La fortezza Europa affila i denti (per il momento quelli da latte) e prepara robuste dentiere d’acciaio per i tempi a venire quando IL nemico per eccellenza (l’orso russo) l’assalirà per prenderla alla gola. Avanti allora con lo stanziamento ‘previsto’ di 800 miliardi di euro per l’industria delle armi – europee ma soprattutto statunitensi – avanti con il riarmo, con la reintroduzione della leva militare e soprattutto con la militarizzazione dell’intera società. Avanti verso la guerra: in fin dei conti è sempre con un bagno di sangue che le nazioni nascono, crescono e si consolidano. La storia degli Stati europei è lì a raccontarcelo. L’ultima della serie è stato il conflitto sanguinoso (ormai dimenticato) degli anni ’90 nella ex Repubblica federativa d’Jugoslavia e la conseguente nascita di tanti staterelli. Ora è la volta dell’Europa che se vuole dar vita ai fatidici Stati Uniti d’Europa deve percorrere la strada del sacrificio bellico, del sangue comune versato contro IL nemico: l’unico metodo per fare sentire veramente europei, nazionalisti europei, popoli attraversati e separati da secoli di conflitti, di contrapposizioni, di antagonismi. Il linguaggio delle armi è unico, comprensibile e praticabile da tutti.
Ormai la parola d’ordine dell’esercito europeo è sulla bocca di: media, intellettuali di prestigio, giornalisti d’eccellenza, politici di rango. In Europa e in Italia. Macron, che rispolvera di fatto addirittura i propositi della Nouvelle Droite, offre l’ombrello atomico insieme al laburista Starmer, il polacco Tusk afferma con sicumera che la guerra con la Russia è questione di poco, il tedesco Merz vuole a gran voce riarmo e bombe nucleari. Liberal-democratici, cristiano sociali, socialdemocratici tutti a braccetto a votare a Bruxelles per dare 800 miliardi alla famelica industria delle armi. In Italia è in scena il solito teatrino degli opportunismi tipico del ‘vorrei ma non posso’. La classe politica italiana deve fare i conti con un’opinione pubblica (quella vera, non quella interpretata dai media) che, in maggioranza, è contraria alla guerra e al riarmo, che non ama la burocrazia della UE, né Putin, né Trump. E vorrebbe piuttosto una sanità che funzioni, che aumentino i salari, che i servizi pubblici siano all’altezza della domanda sociale. Allora ecco le furbizie della Meloni che si barcamena tra Trump e la UE, il Partito Democratico con un piede in due scarpe e utilizza il voto sugli 800 miliardi per la resa dei conti interna, la Lega di Salvini che fa la voce grossa ma poi rimane nel governo che vota il riarmo.
E tutto questo in una cornice di retorica bellicista sparsa a piene mani da voci ‘autorevoli’ che richiamano i maschi italici all’orgoglio virile, allo spirito combattivo: tra poco arriveremo ai panciafichisti di mussoliniana memoria.
Non manca nemmeno chi, come Michele Serra, dalle colonne di Repubblica, il quotidiano della famiglia Elkann Agnelli, ha chiamato a scendere in piazza per manifestare per l’Europa raccogliendo adesioni a destra e a manca, un altro quadretto significativo di quanto sta accadendo nel nostro paese: occultare nel nome dell’unità europea il disegno del riarmo complessivo e della centralizzazione politica guidata dagli Stati più forti della UE. Sotto le bandiere blu gli azionisti della principale industria delle armi italiana, la Leonardo, hanno sfilato insieme alle bandiere arcobaleno della CGIL a quelle del PD e a Fratoianni. Ma l’Europa per la quale hanno sfilato è quella della Commissione Europea, guidata da Ursula von der Leyen, quella delle ultime, severe e inumane, leggi sul rimpatrio forzato degli immigrati irregolari. Non è l’Europa di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.
L’occasione d’altronde è unica per il nazionalismo continentale, con Trump che attacca l’Unione europea minacciando sfracelli economici e il ritiro delle truppe americane (e intanto manda nelle basi USA del vecchio continente le bombe atomiche di ultima generazione…), addirittura l’uscita dalla NATO (quando in realtà vuole semplicemente usarla per maggiori forniture d’arma di marca USA) e l’alleanza sotto traccia con la Russia di Putin per incrinare il suo rapporto con la Cina.
La modifica della struttura dell’Unione può passare attraverso la scelta militare delegando agli Stati, economicamente e numericamente, più forti la direzione di fatto della sua politica. Francia, Germania, Polonia, Italia, Spagna han dato vita a riunioni separate facendo pure rientrare nell’alveo UE la Gran Bretagna a guida laburista. L’aumento delle spese militari, la riorganizzazione dell’industria militare, sono sul tavolo, il problema è, per loro, quale forma assumerà la necessaria centralizzazione e il comando dell’intera operazione.
La trasformazione della UE in un gigante imperialista e militarista alla pari di USA, Russia e Cina è da tempo nei desideri delle borghesie nazionali del vecchio continente. Fino ad ora hanno usufruito dei vantaggi della ‘protezione’ americana loro garantita nei confronti di ogni possibile insorgenza sociale, pur subendo il freno posto dagli USA ad ogni autonomia strategica. Ma ora che lo scontro intercapitalistico portato agli estremi da Trump è al calor bianco, grazie alla politica dei dazi, e agli appetiti crescenti nei confronti di altri territori e delle loro risorse (la Groenlandia – e in prospettiva l’Artico -, il Canada e Panama, per non parlare dell’accordo di rapina sulle terre rare ucraine), queste borghesie sono sul piede di guerra e pongono sul piatto il tema, ormai ineludibile per loro, dell’unità concreta, quindi politica e militare, dell’agglomerato dei 27.
Preservare i propri mercati, quindi i propri profitti e i propri apparati industriali diventa fondamentale per sopravvivere in questa fase dove uno degli attori principali, gli USA, ha deciso di andare alla riscossione dei propri crediti e alla riduzione dei propri debiti.
‘Il rapporto sulla competitività’ di Mario Draghi diventa, in questo quadro, la Bibbia del buon nazionalista europeo. Ecco quindi la revisione delle politiche comunitarie, in primis quella dell’industria dell’automobile, la riduzione dei piani di transizione ecologica, il rilancio del nucleare, e, ciliegina sulla torta, la costruzione di un polo militar-industriale continentale in grado di dare ossigeno all’apparato produttivo europeo, grazie all’enorme contributo economico degli 800 miliardi promessi da Ursula von der Leyen con il suo ‘ReArm Europe’, soldi a debito sottratti alle spese sociali. Non è una novità; da tempo, in Italia, siamo ormai assuefatti al trasferimento di ricchezza sociale dal pubblico al privato, e questo anche sull’onda delle politiche UE basate sull’austerità. Quell’austerità che ha impoverito pesantemente il proletariato europeo. Ricordiamoci della Grecia e di quanto soffrì la popolazione ellenica grazie a quelle politiche che fecero strame di una pur minima solidarietà tra i popoli, elemento fondante questa di una qualsivoglia concezione di unità. Quell’unità che oggi si invoca per far fronte al nemico, la stessa invocazione che si è sempre alzata al momento delle armi e del conflitto. Un’invocazione che nasconde un disegno ben più pericoloso di un nemico che non ha nessuna intenzione di arrivare fino a Lisbona: quello della militarizzazione della società, della sua gerarchizzazione spinta, della sua trasformazione/conversione in un blocco acefalo imbevuto di suprematismo comunque si manifesti.
Il crollo dell’ordine mondiale che stiamo vivendo, la fine del bipolarismo, l’emergere di nuovi soggetti politici ed economici, il riscaldamento climatico con tutti i suoi effetti e i processi migratori che genererà, i mutamenti indotti dall’applicazione crescente dell’intelligenza artificiale nel mondo del lavoro e nella società, sono tutti elementi che spingono verso soluzioni autoritarie se non si sarà in grado di dare risposte efficaci, se non si innalzeranno barricate simboliche e concrete alla barbarie dilagante. Smascherare la retorica dell’unità della fortezza Europa e del suo esercito è un passo in questa direzione.
Massimo Varengo