Il vocabolo “crisi” indica oggi il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici sociali di vario genere prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà. Come i malati, i paesi diventano casi critici. Crisi: la parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire “scelta” o “punto di svolta”, mentre ora sta a significare “Guidatore, dacci dentro!”… “Crisi” però non ha necessariamente questo significato. Non comporta necessariamente una corsa precipitosa verso l’escalation del controllo. Può invece indicare l’attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all’improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa.
In un mondo economicamente in avaria, ma politicamente stagnante, lo shock deve talvolta arrivare “dall’esterno”, da fattori o eventi che inizialmente non sono né economici né politici e, all’occorrenza, nemmeno strettamente umani. Non che le epidemie possano dirsi fenomeni puramente biologici, ma ci pare evidente che se quest’episodio dell’eterna lotta fra l’uomo e gli agenti patogeni, che oggi va sotto il nome di Covid-19, sta prendendo una piega così drammatica, ciò risulta dall’ambiente peculiare – quello sì, puramente sociale – in cui essa si svolge. Che una “tempesta perfetta” in ambito economico fosse in arrivo, lo si sapeva da tempo. Che questa si potesse coniugare con una pandemia di vaste proporzioni, difficilmente lo si sarebbe potuto prevedere. Ciò introduce innegabilmente un elemento di novità nello scenario, la cui valutazione richiede prudenza e sangue freddo: troppe volte si è detto che nulla sarebbe più stato come prima per i più insulsi spostamenti di virgola. Vero è che il concreto modo di vita di una parte crescente della popolazione mondiale è già pesantemente intaccato (circa tre miliardi di confinati sulla carta al 25 marzo), e la tendenza andrà senza dubbio rafforzandosi. I pochi che ancora pensano di poter tornare al solito tran-tran dopo tre settimane di quarantena light passati su Netflix, resteranno delusi.
Ovviamente ogni crisi ha sue caratteristiche specifiche, ogni gabbia è un segmento di una rete di gabbie. Se partiamo dai luoghi in cui la natura profonda dell’attuale ordine del mondo si disvela senza eccessivi infingimenti, il sistema carcerario, di per sé orrendo, si rivela un potenziale focolaio così come le case di “riposo”, per anziani veri e propri luoghi di accompagnamento accelerato alla morte, ma si tratta, appunto, solo di cartine di tornasole, il Covid-19 pone in evidenza, infatti, i punti di debolezza dell’attuale modello sociale nel suo assieme dall’inadeguatezza radicale del welfare alla fragilità di un sistema produttivo basato sulla circolazione planetaria di merci senza magazzino e, quindi, a repentaglio a ogni blocco. Ovviamente i manutentori caritatevoli dell’esistente possono sostenere che c’è solo la necessità di investire qualche risorsa in più in spazi, in personale, in strumenti ma questa linea di azione è, in prospettiva, destinata allo scacco di fronte all’impossibilità, dentro questo modello produttivo e sociale, di garantire, i profitti delle imprese e, nel contempo, investimenti adeguati a garantire salute, reddito, welfare soprattutto se si tiene conto del fatto che “salute” vuol dire alimentazione, abitazioni dignitose, condizioni di lavoro tali da garantirla, ecc.
Proviamo allora a formulare qualche problematica ipotesi sulle possibili mobilitazioni che ci attendono. È evidente, per un verso, che, sul piano immediato ogni segmento sociale colpito dall’attuale situazione, dai detenuti a coloro che si trovano senza reddito, non potrà che porre la propria specificità e che, di conseguenza, non possono che darsi mobilitazioni particolari, ognuna condizionata dalle condizioni in cui si sviluppa.
Se, però, guardiamo alla situazione nell’unica prospettiva che ne coglie l’effettiva natura, quella generale, è altrettanto evidente che la somma di una serie di soluzioni parziali a specifiche sofferenze sociali avrebbe il suo limite nell’incompatibilità fra la modalità di allocazione delle risorse che caratterizza le relazioni sociali capitalistiche, in qualsiasi forma si diano – mercantile o di stato – e la stessa vita della specie.
Come già rilevavo, infatti, se si garantissero adeguati investimenti per soddisfare il diritto alla salute, al reddito, a una vita degna di essere vissuta all’assieme della popolazione è evidente che il profitto delle classi dominanti non sarebbe più garantito. Si tratta, però, di cogliere appieno o, almeno, di provare a farlo il nesso tra lotta fra le classi e prospettiva generale in cui si colloca al di là delle sue manifestazioni immediate.
Se si dovesse riassumere, in maniera necessariamente schematica, una piattaforma sindacale radicale “di fase” le rivendicazioni immediate da porre sono chiare:
1. Forti investimenti nella sanità, nella casa, nel welfare in generale e, di conseguenza, una politica economica coerente a questi obiettivi dal taglio delle spese militari, dei privilegi dei gruppi sociali, appunto, privilegiati (ceto politico, nomenclatura che prospera sotto la protezione statale, ecc.), di quelle per le “grandi opere” inutili e nocive, ecc. a una riforma della fiscalità in senso fortemente progressivo sino a una patrimoniale che riguardi le grandi fortune;
2- Garanzia del reddito per la massa imponente di lavoratrici e lavoratori colpiti dalla crisi economica determinata dalla situazione sanitaria. Inevitabilmente una misura di questa fatta dovrebbe fare i conti con i caratteri peculiari del capitalismo italiano, con la presenza di una quota rilevantissima di lavoro nero, precario, stagionale – basta pensare al settore del turismo e a quello dell’agricoltura, a quello fintamente autonomo ma anche alla massa di persone occupate nel lavoro autonomo tradizionale che cadono, senza soluzione di continuità, in una condizione di vera e propria miseria. Una distinzione, che in questa fase sarebbe astrattamente giuridico-formale, fra lavoro salariato e lavoro autonomo consegnerebbe una quota consistente delle nuove povertà all’egemonia della destra populista e nazionalista;
3. Contrasto alla pretesa del padronato di imporre la continuazione del lavoro laddove non vi siano le necessarie misure di sicurezza, chiusura di tutte le attività non strettamente funzionali a garantire cura, alimentazione, sicurezza e adeguati investimenti immediati per garantirne il funzionamento;
4. Sviluppo di reti di mutuo soccorso assolutamente necessarie a rispondere all’inevitabile inadeguatezza dell’intervento pubblico e, soprattutto, a contrastare l’atomizzazione della nostra classe altrimenti consegnata alla subalternità all’apparato statale, ai racket politici quando non criminali e alla guerra di tutti contro tutti per l’accesso a risorse inevitabilmente limitate.
Ognuno di questi piani d’azione non può vedere che due momenti:
1. dentro alla pandemia essenzialmente, vista la difficoltà di forme di mobilitazione collettiva dagli scioperi alle manifestazioni, un’attività capillare d’informazione critica e sostegno individuale e collettivo ove sia possibile e necessaria;
2. nella fase immediatamente seguente l’organizzazione di mobilitazioni aziendali, locali e generali con al centro l’individuazione di chi è responsabile della crisi e la deve pagare a livello nazionale e internazionale.
È bene ricordare, anche se dovrebbe essere scontato, quando si ragiona su di una piattaforma cogliere la necessaria relazione fra lotta o obiettivi della stesso lotta, è lo sviluppo stesso dell’azione che seleziona ed articola gli obiettivi che, quando vengono propagandati da un soggetto organizzati hanno un ruolo di strumento di unificazione generale oltre che di stimolo all’azione.
In quest’attività è necessario contemporaneamente opporsi alle élites economiche e politiche tecnocratiche nazionali e internazionali responsabili della situazione ed alla destra populista che opera a ricondurre la giusta rabbia della nostra classe alla difesa del proprio Stato e del proprio capitalismo.
In particolare, oggi, va contrastata ogni illusione che vi siano, a livello internazionale, stati e capitalismi amici e che qualche donazione ne modifichi la reale natura di potenze in lotta per l’egemonia planetaria. Dobbiamo, in altri termini, avere e rendere chiaro che il primo nemico, non l’unico, è la nostra classe dominante e che solo l’unità internazionale dei lavoratori ha, potenzialmente, la forza, di ribaltare il tavolo. In merito vale, credo, la pena di riprendere quanto scriveva Visconte Grisi nell’articolo “L’Economia di Guerra ai Tempi della Pandemia”:
“Ma come andranno le cose quando tutto questo sarà finito? Come già detto ci sarà una accelerazione della crisi già in corso. Qualcuno già parla di “grande recessione” e di ritorno agli anni 30 del 900. Fra giochi di borsa e politiche monetarie espansive i grandi gruppi finanziari troveranno il modo di incrementare la loro ricchezza. Le grandi multinazionali si concentreranno ancora di più per aumentare i loro profitti. La concentrazione capitalistica provocherà il fallimento di tante piccole e medie imprese con il conseguente aumento esponenziale della disoccupazione. Il debito pubblico e privato aumenterà ulteriormente e verranno messe in cantiere opere pubbliche distruttive per l’ambiente, come la TAV o il TAP. Riprenderanno fiato le tendenze “sovraniste” che invocheranno la chiusura dei confini con le relative coreografie patriottarde, anche se è ormai difficile rimettere in discussione la divisione internazionale del lavoro che si è affermata negli ultimi decenni (in Italia non produciamo più neanche le mascherine!). Si imporranno forme di governo autoritarie e decisioniste fino ad invocare la militarizzazione della società. Insomma, per parafrasare uno slogan di moda: NON ANDRA’ TUTTO BENE. Da parte nostra dobbiamo prepararci a dare risposte a una prevedibile radicalizzazione dello scontro sociale e a prospettare una fuoriuscita da un modo di produzione capitalistico sempre più distruttivo e mortifero.”[1]
Se, come credo, quanto scrive Visconte è plausibile, ne derivano, almeno, alcune conseguenze che provo a schematizzare:
1. vi saranno lotte in contesti e settori nuovi rispetto a quelli ai quali siamo abituati e prenderanno forme impreviste il che è, contemporaneamente, un bene perché sorprenderanno i nostri avversari ma anche un problema per noi perché dovremo comprenderle es esserne parte attiva;
2. ferma restando la critica ai leoni di tastiera, dovremo saper utilizzare e rovesciare di segno l’accentuato peso dell’informatica, del lavoro da remoto ecc.;
3. soprattutto, è assolutamente probabile che il peso delle mobilitazioni sociali in senso lato animate da soggetti ai quali non siamo necessariamente abituati crescerà e ciò determinerà la necessità di lavorare ad una relazione efficace con le lotte aziendali e categoriali più “tradizionali”.
Ovviamente, gli appunti che ho provato a stendere hanno, come è inevitabile, il carattere di ipotesi, di tracce di un lavoro tutto da sviluppare.
Cosimo Scarinzi
[1] GRISI, Visconte, “L’Economia di Guerra ai Tempi della Pandemia”, Umanità Nova, n° 12, 2020, pp. 2/3.