Spesso Bologna si è trovata ad essere un crocevia importante nella storia italiana (pensiamo, solo nel secondo Novecento, al movimento del 1977 e alla strage del 2 agosto 1980) ora la documentatissima ricerca di Antonio Senta e Rodolfo Vittori “Guerra civile. Bologna dal primo dopoguerra alla marcia su Roma, 1919-1922“, Zero in condotta, 2024 euro 20,00 ci permette di apprezzarne il ruolo anche nel periodo immediatamente successivo alla Prima guerra mondiale.
Gli autori evidenziano come in città la violenza antiproletaria sia iniziata immediatamente dopo la fine del conflitto. Già all’indomani della “vittoria”, il 5 novembre 1918, viene aggredito il sindaco socialista Zanardi, il 15 giugno 1919 si ha la prima vittima della violenza squadrista, la bracciante Geltrude Grassi, e i nazionalisti cercano di dare l’assalto, armi in pugno, alla camera del lavoro confederale. Quindi se è corretto parlare di “controrivoluzione preventiva” (secondo l’espressione coniata da Luigi Fabbri): una violenza reazionaria che si contrappone alla mobilitazione rivoluzionaria delle classi subalterne, sembra invece necessario sfumare la tradizionale partizione che vede un “biennio rosso” (1919-1920) a prevalenza proletaria seguito da un “bienno nero” in cui dilaga la violenza fascista. Piuttosto si registra fin dal primo momento una dura contrapposizione tra aspirazioni rivoluzionarie e reazione armata.
La ricerca evidenzia il ruolo preponderante dei nazionalisti nello “squadrismo urbano” del 1919 mentre il primo fascio bolognese appare ininfluente e paralizzato al suo interno dai contrasti tra l’anima nazionalista e quella interventista democratica (rappresentata da personaggi come Pietro Nenni, che all’inizio avevano creduto nella possibilità di imprimere un carattere progressista al nuovo movimento). I nazionalisti raccolgono ufficiali, studenti ed ex interventisti in una “alleanza tra la cattedra e la caserma”, fin dall’inizio lautamente foraggiata dalla borghesia e appoggiata dalle forze armate e dalla questura.
Il libro dà anche un giusto rilievo all’importanza dell’anarchismo all’interno del movimento proletario bolognese (aspetto spesso sottaciuto dalla storiografia tradizionale): fino al trasferimento a Milano nel luglio 1920 a Bologna si riunisce il comitato centrale dell’USI e si pubblica il settimanale “Guerra di classe”, qui nel 1919 viene promossa la sottoscrizione per la creazione di un quotidiano anarchico e nel luglio 1920 si tiene il congresso fondativo dell’Unione anarchica italiana. La “vecchia camera del lavoro” USI di Porta Lame raccoglie consistenti adesioni in contrapposizione a quella della CGL e gli anarchici operano strenuamente per cercare di attrarre i socialisti in una alleanza fattivamente rivoluzionaria.
Il problema è l’assenza di una vera strategia rivoluzionaria condivisa: “assistiamo a una tensione continua verso lo sciopero generale, mitizzato come possibile momento di deflagrazione insurrezionale; ma quando esso viene indetto o scoppia spontaneo, durando anche più giorni, l’insurrezione, in quanto non preparata in maniera coordinata, non si dà” (p. 101)
Intanto, mentre lo Stato risponde alle agitazioni operaie e bracciantili con frequenti eccidi proletari (Imola, Decima, Modena, ecc.), i possidenti, intimoriti dalla mobilitazione proletaria cominciano a organizzare forze di autodifesa appoggiandosi sui nazionalisti prima, sui fascisti in seguito.
In campo agrario la rivalità tra la maggioritaria Federterra socialista, i sindacati anarchici e soprattutto le associazioni mezzadrili cattoliche introducono pericolose divisioni nel campo del lavoro, che verranno poi abilmente sfruttate dal padronato.
Nel corso del 1920 il fascismo bolognese viene riorganizzato dallo squadrista Arpinati che ne fa una poderosa macchina da guerra, sottraendo progressivamente adepti (e finanziamenti padronali) ai nazionalisti. Se a Trieste l’incendio dell’Hotel Balkan (centro delle organizzazioni slovene) costituisce, il 13 luglio 1920, il battesimo dello squadrismo organizzato, ben maggiore risonanza a livello nazionale ha la strage di palazzo d’Accursio (21 novembre 1920) con cui viene impedito l’insediamento dell’amministrazione comunale socialista a Bologna. Una operazione banditesca coperta dalla questura che scarica ogni responsabilità sugli aggrediti (secondo un copione che diventerà la norma).
A settembre si era conclusa ingloriosamente l’occupazione delle fabbriche (ultima possibilità secondo Fabbri di scatenare una rivoluzione in Italia) e la reazione ormai imperversava. Arrestato Borghi a Bologna il 13 ottobre, ne era seguito in pochi giorni l’arresto dell’intera redazione di “Umanità Nova” (che pure continuerà le pubblicazioni), di Malatesta, di quasi tutto il consiglio nazionale dell’USI. Tiepidissima la solidarietà socialista.
In questo clima le squadre fasciste operano attraverso una strategia abilmente coordinata, concentrano le loro forze anche da province diverse per colpire un’unica località in condizioni di superiorità preponderante seminando morti e distruzione. In questo modo le roccaforti proletarie vengono smantellate una per una. Quando trovano una resistenza inattesa preferiscono ritirarsi in buon ordine in attesa di un momento migliore. Al contrario le forze “sovversive” raramente riescono ad uscire da un’ottica localistica. Quel che è peggio gli appelli anarchici alla resistenza armata unitaria cadono nel vuoto. I socialisti preferiscono una suicida strategia nonviolenta e legalitaria. I comunisti ben presto si ritirano per costituire proprie fantomatiche formazioni armate. Esempi unitari come la “guardia rossa” di Imola che costringe i fascisti a battere in ritirata sia a dicembre 1920 che a marzo 1921 costituiscono una eccezione. In questo clima di divisioni anche gli Arditi del popolo faticano a diffondersi (per poi essere rapidamente colpiti dalla repressione statale).
Il 1921 e il 1922 vedono una escalation ormai incontrollata della violenza squadrista in tutta la provincia, con distruzioni di case del popolo e cooperative e uccisioni mirate di militanti sovversivi – una triste cronologia di sangue puntualmente ricostruita dagli autori in modo particolareggiato fino alla marcia su Roma- . I fascisti (con qualche contrasto al loro interno) creano anche organizzazioni sindacali “autonome” in cui fare affluire “spontaneamente” i lavoratori rimasti disorganizzati (D’Annunzio – allora in rotta con Mussolini – definirà l’operazione come “schiavismo agrario”). Le organizzazioni mezzadrili cattoliche con miopia assecondano la battaglia antisocialista (di lì a pochi anni saranno spazzate via anch’esse dalla costruzione dello Stato totalitario).
Un libro che è utile leggere, non solo per conoscere il passato ma anche per comprendere un presente rappresentato da un governo autoritario che vara leggi sempre più repressive contro le proteste sociali (da ultimo il DDL 1660 ora in discussione al Senato) e in cui le camicie nere tornano a sfilare davanti alla stazione di Bologna.
Mauro De Agostini