Si fa sempre più stringente la morsa militare nella società civile. Come collettivo Ferrovierə Contro la Guerra (FCG) lo abbiamo visto con la ratifica dell’accordo Leonardo-RFI, ma la guerra invade anche scuole, porti, aeroporti ed enti di ricerca, sempre più sotto attacco per la deriva bellica italiana e mondiale. Anche i luoghi di lavoro di tipo industriale e logistico, in teoria al riparo da un loro impiego nella corsa al riarmo e alla movimentazione guerrafondaia, stanno subendo riconversioni da un ambito civile a quello militare.
Il dibattito sull’opposizione alle lavorazioni a scopo bellico nei luoghi di lavoro civili sta crescendo sempre più, in modo direttamente proporzionale all’escalation del riarmo in corso. La domanda che conseguentemente ci poniamo come FCG ma anche come classe lavoratrice è: può una lavoratrice o un lavoratore esprimere la propria contrarietà ad essere utilizzata/o in attività di tipo militare? Sul piano esclusivamente legale la risposta è che non ha diritto a opporsi. Ad oggi manca infatti una legislazione che tuteli chi, coscientemente, vuole rifiutarsi di impiegare le proprie mansioni e professionalità per obiettivi militari. Un vuoto normativo che lascia aperto uno spazio indefinito ove un rifiuto del dipendente può costare sanzioni, vessazioni, isolamento financo a un possibile licenziamento. In breve: repressione senza scrupoli nei confronti di chi vuole evitare la follia e la disumanità dell’allargamento del conflitto mondiale, del genocidio in corso a Gaza e di un’economia di guerra che sempre più sta dissanguando lo stato sociale e togliendo prospettive ai rinnovi contrattuali.
In Italia, fino al 2010, l’unica opportunità legale di rifiuto in ambito militare si configurava soltanto nell’obiezione di coscienza al servizio militare, Legge n. 230 del 1998. Una legge che poi è stata abrogata con il D.lgs. 15 marzo 2010 n. 66, mentre, al contrario, la leva obbligatoria è stata di fatto solo sospesa (Legge 23 agosto 2004, n. 226). Sospensione peraltro vincolata alle decisioni dell’ordine costituito, come recita l’articolo 78 della Costituzione: “le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”. In soldoni: se lo Stato decide di andare in guerra noi tutti siamo chiamati a essere “ pronti alla morte l’Italia chiamò”.
La storia del rifiuto del servizio militare va brevemente raccontata, anche per fornire un quadro di insieme che può aiutare a comprendere come si arrivi ad avere tali diritti.
La Costituzione italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, prevede all’articolo 52 che «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge». Tale obbligo incontrò da subito delle resistenze (nel 1949 col caso Pietro Pinna) e nei 40 anni intercorsi tra l’articolo 52 e la Legge 230 si registreranno diversi casi – non molti per la verità – di rifiuto del servizio militare per motivi politici, etici, religiosi. I rifiuti – anche se come detto non esisteva un vero e proprio movimento di massa antimilitarista – iniziarono a incrinare l’apparato statale. Anarchici, socialisti, non violenti ma soprattutto Testimoni di Geova, diedero vita nel corso del tempo a un generalizzato movimento critico sul servizio militare obbligatorio e sulla relativa repressione che, a suon di incarcerazioni, voleva piegare la resistenza degli antimilitaristi che non volevano sottomettersi (ma non siamo tutelati dalla Costituzione più bella del mondo?). La Legge capestro e piena di elementi critici del 1972 (Marcora 772/72) e quella successiva del 1998 furono una conseguenza di queste spinte dal basso, ma anche di un opportunismo statale che valutò la conseguenza positiva – sotto vari aspetti – dell’istituzione del servizio civile alternativo che rappresentava – ieri come oggi – una risorsa a costo zero da impiegare a vari livelli nella produzione. Oltre a questo, lo Stato poteva fare a meno di “inconvenienti vari” come il nonnismo, che in taluni casi istigava perfino al suicidio, ma soprattutto il movimento di protesta dei proletari in divisa ecc. Infine va aggiunto che quando, alla faccia dell’articolo 11 della Costituzione, (“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…”) c’era da impiegare soldati nei conflitti sparsi per il globo (ufficiali o meno) si usavano i corpi speciali.
La situazione di oggi si differenzia dalle lotte fatte sul servizio militare, se si considera che l’obiezione nei posti di lavoro intacca inevitabilmente la produzione di ricchezza. Se tuttavia la circostanza è diversa, quello che resta uguale è l’opposizione e la battaglia necessarie a ottenere il diritto al rifiuto.
Nei vari confronti che si stanno tenendo in questi bui periodi citiamo l’incontro – organizzato dai sindacati di base CUB-COBAS e da FIRENZE PER LA PALESTINA – tenuto a Firenze il 18 settembre scorso e avente come obiettivo di discussione “Antimilitarismo nei posti di lavoro, approfondimenti legali su obiezione di coscienza”.
L’incontro – ben partecipato con circa 60, 70 presenti – prevedeva le relazioni di un magistrato e di un avvocato che, almeno nelle previsioni, dovevano fornire delucidazioni giuridiche (e possibili indicazioni) su come lavoratrici e lavoratori possono rifiutarsi di effettuare prestazioni lavorative a scopo militare. Gli interventi dei relatori, molto lunghi e a tratti dispersivi, vertevano su un semplice uso della Costituzione che già dispone – a detta del magistrato – di strumenti immediati a uso e consumo della classe lavoratrice, mentre l’avvocato è stato più cauto nel dare sicurezze: “obiezione? Dipende, non è scontato che un magistrato del lavoro acconsenta a un rifiuto”. Il ricorso allo sciopero, costantemente ristretto, non garantisce un suo pronto utilizzo a causa delle norme in essere che allungano i tempi per una proclamazione e, sempre l’avvocato, indicava invece nella Legge 413/1993 (obiezione di coscienza alla sperimentazione animale) degli appigli più validi, quali l’articolo 1 della suddetta legge, utilizzando il punto che prevede che “i cittadini (…) si oppongono alla violenza su tutti gli esseri viventi”. Insomma, niente di concreto ma solo ipotesi tutte da verificare.
Più interessanti e significativi gli interventi di lavoratrici e lavoratori, che con i loro contributi hanno evidenziato da un lato le criticità oggettive nei luoghi di lavoro e dall’altro hanno manifestato un’alta coscienza di classe, reclamando l’obiezione come un diritto da strappare con la lotta e non con inutili cavilli burocratici. Un dibattito ove eravamo presenti come Ferrovierə Contro la Guerra proprio in funzione della difficoltà che incontriamo con i treni militari. Difficoltà che abbiamo visto concretamente riflettersi nel caso di un lavoratore addetto alla scorta di trasporti eccezionali, il quale a sua insaputa si era trovato davanti il trasporto di un carro armato. Una preventiva assenza di informazioni che, come può capitare al macchinista di un treno merci, mette in seria difficoltà il lavoratore, il quale – come abbiamo visto – non dispone di alcun strumento se non quello della sua coscienza e integrità morale.
La solidarietà e la sinergia tra categorie di lavoro, movimenti antimilitaristi, sindacalismo e società civile sarà determinante per fermare guerre e genocidi: questo è il messaggio centrale che esce dal confronto che è vivo e che continua a crescere e camminare nelle nostre menti. Questo è il percorso che ci siamo dati come Ferrovierə Contro la Guerra
Andrea – Ferroviere contro la guerra