anni prima, mettiamo la guerra dei Boeri della regina Victoria, era preistoria per noi. Ma oggi, in Italia, il fascismo e ancora attuale. Ecco il problema principale. Perché non riusciamo a venir fuori dalla situazione in cui il fascismo sembra sempre una delle opzioni possibili della politica corrente? Davvero un passato che non passa”. Siamo dunque al “Fascismo eterno” evocato in un noto pamphlet di Umberto Eco?
1943-1945: una mappa italiana
Le coinvolgenti esperienze vissute, con il primo antifascismo armato degli Arditi del Popolo, nella guerra di Spagna, i tentativi falliti di attentare alla vita di Mussolini, agognavano differenti epiloghi. La spinta decisiva veniva dai confinati. Si trattava di un nutrito gruppo di anarchici, ancora relegati nelle isole, soprattutto a Ventotene, militanti ormai temprati dalle battaglie, in molti casi già estradati dalla Francia (dal famigerato campo di concentramento di Vernet d’Ariège, vera “vergogna democratica”), dopo aver partecipato alla rivoluzione libertaria spagnola ed essere stati doppiamente sconfitti, dai franchisti e dallo stalinismo.
Dopo un primo convegno clandestino tenutosi nel 1942 si era ulteriormente infittita la rete di contatti, in particolare nell’Italia centrale dove i punti di riferimento dell’attività clandestina erano Pasquale Binazzi (già redattore de “Il Libertario”) e Augusto Boccone da Firenze. E fu proprio nel capoluogo toscano – mentre giungevano notizie incoraggianti sui primi scioperi operai nelle fabbriche del nord – che si riunivano, il 16 maggio 1943, i delegati per l’assemblea costitutiva della Federazione Comunista Anarchica Italiana. Nell’occasione si dava ampia diffusione a un manifestino contenente un appello ai lavoratori e il “programma minimo” della neocostituita federazione. In esso si ribadivano i punti cardine sui quali incentrare la lotta: rifiuto della guerra in quanto prodotto del sistema capitalistico; appoggio ad ogni forma di opposizione al regime nell’ambito di un antifascismo intransigente; per la libertà di pensiero, di stampa, di associazione e anche contro ogni forma possibile di dittatura rivoluzionaria transitoria; contro la monarchia e per la costituzione di “libere federazioni di comuni, autonomi, composte di liberi produttori”. Si tennero, allo stesso tempo, incontri segreti fra delegazioni ristrette di anarchici ed esponenti del partito comunista per sondare la possibilità di azioni operative comuni. Non si hanno notizie precise in merito, ma si sa solo che il risultato “fu un fiasco”. Bruciavano forse le ferite ancora aperte della Spagna.
La caduta del fascismo, l’avvento della nuova dittatura militare di Pietro Badoglio con il 25 luglio e il suo proclama agli italiani sulla guerra che continua, con l’avvertenza esplicita alla sinistra che “chiunque si illuda di turbare l’ordine pubblico, sarà inesorabilmente colpito”, fecero surriscaldare il clima di impaziente attesa fra i confinati. La cosiddetta Storia dei 45 giorni, iniziandosi con il coinvolgimento in ambito governativo di un comitato delle opposizioni antifasciste, vedeva una risoluzione solo parziale della questione confino. Così a Ventotene, colonia diretta da Marcello Guida (futuro questore dell’Italia democratica a Milano nel 1969), rimanevano solo circa duecento anarchici e prigionieri non conformi, che venivano poi instradati verso il campo (fascista fattosi badogliano) di Renicci d’Anghiari in Toscana, riservato a ospitare gli slavi. Da lì si ebbe, con l’8 settembre e l’imminente arrivo dei tedeschi, dopo vari episodi di rivolta, una fuga di massa dei prigionieri. La maggior parte degli anarchici confluiva quindi nella Resistenza.
Nel 1943-1945 era tornata anche “Umanità Nova”, con decine di numeri e migliaia di copie di tiratura stampate a Firenze, Genova e Roma, come bandiera dell’insurrezione armata antifascista, dell’opposizione alla dittatura militare alleata. Dalla Genova dei portuali vero epicentro della resistenza, nella vigilia del definitivo moto insurrezionale, la Federazione Comunista Libertaria lanciava il suo appello ai partigiani anarchici e al popolo – “Ruit hora!” (L’ora precipita) – diffondendo per l’occasione uno speciale numero unico dell’antica gloriosa testata.
La Resistenza, sviluppatasi in quei territori dell’Italia centrosettentrionale rimasti in mano tedesca e costituenti la Repubblica Sociale Italiana, vedeva gli anarchici partecipare alla lotta armata in maniera cospicua quanto a contributo di sangue ma subendo l’egemonia delle altre forze di sinistra. Talvolta militavano in proprie specifiche formazioni partigiane, ma più spesso si trovavano inquadrati nelle “Garibaldi”, nelle “Matteotti” o in GL. Le presenze più rilevanti si registravano a Roma, nelle Marche, in Toscana, Emilia-Romagna, a Genova, Torino, Milano e in Friuli-Venezia Giulia. “Le loro formazioni di combattimento – ha scritto Gino Cerrito – rimanevano legate al Partito Comunista, al Partito Socialista, al Partito d’Azione”. E, sebbene non fossero secondi a nessuno nella lotta armata contro il nazifascismo, non riuscivano “a superare il gradino di inferiorità psicologica in cui li poneva la loro carenza organizzativa”.
Con le armi, senz’armi
Traiettorie transnazionali nella Resistenza europea
La Guerra di Spagna fu una cesura tragica e periodizzante per l’anarchismo internazionale, per la sua doppia sconfitta soprattutto, subita cioè sia contro il fascismo che contro il totalitarismo comunista. Nel ristretto arco temporale, racchiuso fra così importanti occasioni di volontariato in armi, ossia fra il 1936-1937 della speranza rivoluzionaria e il 1943-1945 della Resistenza europea, maturava una divaricazione radicale fra due opzioni di lotta contrapposte e dalle conseguenze di lunga durata. Da una parte si confermava quella prassi armata che aderiva alla guerra “antifascista” in atto, dall’altra si assumeva invece una posizione decisamente antibellicista e pacifista. Esemplifico queste due posizioni citando, a contrasto, due paradigmatiche traiettorie transnazionali europee: quella di Umberto Marzocchi (1900-1986) e quella di Maria Luisa Berneri (1918-1949). Il primo, Ardito del Popolo, combattente in Spagna, arruolato nella Legione Straniera e maquisard nella Resistenza francese; la seconda, figlia di Camillo Berneri, già esiliata in Francia e poi promotrice a Londra, insieme a un attivo gruppo di intellettuali inglesi, di un movimento di opposizione ai bombardamenti aerei durante la Seconda guerra mondiale. Del vissuto militante degli esuli antifascisti a Londra e di quello brevissimo di Maria Luisa, della loro perfetta integrazione negli ambienti progressisti inglesi, rimaneva un lascito teorico significativo, una traccia importante per costruire una possibile mappa delle culture libertarie e pacifiste del Novecento. C’era un’evidente linea di continuità fra l’impegno politico, l’attivismo degli anni Quaranta di questi precursori e i movimenti che irromperanno nel mondo anglosassone solo un paio di decenni dopo. L’attenzione peculiare ai temi della rivoluzione nonviolenta e dell’anti-bellicismo marcava anche la differenza fra i percorsi antropologico-culturali successivi dell’anarchismo anglofono rispetto a quelli dell’omologo latino sud-europeo, legato di più quest’ultimo agli stilemi classici dell’antifascismo militante di estrema sinistra, al suo armamentario ideologico e ai suoi miti.
Testi citati
Sul filo della memoria: intervista a Edera Sassi, in G. Sacchetti, Ligniti per la Patria (Ediesse 2002); M. L. Salvadori, L’Italia e i suoi tre stati (Laterza 2011); C. Pavone, Alle origini della Repubblica (Bollati Boringhieri 1995); Piombo con piombo. Il 1921 e la guerra civile italiana, a cura di G. Sacchetti (Carocci 2023); U. Eco, Il fascismo eterno (La Nave di Teseo 2018); G. Cerrito, Gli anarchici nella Resistenza apuana (Pacini Fazzi 1984).
Giorgio Sacchetti23