In questa lotta, o tutto o niente. Anarchia è solo un nome per quelli che abbracciano la sua promessa di riscatto e pienezza, e cercano di guardare in faccia il fatto che arrivarci sarà un lungo viaggio.
Noi umani stavamo là, un tempo, se dobbiamo credere agli antropologi.
Ora scopriremo se possiamo ritornarci. Molto probabilmente è la nostra ultima possibilità come specie.
John Zerzan
Innanzitutto teniamo a precisare che stiamo scrivendo queste righe non per partecipare a un “dibattito”, che nei fatti non esiste visto che gli articoli inerenti al transumanesimo pubblicati su questo giornale[1] vanno tutti in una sola direzione: “l’emancipazione attraverso le tecnologie”, ma per rispondere a quell’articolo apparso sul numero 3 di Umanità Nova scritto da Locorn. Vi giriamo quindi questo comunicato, perché è stata vergognosa la superficialità con cui si è voluto liquidare la critica primitivista con un’accozzaglia di frasi fatte.
Prima di passare alla critica dell’articolo vogliamo, in due parole, spiegare cos’è il transumanesimo: la teoria transumanista consiste nel disprezzo, neanche troppo velato, della natura umana e quindi del superamento di essa tramite un uomo che, attraverso protesi, tra-pianti e modificazioni genetiche, si fa sempre più un tutt’uno con la macchina.
Questo perché oltre che migliorare le nostre capacità fisiche questa trascendenza permetterebbe anche, per esempio, all’essere umano di adattarsi a vivere in luoghi in cui l’inquinamento non lo permetterebbe più. Viene quindi proposto dai transumanisti come l’ultima spiaggia: o ci si trasformerà in macchine completamente staccate dal contesto naturale in cui si è vissuto e si vive, oppure l’uomo si estinguerà.
Precisiamo così che il transumanesimo non ha nulla a che vedere con l’anarchia, il transumanesimo è solo l’ennesimo farmaco iniettato in un corpo morente che grida: “aiuto!”.
In quell’articolo ci siamo sentiti dire che la critica primitivista alle tecnologie è “insitamente reazionaria”; che i primitivisti vogliono ritornare ad una, non meglio precisata, “età dell’oro”; che i primitivisti sono sessisti e “regressivi sulla questione di genere”; per poi concludere con un bellissimo elogio al cyber-femminismo… eh sì, quella sì che è emancipazione!
Il prostrarsi alla scienza di una parte del “movimento” anarchico (come si era già visto per la questione vaccinale) è veramente una cosa allucinante e, se questa è la strada intrapresa, noi a gran voce rivendichiamo la nostra estraneità da simili dibattiti e soprattutto da persone che hanno scelto nei fatti di difendere lo schifo di società in cui siamo costretti a vivere!
Vogliamo così ribattere a una parte delle stupidaggini che sono state scritte in quell’articolo, consapevoli che non possiamo però risolvere la questione in queste poche righe, ma intenzionati comunque a dare uno stimolo a chi voglia rapportarsi alla critica anti-civilizzatrice in maniera seria e approfondita.
Il primitivismo è insitamente reazionario. Soffermiamoci un attimo sul significato della parola reazionario: “La reazione indica un’opposizione a forme di innovazione sociale, artistica, culturale o politica a sostegno del ritorno ad autorità, valori e istituzioni del passato, operata da partiti, gruppi di pressione o anche individui.”. Accusare quindi i primitivisti di essere reazionari significa avere poche idee e confuse, ma anche essere in mala fede.
La lotta che portiamo avanti contro il sistema tecno-scientifico non è una presa di posizione ideologica, ma una constatazione del fatto che è la tecnologia insieme alla scienza la principale responsabile ad aver creato un essere umano sempre più distaccato dall’ambiente in cui vive e che ha permesso una maggiore diffusione di quella visione antropocentrica (introdotta dall’agricoltura) che permea le nostre esistenza legittimando così lo sfruttamento della terra e di tutto ciò che può essere messo a profitto in nome del progresso.
D’altronde come si può pensare alla tecnologia in maniera neutrale quando è proprio la tecnologia che ci sta accecando attraverso i proprio schermi in HD, che ci ha privato dell’uso dei piedi senza le scarpe, che ci ha tolto l’orientamento attraverso i sempre più invasivi sistemi GPS, che ci ha fatto perdere una marea di conoscenze del territorio in cui viviamo racchiudendole in data-base ad uso e consumo di una stretta cerchia di persone, che sta distruggendo i rapporti sociali grazie ai tanto decantati social network, che distrugge i nostri sogni attraverso la realtà virtuale; e tanto più la tecnologia si diffonde, entrando nelle nostre vite, tanto più l’essere umano perde la propria indipendenza e quindi la propria libertà!
Allo stesso tempo rifiutiamo l’idea di progresso, per due motivi principali: innanzitutto per il suo carattere intrinsecamente razzista – infatti ci sono stati e ci sono ancora oggi, nelle zone più marginali e impervie del pianeta, molte bande di cacciatori-raccoglitori che non hanno mai VOLUTO subire il processo di civilizzazione, rifiutando “l’innovazione” portata dai conquistatori e per questo sono stati sterminati, deportati o nel “migliore” dei casi schiavizzati e, a meno che non si ritenga questi popoli inferiori da un punto di vista biologico, non si può negare che il progresso è una costruzione culturale, nata con la civiltà, che ha senso solo (“per chi ci crede”) per questo sistema che basa la propria sopravvivenza sullo sviluppo tecnologico e scientifico verso l’infinito; in secondo luogo perché semplicemente non ci troviamo nulla di auspicabile nel progresso che è ottenuto necessariamente tramite il lavoro, la conseguente divisione del lavoro e la competizione sfrenata, in una sola parola: l’alienazione!
Auspicare poi ad una società transumanista e, quindi. alla conseguente modificazione biologica dell’essere umano, significa proporre una società profondamente autoritaria, governata da un élite scientifica che non potrà più permettersi nessuna voce di dissenso.
L’opera di omologazione che non ha raggiunto questa società dei consumi verrà completata tramite il transumanesimo, quando in nome di un maggior “benessere” (il loro/vostro benessere) e una “migliore” aspettativa di vita per tutti, verrà imposto il pensiero di un ristretta cerchia, magari “libertaria”, di tecnocrati che avendo il monopolio della tecnica e avendo cancellato per sempre l’idea di una natura selvaggia dell’essere umano, riuscirà a comandare su una massa di lobotomizzati senza più coscienza.
Una prospettiva raccapricciante che nemmeno Hitler, con la sua follia, era mai riuscito a immaginare! Chi sono i reazionari?
L’età dell’oro. Parlare di “età dell’oro” è sicuramente fuorviante e sottende una semplificazione strumentale! D’altronde anche Zerzan l’ha sempre detto: “non è necessario tornare indietro, ma dobbiamo andare avanti verso un primitivo futuro”.[2]
Oggi tra l’altro abbiamo a disposizione tantissimi studi in campo antropologico e archeologico che fanno luce su quella che è stata la vita dei nostri avi al di fuori della civiltà. Nessuno parla o ha mai parlato delle tribù non civilizzate come di un eden in cui tutto va bene e in cui non esistono problemi, ma oramai ogni antropologo concorda sul fatto che agricoltura e allevamento, economia e tecnologia siano alle fondamenta di rispettivamente lavoro, divisione del lavoro, malattie, sfruttamento della terra e delle sue risorse, stati e guerre.
Marvin Harris nei suoi studi arriva a queste conclusioni: “Gli uomini dell’età della pietra vivevano una vita più sana di quella dei loro posteri: nell’epoca romana le malattie erano ovunque molto più diffuse rispetto prima (…). I cacciatori dell’età della pietra, inoltre, per assicurarsi la sussistenza, lavoravano molto meno dei classici contadini cinesi ed egiziani o degli operai delle fabbriche moderne, nonostante i sindacati. Riguardo ad amenità quali il buon cibo, i divertimenti e i piaceri estetici, gli antichi cacciatori-raccoglitori si concedevano lussi che solo i più ricchi americani di oggi possono permettersi. (…) Nell’età della pietra, era assicurata a tutti una dieta ad alto valore proteico e a basso contenuto di amidi. E la carne non era congelata o gonfiata con antibiotici e coloranti artificiali.”[3]
Questi studi dovrebbero essere presi sul serio non per mitizzare quel periodo storico, ma per avere un quadro generale sui benefici che in teoria dovrebbero averci dato le tecnologie e la scienza. Non abbiamo quindi nessuna età dell’oro a cui ritornare, anche perché ci sono bande di cacciatori-raccoglitori ancora oggi presenti sulla terra, che ci dimostrano che non c’è bisogno di città, soldi, tecnologie all’avanguardia o vestiti all’ultima moda per vivere una vita a pieno.
Sia chiaro: non sarà certo il vivere in eterno con un pistone al posto del cuore o poter scaricare il proprio cervello su un computer a fare la nostra vita felice. La vita è fatta anche di dolore, questo i nostri avi lo sapevano bene, e di morte: negarci la possibilità di morire non sarà certo un’emancipazione nei confronti della natura, questo non farà di noi degli uomini liberi, ma sarà una sconfitta, quel giorno l’uomo sarà morto per sempre!
Regressivi sulla questione di genere. Dulcis in fundo, dovevamo sentirci dire anche questa… Non sappiamo se chi ha scritto l’articolo abbia effettivamente letto “la riproduzione artificiale dell’umano” o ne parli dopo aver letto le veline di qualche gruppo transumanista.
È innegabile che Escudero, che comunque NON è primitivista, sia in maniera non troppo velata sessista, e proprio a questo proposito rimandiamo all’interessante critica fatta da una compagna a quel libro.[4]
Vogliamo poi ribadire (visto che chi ha scritto quell’articolo se ne è ben visto dall’approfondire la critica anticiv!) che la critica al sistema tecnologico in particolare e alla civiltà in generale, non impone dinamiche patriarcali, ma anzi questa critica tende proprio a scardinarle alla sua origine.
Facciamo così una piccola precisazione chiamando in causa prima Enrico Manicardi, che nel suo libro scrive: “La divisione tra ‘maschi’ e ‘femmine’ è una divisione puramente culturale, non naturale. Se è ovvio, cioè, che tra un uomo e una donna esistono differenze di tipo biologico, è altrettanto vero che analoghe differenze possono riscontrarsi tra chi abita all’equatore e chi vive nell’emisfero artico (…). La differenza, di per sé, non è indicativa di alcuna divisione: può solo esserne il motivo culturale. La ‘biologia non è destino’, sosteneva la femminista Anne Koedt, che precisava: ‘i ruoli maschile e femminile vengono appresi’.”[5]. Vogliamo poi citare anche il collettivo americano Green Anarchy che, nel documento di introduzione al pensiero anarchico di anti-civilizzazione, parla così del patriarcato: “creando false distinzioni di genere e divisioni fra uomini e donne, la civiltà, ancora una volta, crea un ‘altro’ che può essere oggettivato, controllato, dominato, utilizzato e trasformato in merce. Questo processo è parallelo all’addomesticamento delle piante per l’agricoltura e degli animali per l’allevamento (…). Come in altri ambiti di stratificazione sociale, alle donne vengono assegnati ruoli intesi a stabilire un ordine molto rigido e prevedibile, vantaggioso per la gerarchia. La donna è giunta ad essere considerata una proprietà, non diversa dal raccolto nei campi o dal gregge al pascolo. (…) Il rapporto di interdipendenza tra la logica della civilizzazione e il patriarcato è innegabile; per migliaia di anni hanno entrambi plasmato l’esperienza umana a tutti i livelli, da quello istituzionale a quello personale, mentre divoravano la vita. Per essere contro la civilizzazione bisogna essere contro il patriarcato, e per mettere in discussione il patriarcato è necessario mettere in discussione anche la civiltà.”[6]
Chiudiamo questo nostro soliloquio ribadendo che è l’azione, che individualmente e collettivamente pratichiamo, a distinguerci da tutta la putrefazione che ci circonda, da chi si limita solo a giudicare dall’alto delle propria “saccenza”; rifiutiamo però allo stesso tempo il ruolo di dispensatori di saggezza e non ci interessa certo avere o appiccicare etichette, come invece, purtroppo, sembra andare di moda oggi; vogliamo però fare una precisazione sulla parola Anarchia, che per noi significa liberazione totale, liberazione con ogni mezzo da tutta l’oppressione che questo sistema genera, liberi di tornare ad essere selvaggi senza più lo strazio del lavoro e le dipendenze da società tiranne, perché che questa sia democratica, totalitaria o libertaria poco ci importa.
Abbiamo ben chiaro quale sia il nemico, abbiamo scelto da che parte stare, e siamo vicini a tutti coloro che, come noi, quotidianamente lo attaccano senza alcuna mediazione, vicini a tutti i compagni che ostinatamente si ribellano nelle carceri e nelle strade di tutto il mondo e come dicono i compagni di Nunatak: “le uniche catene che amiamo sono quelle montuose”.
Se alcuni preferiscono parlare di democrazia diretta e giardinaggio urbano, noi riteniamo che sia impossibile e indesiderabile “rinverdire” la civiltà o renderla più “giusta”. Consideriamo importante tendere verso un mondo radicalmente decentrato, sfidare la logica e la mentalità della cultura della morte, porre fine a qualsiasi mediazione nelle nostre vite e distruggere tutte le istituzioni e le manifestazioni fisiche di questo incubo. Vogliamo diventare incivili.
Green Anarchy
Collettivo Anarchico Incubo Meccanico
Note:
(1) http://www.umanitanova.org/tag/transumanesimo/
(2) John Zerzan “Senza via di scampo? Riflessioni sulla fine del mondo”, Arcana (2007)
(3) Marvin Harris “Cannibali e Re”, Feltrinelli (1979), pag. 10.
(4) https://www.informa-azione.info/leggendo_quotla_riproduzione_artificiale_dell039umanoquot_recensione_critica
(5) Enrico Manicardi “Liberi dalla Civiltà”, Mimesis (2010), pag. 85.
(6) Green Anarchy Collective “Green Anarchy”, Nautilus (2004), pag. 16.
Qui trovate una prima risposta da parte di uno dei redattori di UN