Arresti, botte, censura: i giornalisti curdi in Turchia operano nelle più dure condizioni-Quando nel gennaio 2016 mi trovavo nella città curda di Nusaybin al confine turco-siriano nell’intervallo tra due coprifuoco ho conosciuto una giovane collega. Meltem Oktay ha accolto me e il mio amico Onur in una casa da tè nel parco centrale di Baris. Nativa di Dersim, era arrivata qui per riferire per conto dell’agenzia stampa Dicle Haber (Diha) della brutale guerra che lo Stato turco da mesi conduce contro la popolazione curda nel sudest del Paese. “Mi sento in dovere di comunicare al mondo quello che succede qui”, così spiega la decisione di lavorare in questa zona pericolosa. Ci ha aiutati come ha potuto. Senza di lei e i suoi colleghi di Diha, anche per noi come giornalisti stranieri qui non sarebbe stato possibile svolgere lavoro giornalistico.
È grazie a persone come Meltem Oktay che le informazioni sul fuoco di carri armati e artiglieria, uccisioni mirate da parte di cecchini, espulsioni mirate, arrivino all‘esterno. Per questo corrono un grave rischio. Perché lo Stato turco li perseguita senza pietà.
L’11 aprile le forze speciali hanno assaltato l’abitazione di Meltem Oktay e del suo collega Ugur Akgül a Nusaybin. “Sapevano che eravamo disarmati, ma ci hanno minacciati lo stesso con le armi. Mi hanno gettato a terra, preso a calci, ci hanno urlato-Siete terroristi, in questo paese non c’è posto per voi!”, ricorda Akgül. “Al posto di polizia la violenza fisica si è trasformata in psicologica: siamo stati continuamente minacciati di torture.”
Vendetta dello Stato
Akgül ora è di nuovo libero, Meltem Oktay si trova ancora agli arresti. Le istituzioni la accusano di far parte del PKK. Attualmente condivide questo destino con altri dodici giornalisti di Diha. Perché l’agenzia stampa è presente dovunque dia fastidio alla classe regnante: quando il 28 dicembre 2011 jet da combattimento turchi hanno spento la vita di dozzine di civili a Ortasu, sono stati i reporter di Diha i primi a dare la notizia. E sono stati sempre loro a scrivere per primi di una partecipazione dello Stato turco nell’assassinio dell’avvocato curdo Tahir Elci. E sono stati ancora loro a fissare tempestivamente nelle immagini la collaborazione tra soldati turchi e miliziani dello “Stato Islamico” al confine con la Siria.
“I nostri colleghi vogliono mostrare la verità di quello che succede qui. E lo Stato turco vuole punirli per questo”, spiega il collaboratore di Diha Ramazan Pekgöz a Jungewelt. “Non si tratta di altro che di vendetta.” Se si chiede come a Pekgöz degli ostacoli che lo Stato turco mette sul percorso dei giornalisti curdi indipendenti, si delinea un quadro complessivo della censura: “Subito, quando nel luglio 2015 hanno iniziato la guerra, hanno chiuso il nostro sito web. Da allora è stato bloccato per 37 volte.” Reporter che lavorano sul posto vengono intimiditi, minacciati, arrestati, picchiati.
Libertà di stampa
In tutta la Turchia circa 100 giornalisti lavorano per Diha, di cui 50 nelle zone curde. Arresti e angherie fanno parte delle esperienze quotidiane di queste donne e uomini per lo più giovani. Attualmente dieci reporter si trovano in modo continuativo nelle galere turche. L’accusa è sempre la stessa: Appartenenza a un’organizzazione fuori legge. Siccome non fanno informazione di regime come la vorrebbe lo Stato turco, i giornalisti vengono accusati di propaganda per il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) che è vietato in Turchia, Europa e negli USA. “Vogliono farci tacere, ma noi non staremo zitti”, dice Ramazan Pekgöz. I fatti parlano per lui: il reporter di Diha Mazlum Dolan è stato uno dei primi a fotografare la città vecchia di Diyarbakir chiusa e completamente distrutta – è stato arrestato. Il reporter di Diha Nedim Oruc ha riferito degli attacchi dei carri armati a Silopi – è stato arrestato. Il reporter di Diha Nuri Akman era sul posto a Kobane, Cizre, Nusaybin – anche lui è stato arrestato.
Tutti loro, le loro storie e quello che devono patire perché fanno il loro lavoro in una situazione di guerra, in occidente viene ignorato. Eppure la situazione dei giornalisti curdi, che in Turchia vengono perseguitati più di tutti, è la misura per le limitazioni alla stampa nel suo complesso: “Se in Turchia ci sarà mai libertà di stampa si vedrà dal fatto se anche noi giornalisti curdi saremo in grado di lavorare liberamente”, dice Ramazan Pekgöz. Al momento non sembra essere così. La situazione, così dice il giornalista, che anche lui è già stato in carcere, al momento è “sotto molti aspetti peggiore di quella negli anni ‘90”.
Peter Schaber,
Traduzione a cura di Norma Santi