“Prima di internet, non sarebbe stato facile trovare qualcuno e farlo sedere per dieci minuti a lavorare per te, per poi licenziarlo passati quei dieci minuti. Ma con la tecnologia puoi trovarlo, pagarlo una miseria e poi sbarazzartene quando non ti serve più” questa frase (attribuita all’imprenditore americano Lukas Biewald) non è una battuta di spirito ma registra alla perfezione una delle nuove frontiere dello sfruttamento, quella – sfuggente – dei “lavoratori delle piattaforme”.
L’armamentario dello sfruttamento padronale si arricchisce ogni giorno di nuovi strumenti, senza dismettere nessuno di quelli già in uso. Così, accanto a modelli arcaici e “illegali” come il lavoro in condizioni semischiavili nei campi di pomodoro, con “paghe” di pochi euro al giorno e largo utilizzo di manodopera minorile immigrata, convivono forme di sfruttamento legalissime come l’uso di contratti a termine, le false partite IVA, i subappalti al massimo ribasso, i voucher (che ora stanno tornando alla grande). A fianco di queste cresce sempre di più il numero di persone che lavorano per una piattaforma digitale.
Ma chi sono questi “platform worker”? Rientrano in questa categoria tutte quelle persone che, nel mondo illusorio della “sharing economy” (che vorrebbe dire “economia della condivisione”, ma spesso è solo sfruttamento nudo e crudo) offrono le proprie prestazioni lavorative utilizzando una piattaforma digitale.
Così troviamo persone che in rete offrono traduzioni, lezioni, consulenze, svolgono servizi di call center o di chat senza mai incontrare fisicamente nessuno. Per fare un esempio, attraverso la piattaforma “Amazon Mechanical Turk” (AMT) è possibile offrire prestazioni lavorative per svolgere compiti “che i computer, a oggi, non sono in grado di fare” (citiamo da Wikipedia) “come identificare gli artisti in un cd musicale, le migliori fotografie di un negozio, la scrittura delle descrizioni di un prodotto”, inutile dire che il compenso è stabilito dal datore di lavoro. In tutti questi casi si parla di “crowdwork”, letteralmente “lavoro nella folla”, perché si offre il proprio lavoro in rete a una massa potenzialmente infinita di clienti che poi ti “scelgono”, magari per quell’unica micro-prestazione e magari da un altro continente (si parla anche, in questo caso, di piattaforme “web-based”).
Ci sono poi persone che svolgono un lavoro a chiamata tramite app. Questo è il mondo più familiare dei “rider” che ci portano il cibo a domicilio, dei “driver” di Uber che fungono da tassisti, degli “shopper” che portano la spesa a casa ecc. ecc. questa seconda categoria è composta da gruppi più stabili, che svolgono il loro lavoro in un’area geografica in genere delimitata, in cui i lavoratori entrano fisicamente in contatto con i clienti (e possono anche entrare in relazione tra di loro). In questo caso si parla anche di piattaforme “location-based”.
Vi sto ubriacando con tutti questi anglicismi? Purtroppo questi sono i termini di uso corrente e, per citare lo scrittore Sandro Bonvissuto, “attribuire un nome inglese ad un mestiere di merda lo fa subito diventare migliore” e l’inglese è ormai una sorta di neo-lingua orwelliana che consente di mascherare la realtà grazie a termini incomprensibili alle masse.
Ma di quante persone stiamo parlando? Secondo una indagine svolta dall’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP) a metà 2021 i lavoratori delle piattaforme in Italia erano 570.521, cioè l’1,3 % della popolazione tra i 18 e i 74 anni (cifre comunque ipotetiche, visto che una stima precedente della fondazione Debenedetti fissava la cifra tra i 700mila e il milione nel 2018) . L’80% degli intervistati dall’INAPP considerava questa attività come la propria fonte principale di reddito o comunque come una fonte rilevante. Circa il 65% delle persone intervistate svolgeva un lavoro di chiamata tramite app: in larga misura erano impegnate nella consegna di pasti a domicilio (36,2%), nella consegna di prodotti o pacchi (14%), nello svolgimento di lavori domestici (9,2%), come taxisti (4,7%).
Dei rider e delle loro lotte ci siamo occupati in altri articoli su “Umanità Nova” (n. 11/2021 e 23/2022). In questo caso la mobilitazione ha consentito di ottenere risultati importanti anche se rimane moltissimo da fare. I padroni (difesi da stuoli di avvocati) si trincerano dietro contratti pirata come quello stipulato tra UGL e Assodelivery che relega i rider nel lavoro autonomo e nel cottimo. È di questi giorni la notizia che il colosso della consegna della spesa a domicilio Everli (pur essendo già stato condannato due volte per condotta anti-sindacale) sta cercando nuovamente di sottoscrivere un contratto capestro con sindacati di comodo. Diffusissimo è il caporalato digitale (secondo l’indagine INAPP potrebbe interessare anche il 25% dei lavoratori). Persone prive di scrupoli subaffittano i loro “account” a immigrati privi di documenti pretendendo il versamento di cospicue tangenti (se ne è accorta persino la magistratura, che ha aperto l’ennesima inchiesta). Gli incidenti per i ciclo-fattorini costretti a correre sulle nostre strade per realizzare le aspettative dell’algoritmo sono all’ordine del giorno. Tra gli ultimi rider uccisi per lavoro ricordiamo Sebastian Galassi a Firenze, Muralidharan Abhishek e Elvis Munyi Kiiru a Roma (quest’ultimo travolto mentre faceva le consegne a piedi).
Se nel caso dei lavoratori “location-based” le lotte sono in pieno corso (solo nelle ultime settimane si segnalano riuscite mobilitazioni a Torino, Pisa, Roma…) l’organizzazione dei lavoratori “web-based” è un mondo ancora tutto da esplorare. Ma nuove forme di sfruttamento richiedono nuove forme di ribellione!
Mauro De Agostini