Uno dei problemi centrali della questione israeliano-palestinese è la dipendenza pressoché totale della forza lavoro palestinese dall’economia israeliana. La mancanza di un autonomo ciclo economico palestinese, rende la striscia di Gaza e la Cisgiordania una riserva di manodopera a bassissimo costo per le esigenze dello stato israeliano. Le alterne politiche di chiusure ed aperture dei valichi con i territori palestinesi ed il sistema dei permessi di lavoro in Israele, sono una fonte di ricatto sociale ben superiore alle costrizioni militari.
I permessi di lavoro sono concessi solo per quei settori in cui i palestinesi non siano in competizione con i lavoratori israeliani ed hanno una doppia funzione, quella di dosaggio della forza lavoro e quella di controllo politico-sociale. I permessi contengono informazioni dettagliate sia sul lavoratore che sul suo datore di lavoro e formano un rapporto reciproco tra i due, in cui i lavoratori sono costretti a fornire manodopera solo per il datore di lavoro segnato sul loro permesso. Il rilascio è condizionato dal possesso di una carta di identità biometrica e dall’aver superato un controllo di sicurezza da parte del Coordinatore Israeliano delle Attività del Governo nei TPo (COGAT), un ramo dell’esercito israeliano che coordina le attività nei TPo (Territori Occupati). I permessi sono concessi fino a sei mesi di durata, ma possono essere arbitrariamente annullati in qualsiasi momento dal datore di lavoro o dai Servizi di Sicurezza israeliani. I datori di lavoro usano la minaccia di annullare il permesso per disciplinare i lavoratori che si iscrivono al sindacato, chiedono diritti o sono coinvolti in qualsiasi tipo di attività politica. Nel 2020 è stato adottato un nuovo sistema di autorizzazioni per ottenere un permesso di lavoro, i palestinesi devono avere una carta d’identità biometrica rilasciata dal ramo militare israeliano nei Territori Occupati e superare un test che include fattori non legati alla sicurezza, ad esempio se il lavoratore è sposato o ha più di 22 anni. Di fatto il lavoratore paga una vera e propria tassa che si aggira sui 2500 shekel mensili (ca. 700 euro) contro un salario medio giornaliero intorno ai 300 shekel (ca. 85 euro) con punte fino a 700 shekel (ca. 170 euro). Lo sfruttamento dei lavoratori palestinesi deriva da un sistema ideato da Israele per cosiddette «esigenze di sicurezza».
Il processo di assunzione vero e proprio inizia con uno dei 2400 appaltatori israeliani ufficialmente registrati che presenta una domanda per un permesso di lavoro per un manovale palestinese all’Autorità per la popolazione e l’immigrazione. Al termine del periodo di lavoro, l’appaltatore dovrebbe informare le autorità per far cessare la validità del permesso. Ma negli anni si è radicata una pratica illecita: invece di restituire i permessi, gli appaltatori li vendono tramite un intermediario ad altri manovali che sono disposti a pagare somme importanti. E’ solo l’inizio. L’intermediario tiene per sé 600 shekel (circa 190 euro). L’appaltatore prende il resto, quindi emette una busta paga falsa ai «suoi» dipendenti che non includono il numero effettivo di giorni in cui il dipendente ha lavorato o il suo salario reale. Per il lavoratore palestinese non c’è scampo, se smette di pagare, l’intermediario sospende il suo permesso di lavoro. “Dai soldi all’intermediario ogni mese, non importa quanto hai lavorato. Il sistema ti costringe a dipendere da loro”. La «tassa sul permesso», come la chiamano da queste parti, viene pagata dai più giovani, dal momento che i lavoratori di età pari o superiore a 55 anni non sono più tenuti a richiedere un permesso per andare in Israele.
I permessi mensili costano ai lavoratori tra 591,27 e 793,9 dollari e questo impedisce loro di avere un salario adeguato anche quando percepiscono la paga oraria minima come da contratto. Sebbene siano un onere finanziario notevole per i lavoratori, i permessi non sono una garanzia del posto di lavoro. Il 72% dei lavoratori che acquistano il permesso vengono scambiati fra i datori di lavoro (così che non sono mai sicuri dell’identità del loro datore di lavoro e non hanno nemmeno un’evidenza legale della loro assunzione) oppure devono cercarsi autonomamente un lavoro, spesso in forma illegale. I lavoratori palestinesi impiegati nell’economia israeliana con un permesso valido, hanno diritto a ricevere il salario minimo israeliano, così come una paga netta e lorda che rispecchi quella dei lavoratori israeliani nel medesimo settore e sia in linea con il CBA (Accordo di Negoziazione Collettiva). C’è però una significativa discriminazione salariale tra i lavoratori palestinesi e la loro controparte israeliana. Il salario netto medio che i lavoratori portano a casa mensilmente è di molto inferiore, dopo le detrazioni delle tasse obbligatorie (tra il 10% e il 14 %) e le deduzioni per la previdenza sociale (8,02% del salario per i lavoratori nell’edilizia e 7,4% negli altri settori), la quota per i mediatori (tra 591,27 e 739,9 dollari per il 45% dei lavoratori), ulteriori appaltatori e spese di viaggio a carico (147 dollari). Il salario lordo, per chi ha un permesso di lavoro, si aggira mediamente tra gli 81,40 e i 94,72 dollari e per chi il permesso non ce l’ha tra i 44,40 e i 59,20 dollari al giorno. I lavoratori senza permesso sopportano quindi l’incertezza e l’umiliazione di vendere la propria forza-lavoro su base giornaliera, e quindi non hanno un’entrata mensile assicurata; un fatto che li lascia in uno stato di costante preoccupazione e vulnerabili ad un ampio sfruttamento. L’impiego al nero di donne e bambini è particolarmente diffuso nelle fattorie degli insediamenti rurali nella Valle del Giordano occupata, dove i salari si aggirano tra i 14,76 e i 20,67 dollari al giorno. Secondo la Confederazione Generale dei Sindacati Palestinesi (PGFTU), alcuni Palestinesi che lavorano negli insediamenti portano a casa un salario mensile così basso che può ammontare anche a soli 236.22 dollari. I lavoratori sono spesso pagati in contanti su base giornaliera, settimanale, bisettimanale o mensile, a seconda degli accordi con il datore di lavoro. Questo sistema lascia i lavoratori particolarmente vulnerabili a deduzioni arbitrarie o al trattenimento della paga.
I lavoratori palestinesi sono impiegati soprattutto in lavori faticosi, pericolosi, difficili e sporchi, dove il rischio di infortuni sul lavoro è alto. La maggior parte non ha accordi contrattuali e sono vulnerabili ad un’ampia serie di abusi, incluso un orario di lavoro irregolare, mancata retribuzione di straordinari e turni notturni e nessun avanzamento d’anzianità, così come la mancata previdenza sociale. Alcuni, secondo la Banca di Israele, lavorano fino a 27 giorni al mese. La mancanza di lavoro e le paghe basse hanno trasformato il mercato del lavoro israeliano in una fonte fondamentale di impiego per un gran numero di Palestinesi. Nel 2019, più di 133.000 Palestinesi erano occupati in Israele, di questi il 61% in edilizia, 12% in manifattura, 6% nel commercio, 6% in agricoltura o impiegati da aziende israeliane negli insediamenti illegali e in Israele. Questi lavoratori costituiscono circa il 18,5% della forza-lavoro in Cisgiordania e il 13,8% nei TPo, generando un profitto stimato in 2.4 miliardi di dollari. I lavoratori attivi nel mercato del lavoro israeliano generano circa il 40% del prodotto interno lordo (PIL) dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).
Le problematiche legate al lavoro potrebbero essere risolte in toto od in parte se nei territori palestinesi vi fosse una significativa possibilità di lavoro, ovvero di attività economiche autonome. Purtroppo lo sviluppo delle attività economiche nei territori palestinesi non si è verificato, per una serie di cause tra le quali la non disponibilità energetica. Il grado di autonomia energetica rappresenta un elemento costitutivo per innestare un ciclo produttivo e sotto questo profilo la situazione è del tutto deficitaria. Il settore energetico, unitamente alle risorse idriche dei territori, risultano essere totalmente dipendenti dall’estero e soprattutto condizionati dalle politiche di apertura o restrizione imposte da Israele: la quasi totalità di luce elettrica viene venduta dalla Israel Electric Corporation alla controparte palestinese. La Palestine Energy and Natural Resource Authority (PEA) rappresenta l’istituzione governativa di riferimento, mentre a Gaza è attiva la Gaza Power Plant (GPP), ma la sua attività si limita esclusivamente a essere il soggetto referente dei fornitori israeliani in loco. Quindi, anziché agire nel campo della produzione, la GPP si limita a ricevere risorse altrui, i cui quantitativi e i relativi prezzi vengono stabiliti indipendentemente da soggetti stranieri. Tutte le politiche di approvvigionamento, infatti, vengono definite da Israele. Il controllo dei valichi e le ripetute operazioni militari costituiscono la realizzazione di una politica strutturale volta a contenere, ma anche ad annichilire l’eventualità che dai benefici di uno sviluppo economico generale traggano vantaggio anche le attività di guerriglia.
Tuttavia il territorio non è totalmente privo di risorse, i giacimenti offshore di Gaza Marine potrebbero costituire una risorsa, ma dal momento della loro scoperta, inizi anni novanta, sono stati oggetto di dispute. Ad oggi potrebbero soddisfare almeno il 10% della domanda energetica interna, riducendo così i prezzi energetici, garantendo nuovi posti di lavoro e cambiando la direzione della curva produttiva. Il giacimento in questione, scoperto agli inizi degli anni Novanta dalla British Gas Group (BG Group), non ha mai generato utili per i palestinesi. Israele ha sempre sostenuto che Gaza Marine si troverebbe nelle proprie acque territoriali, anche se è stata la stessa BG Group a smentirla. Oggi, con Hamas, che detiene il controllo di Gaza, le possibilità di un accordo si sono fatte ancora più inconsistenti. Inoltre il giacimento è divenuto ulteriore motivo di scontro tra l’ANP e Hamas, la quale teme che il governo del presidente Abu Mazen possa mettersi d’accordo con Israele a discapito di Hamas.
Altro punto nodale nello sviluppo di autonome attività lavorative è la gestione delle risorse idriche. Gli squilibri nello sfruttamento delle acque costituiscono uno dei motivi più remoti dello scontro tra arabi e israeliani. Si calcola che ogni palestinese disponga di 115 metri cubi d’acqua all’anno, contro i 250 per ciascun cittadino israeliano. Nel 1995 si profilò un accordo, mai realizzato, tra Israele e i Paesi confinanti che avrebbe dovuto ripartire equamente le risorse idriche, delle quali soltanto un terzo è utilizzabile. Il 60%, infatti, evapora e circa il 5% confluisce in mare. Il rimanente 35%, infine, penetra nel terreno e viene raccolto nelle falde acquifere naturali. Non bisogna poi dimenticare che la superficie della regione è occupata per circa il 60% dal deserto del Negev. Per preservare le sue risorse, Israele ha adottato una politica di sfruttamento idrico molto rigida, ma anche funzionale, impostata sull’assegnazione di quote d’acqua, prezzi calmierati, riciclaggio delle acque reflue e desalinizzazione. Ma queste misure sono quasi impossibili da adottare da parte dell’ANP. L’occupazione israeliana, infatti, ha ostacolato lo sviluppo di strutture che potrebbero garantire una migliore utilizzazione delle risorse esistenti.
Anche l’aspetto della sicurezza sanitaria sul lavoro risulta del tutto precario. In caso di infortunio, gli operai palestinesi incontrano difficoltà ad accedere a cure adeguate e ad ottenere un risarcimento, nonostante siano assicurati secondo la legge israeliana di Sicurezza Sociale. I lavoratori palestinesi non hanno diritto alle cure mediche in Israele, se non per il pronto soccorso e devono tornare nei territori palestinesi occupati per ulteriori cure. I lavoratori devono autofinanziarsi per i cospicui costi della sanità con deduzioni sulla paga certificate con un “bollo sanitario” e richiedere in seguito un rimborso dal servizio sanitario nazionale israeliano. Per molti lavoratori, pagare i costi delle cure mediche senza un rimborso immediato e affrontare la perdita di salario dovuta all’assenza dal lavoro non è una opzione praticabile, e quindi fanno a meno delle cure necessarie. Le richieste di rimborso sono procedure complesse e richiedono una cospicua documentazione in ebraico per comprovarne la validità, cosa che implica la richiesta di assistenza da parte di terze parti, spesso incorrendo in ulteriori spese.
In conclusione la dipendenza dei Palestinesi dal mercato del lavoro israeliano li espone a uno sfruttamento su larga scala. La Banca Mondiale stima che il 30% delle famiglie della Cisgiordania viva in povertà, si prospetta una realtà ancora più dura per le famiglie di Gaza, dove si prevede che le famiglie che vivono in povertà, passeranno dal 53% al 64%. La schiavitù dal lavoro israeliano è più dura che l’oppressione militare.
Daniele Ratti