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Là dove batte il cuore. Industria tessile: inquinamento e sfruttamento.

Là dove batte il cuore. Industria tessile: inquinamento e sfruttamento.

L’industria tessile mondiale ed il suo sviluppo hanno modificato nel tempo le modalità della produzione e delle vendite globali, arrivando a rappresentare, ad oggi, un business globale di enorme rilevanza, con più di 290 milioni di addetti.

Un comparto altamente competitivo caratterizzato da gruppi che possiedono marchi riconosciuti a livello globale quali Kering, LVMH, H&M, Inditex che hanno sostituito la piccola e media manifattura, caratteristica storica di questo mercato. Ma è anche un comparto altamente impattante dal punto di vista ambientale, poiché i cambiamenti del modo di produzione hanno esasperato i consumi di acqua, di sostanze chimiche, di energia nonché la produzione di rifiuti. Si può affermare che pochi settori come questo hanno contribuito a modificare complessivamente le condizioni di vita del presente. Il settore tessile infatti è andato affermandosi come la seconda industria più inquinante al mondo dopo quella petrolifera, non solo per il quantitativo di rifiuti prodotti, ma anche per un utilizzo massivo di una delle risorse naturali più preziose, vale a dire l’acqua. Basti pensare che per la produzione di 1kg di cotone sono necessari quasi 20 mila litri di risorse idriche. Secondo una ricerca della Ellen Mac Foundation emergono due dati: le emissioni di CO2 generate dalla catena dell’industria tessile supererebbero quelle dell’aviazione internazionale e del trasporto marittimo messi assieme; inoltre si ritiene nel 2050 l’industria tessile potrebbe essere responsabile del 25% delle emissioni di CO2. Annualmente vengono stimate emissioni per circa 3,3 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, cifra che equivale alla somma delle emissioni di 28 Paesi europei.

Le fibre impiegate nell’industria della moda possono essere naturali (il che non significa necessariamente che siano sostenibili) o sintetiche (il 70% del totale), queste ultime destinate a rappresentare in futuro la quasi totalità delle fibre, con netta prevalenza di poliestere. La produzione di fibra sintetica necessita ad oggi di 98 milioni di tonnellate di petrolio all’anno ed inevitabilmente è destinata a crescere nei prossimi anni. Le fibre sintetiche, a differenza di quelle naturali, non sono biodegradabili (quindi portano alti costi di smaltimento e riciclaggio) e sono costituite da microparticelle addirittura più dannose da quelle, di maggiori dimensioni, delle plastiche, microparticelle che con il lavaggio dei tessuti si disperdono nelle acque con notevoli danni per l’ecosistema.

Ma l’industria tessile risulta fortemente impattante anche per le trasformazioni intervenute nel mercato e nel modo di produzione e di consumo. Si è affermato infatti il “fast fashion”, la moda veloce: si producono capi di abbigliamento di bassa qualità in tempi molto rapidi, le collezioni durante una singola stagione possono essere di un numero 6 volte superiore rispetto al modello tradizionale, la bassa qualità favorisce il deterioramento veloce dei prodotti e il fenomeno dell’ “usa e getta”, determinando un aumento del volume degli acquisti sollecitato anche dai prezzi notevolmente inferiori rispetto allo “slow fashion”. In Cina, esempio dei nuiovi modelli di consumo nei mercati emergenti, il tempo di utilizzo dell‘abbigliamento si è addirittura ridotto del 70% negli ultimi quindici anni.

E’ noto quanto siano drammatiche le condizioni di lavoro e lo sfruttamento in un settore come quello tessile, sopratutto in molte zone del mondo, dove i bassi standard di salute e sicurezza si accompagnano spesso al lavoro forzato ed al lavoro minorile. E’ così che l’industria tessile, in cui gli addetti sono ufficialmente circa 300 milioni, ha visto recentemente una crescita annua intorno al 4%, con un valore per il settore di 2400 miliardi di dollari USA, secondo una stima della Banca Mondiale

Prima che nascesse la tendenza al fast fashion, circa 25 anni fa, si doveva mettere in conto un “lead time” fino a due anni per una nuova collezione. Questo lead time comprende tipicamente il primo design, la lavorazione dei materiali necessari, la produzione effettiva, la distribuzione e infine la vendita nel negozio. La strategia del fast fashion ha permesso alle aziende di accorciare sostanzialmente le catene di fornitura dalla metà degli anni ’90, riducendo il lead time a cinque settimane e meno. Da circa vent’anni le aziende sono addirittura in grado di rispondere alle preferenze dei clienti nell’arco di una stagione grazie a una catena di fornitura flessibile e rapida. . Negli ultimi vent‘anni, la crescita dell‘industria tessile è stata trainata soprattutto dai volumi delle vendite, mentre i livelli dei prezzi sono tendenzialmente diminuiti. In tempi più recenti, le condizioni quadro nel commercio al dettaglio dell’abbigliamento sono ulteriormente cambiate in modo significativo. Da qualche anno nel settore del fast fashion si può notare che le vendite attraverso le reti di filiali e nei grandi magazzini stanno diminuendo notevolmente, mentre stanno diventando sempre più importanti le vendite online, e il processo non si arresta, anzi. Persino i grandi operatori hanno dovuto tener conto della crescente importanza dei social media. Sono finiti i tempi in cui i marchi fast fashion erano in grado di (co)determinare le tendenze della moda attraverso un corrispondente grande sforzo pubblicitario. Al posto degli acclamati capi-designer, all’improvviso troviamo una moltitudine di influencer. Quello che è alla moda o lo sarà presto, quindi, è difficilmente prevedibile, figuriamoci influenzabile, persino dai leader del settore. I marchi fast fashion si sono dovuti adattare, pre-producendo piccole quantità, e reagendo in modo flessibile e veloce durante la stagione a quello che si afferma come trend. La produzione è quindi gestita in maniera intrastagionale secondo i dati di vendita; e in questo senso i gestori dei negozi locali svolgono un ruolo molto importante, in quanto non solo guardano alle vendite quantitative, ma possono fornire anche un feedback qualitativo sulla direzione della domanda. Non sorprende quindi che, secondo la casa d’investimento Barclays, Inditex produca solo il 25% circa della merce in anticipo. Il restante 75 % viene prodotto e consegnato durante la stagione, in base al successo delle vendite e al feedback locale. I tempi di consegna possono dunque essere ridotti a meno di un mese e in alcuni casi anche a solo due settimane. In questo modo, l’azienda evita che la produzione non risponda alle esigenze del mercato e che la merce invenduta debba essere svenduta a prezzi altamente scontati: le rimanenze sono le risultanze di un insuccesso.

Cosa c’è dietro tutto questo?

L’abbigliamento e soprattutto l’abbigliamento fast fashion è prodotto quasi esclusivamente nei “mercati emergenti”. Solo lì è possibile mettere in piedi una produzione “ad alta intensità di manodopera a costi competitivi”. Non sorprende quindi che due terzi dei 1.300 fornitori con cui lavora H&M provengano dall’Asia. In totale sono 1,6 milioni le persone coinvolte nell’intera filiera del pioniere svedese del fast fashion. Nel caso di Inditex, il principale concorrente di H&M, i fornitori sono addirittura 1.800. Due milioni di lavoratori producono i vestiti venduti dalle catene Inditex (in primo luogo Zara). Anche in questo caso dominano chiaramente i mercati emergenti dei pesi asiatici e, oltre a questi, Marocco e Turchia.

Con il crollo dell’edificio Rana Plaza in Bangladesh nel 2013, è balzato agli occhi pubblicamente e tragicamente come questi posti di lavoro sono spesso associati a condizioni di lavoro pessime, salari inferiori addirittura al salario minimo locale, come sia drammatica la disuguaglianza di genere o il divario retributivo tra donne e uomini. Il settore assume per la maggior parte donne: in paesi come Cambogia, Vietnam e Thailandia la percentuale di lavoratrici si aggira intorno al 75%.

Nel 2016 fornitori di Zara e di altri grandi imprese hanno applicato contratti di lavoro a rifugiati siriani in Turchia per poco più di un euro l’ora. Zara in Asia pagava 1,3 euro l’ora per 68 ore settimanali. In India nel 2016 stesso compenso, nel Magreb Zara sfruttava marocchini per 65 ore settimanali per 178 Euro.

In conclusione, anche nell’industria tessile per poter competere, per fare profitto, bisogna produrre in modo flessibile, occorre che la catena delle forniture sia più efficiente, veloce, adattabile alle richieste dei clienti. In sintesi significa tempi di produzione sempre più stretti, orari di lavoro sempre più massacranti, un asservimento totale alla produzione. Significa brutale sfruttamento. Nell’epoca del cosiddetto libero mercato, “l’ottimizzazione” della catena delle forniture è il battito del cuore del capitalismo, ma il prezzo lo pagano le lavoratrici e i lavoratori, la cui vita è sempre più asservita ai ritmi della produzione e dei consumi globali.

Daniele Ratti

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