Può valer la pena di prender le mosse da una valutazione sorprendente: la manifestazione è stata molto bella, viva e partecipata. In realtà la cosa non era assolutamente scontata – chi ha una qualche conoscenza del movimento No Tav sa sin troppo bene che presenta un andamento, ad esser buoni, carsico, sovente sembra se non sparire sommergersi, a volte si infila in un vicolo cieco o nella mera reiterazione di iniziative ineffettuali, non di rado viene attraversato da tensioni interne tanto più forti quanto più la situazione è complicata. Se il 19 maggio la manifestazione era numerosa, vivace e capace di rimettere in circolo energie, era perché si sentiva che qualcosa di importante stava avvenendo.
Intanto è bene non dimenticare quanto negli stessi giorni stava avvenendo su quella frontiera: la morte dei migranti, comportamenti indecenti della gendarmeria francese e la vile acquiescenza a questi comportamenti del governo italiano. Ma, piaccia o meno, la manifestazione si collocava in relazione ad una delle più gravi crisi politiche della storia repubblicana e ad una vera e propria rivoluzione passiva che stava portando al governo un’alleanza politica assolutamente inedita. In qualche misura si può affermare che i No Tav, quantomeno la loro componente istituzionale, “stavano andando al governo” e che, com’è normale quando un movimento va al governo, stava rapidamente adattandosi alla sua nuova funzione.
Com’è noto chi scrive ha una certa qual simpatia per Alberto Perino, che ha apprezzato spesso per la capacità di tenere assieme le anime più diverse del movimento No Tav. A maggior ragione, quando a petto del salto triplo carpiato del M5S si è limitato ad affermare che, avendo lui fatto sindacato sa come funzionano le trattative, non ha potuto fare a meno di pensare che il sindacato cui faceva riferimento era la Cisl e cioè il sindacato che dichiaratamente ritiene un accordo, qualsiasi accordo, l’alfa e l’omega dell’azione sindacale. È invece proprio in questo momento che la sostanziale impoliticità del movimento si è tradotta in uno straordinario ruolo propriamente politico. Il porre al centro l’obiettivo genetico del movimento senza alcun cedimento, senza alcuna ambiguità e senza alcun isterismo ha rovesciato la contraddizione nel fronte istituzionale: sia dentro il M5S, con Luigi di Maio che si è affrettato, per altro in maniera un po’ buffa, a ribadire la sua fede No Tav, sia nei rapporti tra M5S e Lega, con la prima frizione su questioni di merito dell’alleanza carioca.
Si tratta, allora, di assumere questo livello di autonomia non solo anche se necessario in negativo ma, nella misura del possibile, in positivo. In altri termini, il rifiuto delle grandi opere nella forma in cui si è espressa nel movimento No Tav è stato un salto di paradigma dal punto di vista del tradizionale impianto delle componenti maggioritarie del movimento dei lavoratori, che hanno sempre visto nella dilatazione quantitativa (di qualsiasi genere fosse) della spesa pubblica e quindi dell’intervento statale un obiettivo da perseguire. Un movimento che pone all’ordine del giorno la natura di questa spesa, le sue ricadute sociali, il modello di sviluppo a cui si informa esprime, quantomeno per allusione, in maniera incoativa, una tensione all’autogoverno e dunque un paradigma politico nella sua apparente ingenuità assolutamente innovativo.
Immaginiamo che una simile logica, ovviamente nelle forme specifiche di ogni situazione si diffonda – cosa che per altro è già in parte avvenuta – e si diffonda proprio perché il movimento No tav costituisce un mito sociale, una sintesi originale fra pensiero ed azione, fra tradizione ed innovazione, fra conflitto e individuazione dei luoghi e discussione politica generale. È su una base del genere che è immaginabile la capacità di incalzare l’avversario, non limitandosi semplicemente ad opporsi alla sua iniziativa ma proponendo un proprio discorso, una propria ipotesi, tali da metterlo sotto scacco purché si abbia l’intelligenza e la forza di praticare conflitto in maniera puntuale.
Cosimo Scarinzi